18. Out of sight
18. Lontano dagli occhi
Aveva sbagliato tutto. Si era comportato da ingrato, arrogante e presuntuoso. Uno stronzo in pratica. Era capace di riversare la rabbia che provava per un individuo su tutti gli altri che non c'entravano assolutamente un bel niente, che cosa aveva nel cervello? Materia grigia puzzolente e nulla più.
Aveva inveito come un pazzo contro i due medici che lo avevano trattato con umanità e rispetto, secondo punto che lui aveva notevolmente trascurato. Chi diamine stava diventando? Mostro sarebbe stata una lontana definizione da ciò che era realmente.
Continuò a mangiucchiarsi le unghie o meglio ciò che ne restava, indeciso su cosa fare. In realtà, dopo quel momento, dopo essere riuscito a raggiungere le dimissioni non aveva in mente niente, il suo piano pateticamente terminava lì. Era corso via dalla "prigione" e ora era a un precipizio. Si era concentrato così tanto per uscire da quelle mura che una volta riuscitosi non sapeva cosa fare. Totalmente a corto di idee. Bloccato.
Stava brancolando in un buio metaforico, sotto il neon delle luci del corridoio dell'ospedale. Le persone gli scorrevano di fianco come pagine di un libro sfogliate distrattamente. Lui non era lì con loro, lo vedevano tutti, ma nessuno riusciva a sentirlo.
Si chiese che senso avessero avuto le agognate dimissioni. Era riuscito ad ottenere ciò che voleva ma non era cambiato niente, men che meno il suo umore, anzi a tratti sarebbe drasticamente peggiorato. Una volta a casa, cosa sarebbe effettivamente cambiato?
Avrebbe riacquisito la calma e tranquillità della sua comfort zone, ma chi si sarebbe preso cura di lui? Avrebbe fatto a pugni con la solitudine, sprofondando ulteriormente in un pozzo di depressione senza fine. Fisicamente non aveva neanche la resistenza di mettersi giù in strada e fare l'autostop, né tantomeno di aspettare un pullman. I trasporti pubblici non erano raccomandabili per la loro puntualità.
Si poteva dire che con le dimissioni fosse atterrato a un altro inferno, la sua vita, in fondo, era un pendolo che oscillava tra un limbo e l'altro, e quella giornata aveva tutti i propositi per peggiorare se non avesse visto lui. Come in un sogno, una sagoma andò sempre più a prendere forma fino a rivelare la figura del suo migliore amico, pochi passi distante, alla sua sinistra poggiato al distributore di merendine, con le mani ai fianchi e un'espressione imperscrutabile. Non poteva trattarsi di un miraggio o un'altra allucinazione.
Non aveva detto nulla al coreano delle sue dimissioni, eppure, era lì, di mattina, abbastanza strano giacché le sue visite avvenivano di pomeriggio. Pensò che lo avessero allertato Jeff e Clint, ma a conti fatti le tempistiche non corrispondevano, Lee doveva trovarsi lì per altro, dimostrazione ne fu la faccia divertita e sorridente.
Se qualcuno gli avesse detto cosa aveva combinato pochi attimi prima, dubitava che l'asiatico avrebbe avuto in volto quel ghigno tipico della sua ridicola fase di corteggiamento: ammiccava, faceva occhiolini, sorrisi preoccupanti, baci nel vento e cenno con le dita di chiamare. Chi era la destinataria di tutte quelle effusioni disgustosamente smielate? Si voltò e lì capì tutto.
Alle sue spalle una ragazza con indosso il camice da infermiera e capelli mogano raccolti in una coda di cavallo stava arrossendo imbarazzata, stringendo tra le mani pallide e affusolate un bicchiere fumante di caffè. La giovane sollevò la mano per salutare il coreano, che sembrava vittima di un incantesimo. Completamente stregato.
Newt non avrebbe mai voluto chiamarlo all'attenzione anzi, avrebbe voluto sfuggirgli se solo fosse stato umanamente possibile, ma erano praticamente l'uno di fronte all'altro e se voleva usare le scale o l'ascensore doveva per forza passargli di fianco. Non aveva scelta.
Allontanò la mano dalla stampella per sventolarla. Il sorriso timido e il capo basso, ricordava tanto un cane bastonato pronto per la strigliata del padrone.
«Oh-Newt!» Esclamò, fu difficile interpretare se nella sua voce fosse più presente sorpresa o sollievo. Il tono era incerto, come se lo avesse notato solo in quel momento, come se lo zoppo si fosse concretizzato all'improvviso lì e non stesse da tre ore cercando di avanzare, miseramente.
La caviglia doleva più di quanto si aspettasse. «Mi è venuto un colpo non trovandoti nella tua stanza.» Informò, andandogli incontro. «Poi ho ricordato che nel tuo stato non potevi andare lontano.» Accennò un ghigno, ma Isaacs non lo accodò. Il cipiglio appiattito e l'espressione seria portarono l'asiatico subito a ricomporsi. «Doveva essere una battuta, per sdrammatizzare e farti ridere.» Con un colpo gutturale si schiarì la voce, in viso un'aria apparentemente mortificata. Minho scherzava sempre, ma a volte ci andava giù pesante, non sempre poteva salvarsi in calcio d'angolo, doveva metterlo in conto.
Il biondo liberò un sospiro greve, era difficile ridere soprattutto dopo quello che gli avevano riferito Jeff e Clint e di come li aveva trattati, ma ci pensò Minho a scostarlo da quei pensieri, soffocandolo in un abbraccio fraterno.
Quando si distaccò sotto le suppliche del biondo di "aspettare un po' prima di rischiare di morire di nuovo", oltre a notare che fosse dimagrito, si focalizzò sulla scarpa sinistra. «Wow, amico...sembra quasi che tu stia per tornare a casa.»
«È così infatti, mi hanno rilasciato, uso questo termine perché qui è a tutti gli effetti una prigione.» Dichiarò a bassa voce, non stava dicendo completamente la verità, a dirla tutta era l'esatto contrario e si sentiva uno schifo per star mentendo all'unica persona che gli era stata vicino in giorni bui.
«No, wow, non ci credo, amico! È un sogno, qui si deve festeggiare! Il mio migliore amico torna a casa, gente. I dottori l'hanno dimesso.» Urlò ai pazienti e agli infermieri che stavano passando nel corridoio in quel momento. Sì, per Newt sarebbe stato un buon momento per sprofondare nel pavimento, se solo fosse stato possibile.
«Minho, piantala...» Bofonchiò, colpendo con una gomitata il fianco dell'amico. «Non è carino per chi resterà qui ancora per molto.»
«Vero, hai ragione...è un po' triste anche per essere black humor se ci pensi.» Abbozzò un'espressione pensierosa, ma durò poco. L'amico non sprecava mai il tempo per pensare. E Newt gli diede un'amichevole pacca sulla schiena, cambiando argomento.
«Allora...cosa mi racconti? Hai fatto conquiste?» Disse poi, stringendogli la spalla nell'amichevole stretta.
«Intendi la bellissima Jessica Rabbit che mi salutava?» Isaacs mosse il capo in cenno affermativo senza abbandonare il sorriso amichevole. Sapere che Minho non si crucciasse tanto per Brenda o chiunque altro lo faceva stare bene, il suo amico era un bravo ragazzo e non meritava di soffrire. «È stato tutto merito tuo, pive. Ero così disperato quando sono entrato nella tua stanza e l'ho trovata vuota, ho pensato che quei bastardi di Jigsaw si fossero intrufolati qui, prendendoti. Ho visto molti 007, lo so, ma poi quell'angelo mi ha detto che eri nello studio di Jeff e Clint e-»
Minho straparlava, era difficile stargli dietro e impossibile farlo tacere. In quel momento la mente di Newt era un aeroporto di pensieri, volavano a destra e sinistra, inafferrabili. E inafferrabile fu anche tutto ciò che gli disse in quel frangente.
«Sai, ho pensato spesso a quella torta, ne sono proprio innamorato.» Confessò, gli occhi brillavano come due stelle. Era ovvio, pensò Newt, l'aveva strafogata come un maiale, da solo, fregandosi di rimanergliene più di qualche fetta
«L'ho persino sognata! Che ne dici...potremmo andare in quella pasticceria e mangiarne un pezzo e festeggiare, ho conservato la carta dell'involucro, c'era l'indirizzo. Ti va bene, amigo? Potremo anche chiedere informazioni su chi te l'ha regalata dieci giorni fa, come una vera e propria indagine visto che al momento non ne abbiamo.» Propose il mangione, a raffica. Era davvero gasato, mai l'aveva visto così carico per un'indagine della CIA. Ed era proprio bravo a girare il coltello nella piaga.
«Magari un'altra volta.» Sibilò Newt a denti stretti, celando una smorfia di dolore, per fortuna Lee era troppo distratto dall'infermiera sexy e dalla torta sognante per rendersene conto. «Adesso voglio soltanto andare a casa, amigo.» Riprese quell'anacronismo tanto vero quanto simpatico. Minho era un fiume in piena, da un argomento balzava a un altro, era difficile stargli dietro, ma almeno c'era una nota positiva: aveva rimediato il passaggio e forse per un po' sarebbe riuscito a distrarsi dai pensieri distruttivi.
A piccoli passi s'avvicinarono all'ascensore, l'inglese premette il pulsante di chiamata, mentre Minho continuò a farfugliare cose su cose, oltre la caviglia a breve avrebbe iniziato a dolergli anche la testa, ne era sicuro. Strinse al petto il giubbino di pelle, l'unico indumento ad eccezione dei boxer con cui era arrivato in ospedale dieci giorni prima. Era già il secondo che aveva sottratto a quello stronzo di Terminator, e a quel pensiero una minuscola e breve smorfia simile a un sorriso si formò sulle labbra.
***
L'idea di Thomas fu rapida, indolore e brillante, decisamente. Fulminea quanto improvvisata, lo fece sentire molto soddisfatto per entrambi risultati. Il ricciolino continuava a specchiarsi nel vetro della pasticceria, titubante, abbozzando di tanto in tanto smorfie disapprovanti. Lui, invece, aveva un'espressione appagata, finalmente aveva di nuovo le sembianze di un essere umano. I capelli composti e la barba rasa il giusto; se non avesse fatto quella fermata, nessuno avrebbe notato differenze tra lui e uno yeti.
«Vogliamo restare qui fuori ancora per molto?» Sollecitò irritato, il cipiglio appiattito gli riservava un'aria seccata. Era un orribile combinazione avere a che fare con un Thomas affamato e incazzato, soprattutto se il delizioso odore di cioccolato bianco misto alla cannella uscivano dal negozio, stuzzicando le sue narici. Non mangiava da un po', era una reazione del tutto normale e giustificata. «Mi era parso di capire che avessi una certa fretta per la colazione.» Sottolineò, sperando di smuovere Charles. Quel piccoletto rubava la scena a Narciso.
«Ce l'ho, Thomas.» Rispose glaciale, il tono leggermente spazientito. «Mi sto abituando al nuovo me, non è semplice. Uff, sono abbastanza contrariato.» Sbuffò, le mani nei capelli stavano armeggiando con la fila del ciuffo. Provò a sinistra poi la scombinò, lasciandola infine centrale.
«Ma se li hai soltanto accorciati di un dito! Mica hai quell'orrendo caschetto che genitori senza stile fanno ai bimbi della tua età.» In effetti era vero, il cambio dell'acconciatura del piccolo trovatello era davvero minimo, ma pratico, sicuramente adesso le ciocche non gli andavano più davanti agli occhi, permettendogli di camminare in totale autonomia senza rischiare di inciampare o sbattere contro qualcuno. «Ora ti si vede meglio il bel faccino che ti ritrovi e quegli occhioni teneri.» Scimmiottò Edison, abbozzando un sorriso sincero. Inutile, quel bambino spazzava via la sua irritabilità, anche se come in quel momento ne era la causa.
«Mh...» Un attimo di silenzio, poi il dubbio. «Non è che ti piaccio?» Chuck si bloccò dal sistemarsi e si voltò rapido, i suoi occhi indagatori fissi in quelli di Thomas Edison. Un'espressione rigida e salda. Quel bambino era cresciuto troppo in fretta, lo ricordava timido e sulle sue, da quanto era diventato così sfrontato? Cosa gli insegnavano in quella specie di orfanotrofio?
Thomas non poté credere a quelle parole, paradossali quanto divertenti, spalancò gli occhi, sollevò le spalle, in un'espressione completamente destabilizzata. «Che cosa?!» Accennò un colpo di risa, provocato dal nervosismo, dall'inaspettato. Indietreggiò, sconvolto. Era una situazione totalmente assurda e mai come allora, con i suoi gesti impacciati e meccanici si sentiva una creatura dello spazio, più vicina a un robot che a un essere umano. Diamine, era addirittura arrossito. Una moltitudine di reazioni alla velocità della luce gli passò sul viso. «Bella battuta ragazzino, davvero.»
«Cacchio, quanto panico! Immagina se al mio posto ci fosse stato lui, saresti svenuto?» Proferì saccente, smorzando un sorriso sbilenco.
Edison aggrottò le sopracciglia, aveva perso il filo del discorso, cosa stava blaterando quel nanerottolo? «Lui? Lui chi? Cosa vorresti insinuare cespuglio con le gambe?» Strillò di un'ottava, la saliva gli si bloccò in gola, facendogli uscire una voce ridicola.
Di tutta risposta, Chuck lo ignorò bellamente e con spalle dritte e una camminata spavalda pressoché trionfale, spalancò la porta, entrando nella caffetteria più rinomata di tutta Langley.
L'aria calda e rilassante dell'interno li abbracciò, facendo dimenticare alla pelle la spiacevole puntura del freddo dell'esterno. Il tepore mischiato all'odore di cioccolata e cannella era un paradiso sceso in terra, un posto dove ci si poteva concedere ogni vizio di gola, liberare la mente e lasciarsi all'ingrasso. Il menù spaziava da un'infinità di dolci tipici del posto a quelli famosi di altre nazioni, come le crepes, per intenderci. Da provare erano le torte raffinate, buone quanto costose.
Il locale non era assai grande, e l'arredamento seppur fosse il miglior negozio di dolci di tutta la Virginia restava semplice, quasi lo stesso dell'apertura avvenuta anni addietro. Tavolini con sedie in legno troneggiavano sparsi qua e là, lo spazio tra una collocazione e l'altra non faceva apparire l'ambiente soffocante, e l'aroma per dolci regnava nell'aria, provocando l'acquolina in bocca già all'angolo della strada.
Un bancone in legno di ciliegio teneva vetrinette ben curate, i cristalli ben lucidati mostravano i peccati di gola del giorno, alle spalle vi erano macchinette specializzate, necessarie per la preparazione di cappuccini, frappé, granite. Tendine color panna con rifiniture in rosso oscuravano le vetrate della porta di ingresso, la stessa texture era ripresa sui grembiuli dei dipendenti, quei colori avevano sempre ricordato a Thomas le gonne scozzesi. Lo stile kitsch, abbastanza vintage troneggiava nel locale e sembrava andar bene a tutti, anche ai giovani che erano in netta maggioranza, tanto mica c'era il mobilio sul menù.
Thomas vi era cliente da tempo immemore, solo che a causa del proprio lavoro ci mancava da un po', la compagnia di Charles rendeva quel ritorno ancora più speciale.
Scelsero di mangiare a un tavolo con sedie comode, il ragazzino trovò che consumare al bancone sarebbe stato scomodo per gli sgabelli, piccoli e alti, e la paura di caderci non gli avrebbe fatto gustare il piatto, Thomas si trovò a condividere e prenotarono un tavolo, cui dopo poco sopraggiunse la cameriera con il blocco note. In alto, di fronte a loro, nell'angolo, una televisione con lo schermo a led di pochi pollici dava la notizia del giorno: il salvataggio dei bambini scomparsi.
Edison avrebbe voluto che cambiassero canale, Charles aveva vissuto momenti orribili e quei racconti potevano soltanto influenzare negativamente il suo umore; senza fissarlo troppo, cercò di studiare le espressioni del suo viso, gli sarebbe andato bene anche riaprire l'imbarazzante discorso che avevano accennato all'esterno pur di allontanarlo da quelle notizie, da quei pensieri burrascosi. Voleva distrarlo, e nell'attesa di capire cosa fosse giusto dire, se ne stavano entrambi con lo sguardo dietro al menù, a contemplarlo, per un'infinita quantità di tempo.
«Lo leggerai ancora per molto? Dubito ci capisci qualcosa, è sotto sopra.» Notò il piccoletto, e Thomas girò immediatamente, celando un'espressione stupida. La simpatia che aveva avuto fin fuori alla caffetteria era svanita, ma non sembrava particolarmente turbato dagli avvenimenti. Guardava la televisione con naturalezza, come se stessero parlando del meteo. «Io credo di aver deciso. Un milk-shake al cioccolato, una crepe con cioccolato bianco, nocciola e stracciatella e per finire un waffle a Nutella.»
«Giusto per rimanere leggeri.» Constatò simpaticamente Thomas e Chuck di risposta cacciò fuori la lingua, incomprensibile dedurre se si trattasse di un'espressione da "ho fame, lasciami stare "o una semplice smorfia divertita.
L'agente, invece, optò per un waffle alla Nutella e un frappé a nocciola. Ci sarebbe stato tutto il tempo per tornare in forma, chissà quanto tempo sarebbe passato prima di saltare da un palazzo all'altro, tornando completamente all'azione. Durante l'attesa di preparazione dell'ordine, Chuck fischiettava un motivetto a Thomas sconosciuto, studiando l'ambiente circostante. Gli occhi piccoli e vispi saettavano tra i tavoli, facendosi un po' i fattacci dei clienti che stavano prendendo le ordinazioni al tavolo di fronte, Edison, approfittò di quel momento di relax per armarsi di coraggio e leggere la casella postale. Non seppe spiegarselo, ma avere Chuck di fianco gli trasmetteva vibrazioni positive, coraggio. Aprì finalmente dopo tempo un'e-mail con emittente Brenda.
"Ho perso il conto di quanti messaggi ti ho inviato, non so perché ci riprovo, forse perché in fondo non ho ancora del tutto perso la speranza. Volevo dirti che la tua auto è stata recuperata dall'agente Stan, è intatta. Quando vuoi venire a prenderla è nei nostri garage. Sarai sollevato, immagino. Beh, anche A5 sta bene, ha normale appetito e le lastre, rovinose ma non troppo, tolgono l'opzione di amputargli un piede. Menomale, no? Anche se non ti importa nulla, sappi che tutti sono sani e salvi.
Non c'era nulla di nuovo, a parte le irrilevanti notizie riguardo la sua auto. Proseguì;
All'interno della tua auto sono stati trovati anche oggetti personali di A5, sarà tua premura restituirli? A proposito, le hanno dato completamente una ripulita, sia fuori che dentro, era in uno stato pietoso hanno detto i tuoi sottoposti, sai? Hanno trovato anche una copertina impregnata di sangue, tranquillo, l'hanno lavata e rimessa nel tuo portabagagli, pulita e profumata. Spero di non aver dimenticato nulla e che tu stia bene. Gradirei un segno di vita, qualunque purché ci sia. -B"
Poté giurare di aver sentito cubetti di ghiaccio scorrergli addosso, raggelandolo tutto d'un pezzo. Come diamine si erano permessi di lavare la coperta? Sì, okay, se non lo avessero fatto, sarebbe risultata inquietante, ma non c'era soltanto il sangue di Newt, bensì il suo odore, l'effluvio di vaniglia che in quei giorni si era sforzato di rievocare con la memoria per non impazzire, ma, mentre con il chip poteva risalire alle immagini, con gli odori era pressocché impossibile, per quelli doveva far affidamento solo alla sua memoria umana, che lo lasciava ampliamente insoddisfatto. Era stato grazie ai ricordi del chip se in quei giorni di isolamento non aveva perso il lume della ragione. Quell'e-mail gli fece più che mai rendere conto di quanto il futuro fosse un presente prossimo. La realtà lo cominciava a colpire con una sferrata di pugni in faccia, più vicina di quanto si aspettasse, di quanto avesse realizzato. Prima o poi avrebbe rivisto Newt, che l'avesse incontrato per caso o alla base dell'intelligence, e niente avrebbe cambiato o potuto giustificare la sua assenza.
Certo, sapeva che l'intervento era riuscito, aveva aspettato che si svegliasse, l'aveva sentito persino sibilare amabilmente il suo nomignolo, ma era comunque scappato via come un codardo, senza fargli visita. Il tempo non avrebbe aiutato a spazzare via l'imbarazzo, la vergogna e il rimpianto.
Frettoloso s'alzò dalla sedia, quasi rischiò di rovesciare il vassoio con l'ordine che la cameriera stava portando al suo tavolo. Chuck lo guardò interrogativo, per quanto piccolo fosse aveva inteso il cambio d'umore, farfugliò alcune parole, ma non arrivarono alle sue orecchie, ovattate come se fosse intrappolato in una scatola satura d'acqua.
Sconcertato, Edison si diresse al bagno. Le mani in avanti, a tentoni, come se avesse difficoltà a camminare, a muoversi. Il solo respiro gli pesava nel petto, faticava a respirare, a vedere bene. La testa gli stava girando vertiginosamente e non capì perché quella reazione, perché quell'attacco. Forse i pensieri, le sue emozioni, quelle seppellite sotto strati di indifferenza e apatia gli stavano pian piano presentando il conto. Non sarebbero stati clementi con lui. I pensieri lo avrebbero ucciso, i rimpianti ancor di più.
Non aveva fatto visita ad A5 per non ammettere a sé stesso che quello fosse più di un protettore, di un collega, che non potesse mai essere visto neanche lontanamente come un amico. Strinse le mani al lavandino e per l'ennesima volta si trovò davanti a uno specchio. Non era nel suo appartamento, ma si trovava da solo, per fortuna non c'era nessuno che occupasse i tre bagni più in là.
Lo specchio rifletteva l'immagine di un ragazzo, doveva essere lui, ma non si riconosceva. Nell'attacco di rabbia scagliò un pugno contro il muro, non si soffermò al dolore che si stagliò alle nocche. Voleva soltanto smussare la collera, riprendere almeno in parte il controllo di sé e tornare come se niente fosse al tavolo. Non era bastato uscire di casa e fare buone azioni. Non poteva distrarsi dal ricordo di Newt, da ciò che aveva fatto e da ciò che, come un fifone, aveva procrastinato.
«Ma guarda chi si vede...Anche qui, incredibile...Mi dai proprio la caccia, Edison.» Una voce parlò alle sue spalle, il tono derisorio e flemmatico non portò a capire subito di chi si trattasse, se non fosse stato per "Edison" dubitava persino che si stesse riferendo a lui.
Allo specchio, vide dietro di sé il riflesso di un ragazzo alto poco più di lui, la testa fulva fece subito accendere il ricordo in Thomas, si trattava della persona meno adatta da incontrare in un momento delicato come quello. Se gli aveva dato una scazzottata quando era pienamente lucido, non voleva pensare cosa sarebbe accaduto di lì a momenti, in preda a un attacco sconquassante. Molti la chiamerebbero ironia del destino, Thomas preferì sfiga. Non aveva la foga di dieci giorni prima e in quello stato, denutrito e scombussolato, non poteva rendere in un combattimento corpo a corpo. Qualora la situazione fosse degenerata, sarebbe stato lui a prenderle.
In un primo momento decise di ignorarlo, era giusto non proiettarsi alla violenza, sia per il suo bene fisico che per la sua fedina penale-ancora stranamente immacolata-lavò il viso, sperando di rinfrescarsi e scacciare pensieri distruttivi dalla mente, poi chiuse il rubinetto. Alcune gocce gli bagnarono la t-shirt nera, ma non se ne curò, con l'aria calda del locale si sarebbe asciugata. Si voltò, il capo basso e gli occhi che subito caddero sul vestiario di Miller. Indossava un grembiule della stessa texture delle tendine del locale.
«Lavori qui?» Confutò frastornato, era una domanda stupida. Chi indossava la divisa di un locale dove non lavorava? Però Thomas si sentiva rintronato, come se avesse bevuto un intruglio con del sonnifero all'interno. Non poteva pensare che qualcuno gli avesse somministrato qualcosa di simile, non aveva ancora ingerito niente.
Quello inaspettatamente girò la chiave nella toppa, bloccandoli all'interno. Ciò destabilizzò Thomas, portandogli ad attivare tutti i sensi, ponendo la totale attenzione sul tizio di fronte a sé. Se doveva sentirsi male, sarebbe stato meglio posticipare.
«Sì, coglione, da quando mi hai pestato a sangue a casa mia. Non mi reggevo in piedi e non mi sono presentato a lavoro. Quegli stronzi mi hanno licenziato in tronco. Capisci? No, non puoi mai, a uno come te usciranno soldi anche dal culo.» S'avvicinò, l'indice tozzo puntava il bruno di fronte a sé. Il viso che era grosso e squadrato per niente proporzionato pareva essersi rimpicciolito, colorato di rosso fuoco per l'ira. Fece due passi in avanti. Le mani prudevano di vendetta, Thomas cercò di continuare a ignorare le basse provocazioni.
«Quindi... da quanto...lavori qui?» Domandò lentamente, gli risultava difficile anche articolare una frase con senso compiuto. Gli occhi socchiusi, le palpebre pesanti. Si sentiva strano, eppure gli era ancora rimasta quel po' di lucidità per farsi i suoi conti.
«Sette giorni.» Informò, nella sua voce non c'era espressione, fredda come il ghiaccio.
Edison rilasciò un sospiro, almeno quel segreto poteva rimanere ancora al sicuro. «E cosa direbbero di una rissa nei bagni i tuoi nuovi datori di lavoro? Ci hai pensato? Perderesti anche questo, probabilmente.»
Ben si morse la guancia, poi schioccò la lingua, innervosito. Sulle labbra aveva un sorriso per niente rassicurante, maligno. «Avevo pensato di denunciarti, Edison. Di raccontare alle autorità cosa avevi fatto, dell'aggressione in casa mia, ma ho pensato che sarebbe stato più soddisfacente farti fuori di persona.»
«Perché aspettare allora? Potevi venire a casa mia e ricambiare il favore.» Istigò e stavolta Thomas alzò lo sguardo, occhi negli occhi. Visto ancor più da vicino quanto diamine era brutto quel Ben Miller.
«Non sono te! Non ho i cazzi della gente sotto il naso, internet non dice granché, figurarsi capire dove abiti. Ho pregato ogni giorno di incontrarti, che il destino ti portasse da me e-»
«Eccomi qui, allora.» Proferì teatrale, aprendo le braccia e mettendosi in mostra. «Colp-» Miller non aspettò neanche che la parola fosse conclusa che si scaraventò addosso all'agente come un toro alla vista di un fazzoletto rosso.
Edison perse di poco l'equilibrio e quasi sbatté contro il lavandino. Il dolore al fianco gli fece rilasciare una smorfia di dolore, ma si ricompose subito. Era stato colpito di striscio, per fortuna nonostante il momento di down, i riflessi funzionavano più che bene. Non avrebbe voluto reagire, ma quante volte dopo lo scontro con Miller aveva continuato ad immaginare la sua faccia mentre colpiva il sacco? Beh, quasi tutte. Ricambiò il gesto e nonostante fosse fuori allenamento lo colpì in pieno. Notò amaramente che sul volto del rivale c'erano ancora le chiazze cerulee dei vecchi lividi, ne avrebbe collezionati dei nuovi.
«Per colpa tua ho perso il lavoro in un locale che mi piaceva» Incolpò sdegnato, la mano stretta in pugno per colpire ancora e ancora. Thomas tacque poi rise. Forse non era completamente in sé.
«Non hai perso il lavoro a causa mia, forse Newt. Forse hai perso Newt a causa mia.» Sottolineò lentamente, facendo in modo che ogni parola arrivasse alle orecchie del rivale. Sollevò un angolo della bocca, quando vide che c'era riuscito. Lo sguardo di Miller ardeva alla sua vista. Voleva ucciderlo, era palese. E la cosa poteva rivelarsi reciproca.
«Brutto figlio di p-» Partì il rosso, dandosi lo slancio dal muro per correre all'impazzata verso l'agente e bloccarlo al muro. Thomas oppose resistenza, le scarpe che stridevano sul pavimento bagnato.
Nessuno doveva mai permettersi di nominare sua madre, soprattutto con allusioni del genere. Quella frase rimase sospesa in aria, perché se in un primo momento Thomas Edison voleva provocare ingenuamente e far volare solo qualche innocuo pugno dato qua e là all'aria, di lì in poi li avrebbe centrati tutti e Miller avrebbe dovuto implorarlo di finirla in ginocchio tra le lacrime. Una traiettoria decisa, veloce e perfettamente forte colpì la mascella di Miller, tramite le nocche a Thomas parve di sentire i denti tremare e urtare gli uni contro gli altri. Si stupì quando non li vide cadere. Lo spinse con tutta la forza che aveva, ribaltando la posizione che prima aveva visto lui in trappola.
Adesso era Miller ad essere inchiodato al muro. Dall'esterno, intanto, un sottofondo di qualche musichetta rilassante alternato di tanto in tanto dal rumore di piatti che urtavano tra loro senza rompersi faceva da soundtrack a quella scena da far west. La mano sinistra di Thomas bloccava quella di Miller, mentre con il braccio e il gomito destro gli premeva sul collo, rendendogli difficile la respirazione. Era una presa tanto salda che anche se la mano destra di Miller fosse libera non aveva forze per reagire. Dovevano pur sempre servire anni e anni di combattimento e difesa.
«Googlarmi il suo primo giorno di lavoro, quanta paura di me, quanta invidia, Dexter.» Digrignò Thomas a denti stretti, sembrava un serpente, velenoso quanto letale. La mandibola contratta, un muscolo della faccia ebbe un guizzo nervoso. Miller era bloccato al muro, in faccia l'espressione confusa per aver sentito Dexter.
Thomas approfittò di quella confusione per tastargli un nervo, sapeva dove colpire senza sporcarsi le mani di sangue, immobilizzando il nemico. Il rossiccio chiuse gli occhi e digrignò i denti per il dolore, mentre la presa di Edison si rafforzava sempre più, avrebbe mollato soltanto con una sua supplica. A entrambi colava un rivolo di sangue dall' angolo della bocca, risultato dei pugni precedenti. Anche stavolta Miller era messo peggio, nonostante all'inizio della "conversazione" si fosse mostrato più determinato e agguerrito. Una risata uscì dalla sua bocca, un misto di divertimento e disperazione.
«Invidia? Io di te? Sono io che ho avuto Newt, a tua differenza, è questo che ti fa venir voglia di picchiarmi fino alla fine. Provi rabbia che Newt non ti vede neanche, per lui sei soltanto il viziatello dell'Intelligence, incapace di difendersi da solo.» Thomas allentò la presa, e Miller tornò a respirare da umano, non affannato per il dolore come un mantice. Quelle parole avevano segnato l'agente, per quanto non volesse crederci, esisteva una piccola probabilità che Newt pensasse ciò di lui. «Non sei niente per lui. Sei una zavorra per il suo lavoro, ecco cosa sei, se potesse liberarsi di te, lo farebbe senza pensarci.» Calcò il coltello nella piaga, spietato.
A2 calò la testa, ferito. Bastò quella piccola distrazione per fargli prendere un pugno laterale, che picchiò in pieno la guancia sinistra. Rovesciò la testa all'indietro e per un attimo perse l'equilibrio. Riuscì a stabilirsi in tempo, prima del prossimo attacco. Portò una mano alla bocca, asciugando una goccia di sangue, che non capì se usciva dal naso o dal labbro.
«Tu non lo meriti, non l'hai mai meritato. È troppo per te.» Rivelò, il respiro ansante. Voleva colpirlo ancora e sempre più forte, desiderava stenderlo a terra e non farlo alzare più. A solo pensiero che con i suoi tradimenti aveva fatto soffrire Newt gli saliva il sangue al cervello, non poteva permetterlo. Poco importava che A5 lo odiasse, reputandolo un viziato buono a nulla.
«No, no, no caro. A te da tanto fastidio che l'abbia scopato, tutto qui. E che ho scopato tanti altri dopo di lui, mh? Se ricordo quanto gli piaceva...Mh, sa usare molto bene la bocca, davvero caldissima. Sì, devo proprio ammetterlo: mi ha regalato una delle migliori scopate.» Che fosse la verità o no a Thomas non importava, gli provocava rabbia che parlasse di Newt in quel modo. Non era giusto, spifferare la propria intimità. Era una mancanza di rispetto inaudita. Cambiò tutto in pochi secondi. Impazzì, il sangue ribolliva come fuoco nelle vene, perse il controllo e si lanciò verso Ben, gli occhi spalancati dalla rabbia, iniettati di sangue. Iniziò a colpirlo, senza sosta, ovunque gli capitasse. In faccia, alla pancia, qualche calcio scappò anche verso i genitali e soprattutto lì non si risparmiò, né contené la collera. Miller era ormai raggomitolato in posizione fetale.
Thomas non sapeva se dipendesse dal malore di poco prima, dallo stress accumulato per la missione in Maryland, per la solitudine, ma quella era tutta rabbia che lo stava finalmente abbandonando, scagliandosi sul corpo di un povero stronzo, perché Miller era solo un povero pezzo di merda.
Sollevò un grido più forte di tutti, piegato ormai in due dal dolore, poi inaspettatamente ebbe ancora forza di prendere fiato e incitò; «Continua, dai. Così perderai anche tu il tuo lavoro e non vi vedrete più.» Sibilò, il sangue che scendeva tra i denti, era sfinito, ma continuò a provocare.
Ancora prima di quelle parole, Thomas era stato percosso da un lampo di lucidità, cambiando la traiettoria. Non stava colpendo più Miller, ma il muro, a calci e pugni sempre più forti. Se avesse continuato così per un altro po', si sarebbe rotto la mano.
«E tu? Tu meriti Newt?» Quella frase rimase fissa lì, in aria, capace di aprire il vaso di pandora colmo di dubbi esistenziali, fu in quel momento che Thomas abbandonò completamente la presa, indietreggiando di qualche passo. Intanto, fuori un vocio di imprecazioni scurrili di clienti che dovevano andare al bagno s'alzava spazientito.
«Sei qui a mangiare dolci, mentre lui è bloccato in un letto d'ospedale e perché? Per difendere te. Probabilmente si sarà rovinato la vita a causa tua e scommetto che da codardo non gli hai neanche fatto visita, a mia differenza. Io c'ero, Edison. Tu, invece, dov'eri? Ah sì, a fare il giustiziere dei miei stivali.» Così Ben Miller chiuse con un affondo letale, lasciando Thomas senza parole. Arrancò al lavandino, e vi sputò un po' di sangue.
Ciò che Thomas Edison non sapeva era che in quella settimana quello stronzo di Dexter si era recato in ospedale, controvoglia, per far visita a Newt, ma questi aveva comunicato espressamente alla hall di non volerlo vedere, quindi il rossiccio aveva dietrofront a mani vuote. Thomas aveva vinto, ma ancora non lo sapeva. Lo ignorò, prendendo in considerazione le lamentele spazientite che s'alzavano da fuori la porta.
Nessuno dei due osò dire altro, A2 incurante del labbro leggermente spaccato girò la maniglia e uscì senza guardare nessuno negli occhi, il capo basso e la testa strabordante di paranoie.
Camminò fin quando un uomo basso e tozzo, con pochi capelli neri sparati ai lati della testa e baffetti del medesimo colore gli si parò davanti, bloccandogli il passaggio. Era il proprietario del negozio, Thomas lo conosceva, non c'era confidenza ma nel corso degli anni si era creata una sorta di rispetto, abbastanza da poter credere più alle sue parole che al nuovo assunto. Edison aveva una freccia a suo favore, l'avrebbe usata senza rimorso.
«Il suo nuovo dipendente ha cercato di...sedurmi.» Disse semplicemente, in modo naturale come se fosse una verità inoppugnabile. L'avrebbe definita poi ridicola, ma fu l'unica cosa che gli venne in mente. «Farebbe bene a tenerlo sotto controllo, può far scappare via molti clienti per le sue perversioni.» Enfatizzò l'ultima parola, suscitando curiosità e terrore negli occhi degli spettatori.
Il vecchio quasi si strozzò con la saliva, confuso. «Signore, non capisco...cosa ha osato fare?» Domandò di un'ottava, riservando un'occhiata di fuoco al rossiccio che stava uscendo dal bianco lentamente, il viso rosso di vergogna.
L'agente si sporse, parlò nell'orecchio del vecchio, che ascoltava attentamente e di tanto in tanto le espressioni mutavano in base a ciò che sentiva;
«Ha cercato un approccio con me in bagno, una situazione davvero imbarazzante, ho anche un marito a casa e non vorrei che stupide voci mettano in crisi il mio felice matrimonio.» Fu l'ultima frase che rivelò, mentre al vecchio gli ribolliva il sangue alle mani, dispiaciuto nei confronti di Thomas e adirato in quelli di Ben. Sembrava offeso e dispiaciuto. «Perciò ho dovuto reagire, non avrei mai voluto...»
Mentre la folla si districava per recarsi in bagno, il vecchio teneva in viso un'espressione scioccata, quasi schifata, non perché fosse omofobo quanto perché il suo nuovo dipendente aveva avuto comportamenti disdicevoli. Si scusò con Thomas più del dovuto, dandogli poi le spalle e rivolgendo uno sguardo severo, per niente remissivo. Il nuovo assunto sarebbe presto diventato ex-dipendente.
Ben non volle credere ai suoi occhi, Thomas che superava di diverse spanne la schiena del proprietario, lo stava fissando con occhi infuocati, muovendo davvero il labiale a suon di: Mio marito Newt? Che diamine aveva detto al suo datore di lavoro?
Una cameriera pose in un sacchetto da asporto il resto dell'ordine, Chuck aveva finito tutte e tre i piatti, mentre Thomas avrebbe consumato il suo waffle nel parco della piazza principale. Mentre uscivano dal locale, un suono delicato notificò una nuova e-mail di Brenda.
"Ultimo aggiornamento: A7 stamattina ha recuperato il telefono di A5, glielo restituirà in giornata. E la ragazza che mi hai detto di contattare una settimana fa, è qui, il passaporto è stato mostrato all'aeroporto. Le ho inviato l'indirizzo della pensione dove soggiornerà."
Thomas chiuse la porta della caffetteria alle sue spalle, tirando un vero e proprio sospiro di sollievo. Newt non avrebbe avuto al suo fianco un bastardo del genere, ma una figura rassicurante, giusta, della famiglia.
«Sai Thomas, io credo di meritarti.» Proferì all'improvviso riccioli cioccolato, mentre stringeva tra le mani il sacchetto con il resto dell'ordine e distogliendo Thomas dalla lettura della sfilza di e-mail.
Nel frattempo due piccioni si erano posati a terra, in cerca di briciole. Bambini della sua età o anche più piccoli correvano a destra e manca nell'enorme piazza di fronte, rincorrendo il pallone. Quella frase bastò a Thomas per fargli capire che aveva udito la lite, sperava solo che avesse sentito parti meno traumatizzanti, anche se...nel complesso era tutto un tale orrore, non c'erano parti meno volgari di altre.
«Sei il bene che è apparso dopo tutto il male.» Un'altra frase che lo spiazzò, parve bloccarlo nel tempo, su quel marciapiede. «E anche tu meriti un bene tutto tuo che cancelli il male che hai vissuto.» Gli si avvicinò come per dargli un abbraccio, ma si limitò solo a una pacca sul braccio. «E sei fortunato, perché come me, tu l'hai già trovato.»
L'agente accennò un sorriso, più per nascondere l'imbarazzo che per la dolcezza della frase in sé. Quel bambino era capace di dargli filo da torcere, mettendolo in difficoltà con argomenti smielati. Non sapeva come ci riuscisse, ma colpiva nel segno, c'entrando l'obiettivo.
«Saresti tu?» Fece il finto tonto, sdrammatizzando.
Riccioli di cioccolato si portò le mani in viso, sfinito. «Ma basta!» Urlò di un'ottava, sembrava già un adulto, spazientito. «Certo che sei proprio una testa di caspio. Visto che non hai indovinato, mi spetta metà del tuo waffle.»
«Ma è ingiusto!» Scimmiottò, cercando scherzosamente di tirargli la busta.
«È sempre meno ingiusto di non essere sinceri con sé stessi. Più negherai, più ne mangerò.» Pattuì, l'aria altezzosa e sicura di sé. Chuck sembrava un bambino normale, finalmente aveva in faccia un colore sano, non da pallore cadaverico come quello che aveva visto all'interno di quelle mura.
«Di questo passo non rimarrà niente, Chuckie.»
«Appunto, Tom.» Attraversarono il crocevia, rispettando strisce e semafori. Quando il bambino fu sicuro che l'agente che gli aveva salvato la vita potesse sentirlo e no, rivelò in un sussurro; «Hai ragione comunque...non suona niente male mio marito Newt.»
Thomas non riuscì a cogliere interamente la frase, ma tra i clacson, il caos della città, le urla dei bambini che rincorrevano il pallone e il gruppo di canti natalizi che sembrava perseguitarlo, in tutto quel baccano gli parve di risentire quelle parole, con un certo ordine: mio, marito e Newt. Il suo cuore fece un tuffo e il respiro si bloccò, una vampata di calore incontrollabile gli salì in viso e il tutto in pochi secondi. Le persone camminavano di gran carriera, affrettandosi e alzandosi i cappucci delle giacche per ripararsi dal freddo, lui che aveva dato la sua giacca a Chuck ed era a mezze maniche stranamente non lo sentiva più.
***
«Hai decisamente bisogno di qualcuno, Newt. E chi meglio di me? Penso sia un'ottima opportunità per conoscerci meglio. Posso trasferirmi da te, per un periodo. Non porterei tante cose, abito vicino e-» Propose Minho, mentre aiutava l'amico a scendere dall'auto. Come fossero arrivati sani e salvi all'abitazione del biondo restava un mistero. Sia le ammissioni all'Intelligence che la patente di guida erano stati concessi all'agente Lee con una certa...leggerezza.
Isaacs sollevò la mano in segno di stop, un'espressione apprensiva e grata in volto. Se non fosse stato per Lee, avrebbe dovuto farsi quel tragitto in autobus o con l'autostop. Non poteva quantificare quanto gli fosse riconoscente, ma Minho stava comunque oltrepassando il suo limite di spazio vitale. Spesso poteva risultare soffocante.
«Sei un caro amico, Minnie. Solo che...devo abituarmi a questo, è tutto nuovo e diverso e... Devo farcela da solo.» Ripeté, in cerca di parole, non ce n'erano poi molte. Inoltre, da quando aveva perso le staffe con Jeff e Clint cercava di pesare i suoi pensieri, perdere anche Minho sarebbe stato imperdonabile. Nascose una smorfia di dolore mentre si sollevava in piedi, sul marciapiede. L'auto di Minho era bassa, quindi lo sforzo fu il doppio, ma facendo ricadere il peso sulla gamba sinistra e stringendo un po' i denti riuscì a sgusciare fuori dalla sua Subaru BRZ grigia.
«Questa sarà la mia normalità...» Sottolineò, seguendo l'amico che gli aveva gentilmente aperto la porta per accedere all'interno del palazzo.
Dopo le due grosse vetrate della porta massiccia, in fondo si presentava la portineria, un bancone più da hall di hotel. L'intero palazzo dove viveva Newt era uno dei più influenti della zona, di classe, e poi il custode Denny era davvero una brava persona, faticava a credere che altri portinai fossero così attenti e gentili.
Alla destra dell'entrata si scorgeva l'ascensore, a sinistra le scale. La pavimentazione era ricoperta da una moquette verde petrolio che oscurava ancora di più l'ambiente visto che la carta da parati era in legno scuro, se all'esterno il tempo era cupo, si era costretti già dal mattino ad accendere le luci. Era uno dei pochi difetti del palazzo.
Il primo ad accedere fu Minho, che per alcuni istanti dimenticò di aiutare il suo amico in difficoltà. «Incredibile, oggi è il mio giorno fortunato. Due bellezze ed è solo mattina.» Newt appiattì il cipiglio in un'espressione contrariata. Cosa diamine gli importava del sex appeal della sconosciuta o sconosciuto nel suo palazzo?
Il suo amico sapeva davvero essere un " gran farfallone" e se doveva posare lo sguardo su ogni ragazza che commentava, avrebbe spesso rischiato di sbattere contro ogni cosa, come in quel momento, che era nettamente in difficoltà nella battaglia tra stampella e porta.
Quando finalmente vinse con un'imprecazione allo scontro tra porta e stampella-che durò per interminabili minuti-, facendo sì che il portoncino sbattesse con una forte folata di vento, seguì la traiettoria dello sguardo dell'amico. Non l'aveva mai visto così imbambolato, neanche per l'infermiera di poco prima. A qualche metro da loro, una ragazza che gli dava le spalle, snella e dai lunghi capelli biondi raccolti in una treccia si poggiava con i gomiti al bancone della portineria, non aveva fatto caso al loro arrivo, intenta a parlare attivamente con il portinaio Denny di chissà cosa.
La ragazza indossava dei jeans strappati con un giacchettino bianco, ai piedi delle converse. Aveva un'aria maledettamente familiare. Forse la chiamò con il pensiero, o perché spaventatosi del vento feroce, e curiosa se fuori piovesse, inarcò piano la testa.
Il suo viso sembrò rivelarsi pian piano, a rallentatore e quando fu completamente riconoscibile, finalmente faccia a faccia, Newt capì che non si trattava di un sogno, non era un miraggio o un'allucinazione data dagli antibiotici, né di una ragazza che somigliasse incredibilmente a...
«Lizzy!» Esclamò di un'ottava, lo stupore degli occhi non aveva bisogno di descrizioni, spalancati più del dovuto parevano sul punto di scivolare via a momenti.
Un largo e sincero sorriso nacque sul volto di entrambi, la giovane lasciò il mazzo di girasoli sul trolley rosa e, senza neanche scusarsi di interrompere improvvisamente la conversazione con il vecchio Denny, stravaccato sulla sedia con il solito cuscino per il suo mal di schiena, si precipitò di corsa dal fratello. Gli gettò le braccia al collo, sollevandosi leggermente sulle punte così da essere alla stessa altezza. Non era bassa, ma Newt la superava di una manciata notevole di centimetri.
«Che ti è successo?» Domandò tra le lacrime, focalizzandosi sul piede medicato e la consecutiva stampella; attenta a non fargli male, affondò la folta chioma nell'incavo del collo di Newt, stringendolo a sé come se fosse il tesoro più grande. Il ragazzo sentì qualche singhiozzo e mentre con la mano sinistra teneva la stampella, con quella destra le carezzava dolcemente i capelli, per tranquillizzarla. La commozione e la paura velavano i suoi occhi verdi. Lo scetticismo, invece, segnava lo sguardo di Newt, cupo e preoccupato.
«È tutto okay, Liz...va tutto bene.» La rassicurò con lo stesso tono di quando erano bambini, quando dopo aver fatto incubi Lizzy correva nella sua stanza, addormentandosi al suo fianco. Avevano sempre avuto un rapporto diverso da tutti gli altri fratelli e sorelle. Non litigavano mai, quando succedeva era solo per scherzo, per movimentare il loro legame piatto, fin troppo pacifico. Quell'abbraccio durò per minuti interminabili, per farli scollare servì Minho che con un colpo di tosse li richiamò all'ordine, per non sentirsi escluso.
La verità era che Newt era stato sempre il porto di sua sorella, e Lizzy il suo; gli era mancato abbracciarla, per quanto le videochiamate li avessero tenuti vicino in quegli ultimi anni, niente poteva gareggiare con quel momento, con quella stretta. Finalmente con sé non c'era soltanto Minho, ma sua sorella, la persona più importante della sua vita.
Descrivere quel momento, quella sorpresa, quell'inaspettata visita per Newt fu impossibile sia in quell'istante che ore dopo, quando finalmente aveva metabolizzato che sua sorella fosse davvero in carne e ossa nel suo appartamento assieme al suo migliore amico, e tutti e tre stavano parlando delle loro vite, sorseggiando aranciata. Minho, era stato per circa quindici minuti, trasparente, come invisibile, si era sentito addirittura il terzo incomodo seppure tra i due ci fosse un legame di parentela e non una relazione sentimentale, ma tutto sommato, quell'imbarazzo era andato via nell'esatto momento in cui aveva visto un sorriso apparire sul volto di Newt, reputandolo poeticamente il sole di Londra, fatto raro quanto mozzafiato. Londra era bella ma sempre grigia, e l'espressione del viso più rilassata, gli occhi meno stanchi e il sorriso finalmente vero donava al suo migliore amico.
Lizzy aggrottò il cipiglio, le sopracciglia pronunciate contornavano straordinari occhi verdi con sfumature nel castano. Le videochiamate con annessa linea disturbata non avevano permesso a Isaacs di capire quanto bella e cresciuta fosse sua sorella. Chissà quanti ragazzi aveva fatto soffrire. Oltre ad avere fascino aveva anche un caratteraccio, era sempre stata cocciuta e determinata, sin da piccoli lo superava di gran lunga. Se lui appariva insopportabile, lei era imbattibile. Non frenava mai la lingua, tagliente come poche.
«Lui non è Ben, giusto?» Domandò spiccia, smorzando un piccolo sorriso. «Non ricordavo tratti asiatici nei tuoi racconti...» La voce apparve traballante, di una che temeva a momenti di commettere qualche gaffe.
«No, no, no!» A rispondere fu Lee che si alzò in piedi e inaspettatamente accennò un inchino, suscitando confusione e ilarità nei due fratelli. Poi delicato afferrò la mano della giovane per il baciamano. «Sono Minho, agente A7 dell'Intelligence e grande amico di tuo fratello, è un piacere conoscerti, Elizabeth.» Proferì con tono deciso, autoritario e impeccabile, sembrava che si stesse presentando al presidente degli Stati Uniti.
Per quanto Newt lo trovò uno stacchetto divertente, sperò che Minho in futuro non fosse così stupido da rivelare di essere un agente della CIA a chiunque gli capitasse a tiro. Celare la propria identità era alla base della propria sicurezza.
«Wow!» Le uscì, e Lizzy non nascose il lieve rossore che le colorò le guance. Un altro rossore tinse quelle di Newt, non si trattava di imbarazzo stavolta, bensì gelosia mista a un po' di rabbia, nonostante Minho fosse un grande amico, l'unico che aveva, in quel frangente gli avrebbe anche potuto dar fuoco. Era il suo migliore amico, ma Lizzy era il suo più grande tesoro. «Tutti i tuoi colleghi sono così galanti?»
«No!» Sbottarono all'unisono i due ragazzi e chissà perché a entrambi si raffigurò in mente un solo volto: quello dello stronzo, irraggiungibile e menefreghista Thomas Edison.
La mattinata scorse rapida, tra battute e pezzi di vita di Minho, di Lizzy e anche dello stesso Newt, che tra i tre però aveva ben poca voglia di parlare, era curioso riguardo agli studi di sua sorella, alla sua vita sociale e perché no anche all'amore.
Elizabeth rivelò che durante un party indetto dalla confraternita dell'università, sotto l'effetto della sbornia lei e la sua migliore amica Harriet erano finite col baciarsi. Niente di che, disse, minimizzando l'accaduto, intanto, Lee tastava il terreno, lanciando di tanto in tanto sguardi di intesa a Newt, che non capiva, o meglio da fratello maggiore e super protettivo fingeva di non cogliere. Oh, ma sul serio? Lizzy e Minho? Quei due avevano caratteri troppo diversi. E poi sua sorella aveva poco più di vent'anni, era troppo giovane per fidanzarsi. Tzè.
Verso ora di pranzo il coreano decise di attuare: il corteggiamento culinario. Si posizionò ai fornelli, sfruttando tutto ciò che il frigo di casa Isaacs aveva da offrire. Il pasto comprendeva in una semplice piadina con dell'insalata-gran parte andata a male- delle salse, del cheddar e del bacon. Vi infilò tutto ciò che trovò nel frigo e nelle dispense, poco importava se fosse dolce, salato o amaro, iniziando addirittura una tiritera accusatoria per la freschezza dei prodotti; «Se mi sentirò male perché sono scaduti, sarai responsabile della mia seconda lavanda gastrica.»
Durante il "capolavoro incompreso", denominato così dall'asiatico, Newt era ben sistemato sul divano, con due cuscini da supporto sotto il piede medicato. Sua sorella e il suo migliore amico occupavano due sedie opposte ai lati della tavola.
Parlarono per sommi capi di com'era la vita accelerata e subordinata dell'Intelligence, saltò fuori quindi anche l'ingozzamento del coreano prima con il sushi e poi con la torta. Sì, le questioni della CIA erano top secret, ma le stava raccontando alla sua bambolina, la sua piccola e dolce sorella innocua.
«Quindi qualcuno ti ha portato la tua torta preferita?» Lizzy accavallò le gambe, lo sguardo accesso d'interesse per commentare e giudicare la vita sentimentale di suo fratello. Non capiva cosa ci trovasse di tanto interessante sua sorella nel sapere dei suoi disastri amorosi, era sempre stato così sin dall'adolescenza.
Newt addentò un po' la piadina, il sorrisetto furbo gli tingeva le labbra. «Non fingere di non sapere. Sei stata tu. Solo tu sai che è la mia preferita.»
«Come facevo, sciocchino? Non sapevo dell'incidente e poi ero oltre oceano.» Liquidò, roteando gli occhi al cielo.
«Esiste il telefono, la delivery. Sei facilmente sgamabile.» Perseverò deciso.
«Sì, ma non ho la sfera di cristallo! Fratellone mi deludi, diciamo che per essere un agente dell'Intelligence le tue intuizioni fanno un pochettino schifo.» Minho allungò il cinque a Lizzy che ricambiò. Newt disapprova completamente quell'alleanza, e iniziò a sibilare a Minho false minacce come "alto tradimento", "me la pagherai".
Mentre l'ampolla di pace, amore e mancanza stava svanendo tra i due fratelli, ritornando ai loro innocui e simpatici battibecchi che avevano caratterizzato l'infanzia e l'adolescenza a Minho squillò il telefono, agganciò poco dopo.
«Beh, forse questa persona così gentile che ti ha regalato la torta è la stessa che mi ha pagato il viaggio, la pensione e tutto.» Buttò lì Elizabeth con non-chalance addentando un cracker.
«COSA? COME?! CHI?» Urlò, sgranando ancora una volta gli occhi. Simile reazione la ebbe Minho, ma più per lo stupore, si domandò quanto diamine avesse speso il benefattore anonimato, facendoci un pensierino, un amico del genere faceva sempre comodo.
«Dai, Newt...era ovvio che qualcuno mi avesse avvisato, mi spiace deluderti ma non ho visioni, né prevedo catastrofi.» Informò Lizzy sarcastica, quello che Newt voleva farle capire era che non c'era nulla su cui scherzare.
Da subito non ci vide niente di buono, la sua reazione allarmata ne era la prova. I suoi pensieri finirono subito a pensare a qualcuno di negativo, magari gli uomini di Jigsaw avevano indagato su di lui, intercettando i membri della sua famiglia. Magari era tutta una trappola ben studiata, persino il colpo alla caviglia poteva essere stato un escamotage per far arrivare in Virginia qualche suo parente, per poi catturarlo e prenderlo in ostaggio. Le rotelle della sua testa stavano girando irrefrenabili, a breve il fumo gli sarebbe uscito dalle orecchie per i troppi calcoli, ipotesi.
«Ehi, Newt, conosco quella faccia, stoppa le pippe mentali!» Fu Minho a sgridarlo, neanche lui aveva un'espressione rassicurante, ma anche stavolta, la pensava diversamente dal biondo. Suppose che l'artefice della torta fosse lo stesso che aveva permesso a Lizzy di arrivare lì.
«In effetti mi stavo appunto chiedendo come avessi trovato il mio indirizzo, non ricordo di avertelo mai detto.» Collegò i tasselli, sempre più terrorizzato. C'era qualcuno dietro le quinte che aveva premeditato tutto, nel miglior modo possibile. Cosa poteva essere se non una trappola?
«Infatti, no...Me l'ha detto una ragazza. Mi ha contattato prima tramite messaggio e poi in una telefonata, dandomi tutte le indicazioni. Molto dolce e simpatica.» Newt ignorò il parere di sua sorella riguardo la sconosciuta, i peggiori serial killer sapevano interpretare ruoli innocui.
«Mh...potrebbe trattarsi di Brenda, ti ha detto il suo nome?» Intervenne Minho, in panni da detective Conan.
«Mh...no, anche se credo l'abbia fatto ma l'ho subito dimenticato.» Elizabeth scavò a fondo nei suoi ricordi, scorrendo i messaggi e le telefonate. « Uff, non mi viene proprio in mente...»
«Ma cazzo, Lizzy, non puoi fidarti di chiunque. Mamma e papà ti hanno sempre detto di non accettare caramelle o passaggi da sconosciuti e tu che fai? Trasgredisci le regole, mettendo in pericolo la tua vita e volando da un continente all'altro.»
Elizabeth fu offesa da quell'attacco, non soltanto aveva abbandonato i suoi studi slittando con gli esami e avesse viaggiato con il cuore in gola, in pena per la vita di suo fratello, quello era il ringraziamento? Bastò poco per far infuocare anche lei.
«Cos'avrei dovuto fare sentendo che mio fratello aveva rischiato di morire? Mi hanno detto la verità e devo ringraziarli, mi hanno permesso di raggiungerti e starti vicino.» Ricordò, alzandosi dalla sedia, completamente infuriata e ferita.
«Sì, ma se non fosse stato così? Se stavo bene e ti dicevano che ero morto e chissà dove? Tu seguivi degli estranei, trovandoti chissà in quale pericolo.» Le vene del collo di Newt si erano accentuate, risaltavano violacee sul pallido incarnato. Minho si alzò e gli si sedette vicino.
«Amico, calmati. Saranno stati i nostri colleghi della base, per farti felice...ne sono sicuro, quella stronza di Lillian avrà voluto farti una sorpresa.» Sviò, se si trattava di chi davvero aveva in mente, non voleva essere lui a dirglielo. Newt però troppo arrabbiato e spaventato per dar retta a Minho continuò per la sua strada.
«Non ci posso credere, sei così ingenua, Lizzy, tu non hai idea con chi ho a che fare, potevano essere quei bastardi degli uomini di Asso di picche. Potevano prenderti in ostaggio, farti del male.» Portò le mani in viso, cercando di scacciare i pensieri peggiori. Erano stati sul punto di violentare lui, e Thomas l'aveva evitato. Se avessero osato fare qualcosa a sua sorella, non se lo sarebbe mai perdonato.
«Mi credi davvero ingenua? Pensi davvero che sarei caduta in qualche trappola?» Gli occhi sgranati e la voce alta, Lizzy mostrava sul viso la delusione. Minho era quello che stava soffrendo di più, non sapendo cosa fare.
Newt tacque, dopotutto era ciò che aveva detto pochi attimi prima.
«Ho detto a quella ragazza che le avrei creduto solo se mi avesse detto in che modo mi chiamavi tu da bambina, e lei mi ha risposto esattamente al primo tentativo con una determinazione allucinante. Era chiaro che avesse parlato con te, che ti conoscesse, e che tu ti fidassi di lei.» Minho sorrise, dopo quella frase le cose si sarebbero messe a posto. Elizabeth non era stupida e quella persona non era un nemico come il biondo credeva.
A5, che si era un po' sollevato all'inizio della frase, grato che sua sorella non fosse una credulona, era scoppiato di nuovo in un accesso di rabbia, constatando di non aver mai rivelato a nessuno il nomignolo con cui si rivolgeva a sua sorella da bambina.
Anche stavolta ci volle Minho per ripristinare la situazione e calmare gli animi in tempesta. «Vediamo di calmarci, okay? Un attimo. Riflettiamo bene e a fondo.» Proferì con estrema lentezza, inspirando ed espirando, invitando i due fratelli a fare lo stesso, quando i due si decisero e captò i loro spiriti meno bollenti, continuò; «Qua solo uno, che supera di gran lunga i mezzi di Jigsaw sa i cazzi e mazzi di tutti.»
Newt ci pensò un po' su, lo sguardo fisso davanti a sé, scioccato, poi gli destinò un'occhiata incredula, già il fatto che fosse dubbiosa fece intendere a Minho che avesse capito a chi si stesse riferendo. Elizabeth, intanto, era l'unica all'oscuro.
A5 scosse la testa a destra e sinistra, poco convinto. La persona a cui stava alludendo Minho era capace di scovare tutto, ma dubitava fortemente che si fosse spinto così oltre per lui, soprattutto se era sparito dalla sua esistenza.
Dopo un lungo scambio di occhiate confuse, accusatorie e a tratti convinte di Minho, quest'ultimo con un colpo di reni s'alzò dal divano.
«Voglio vederci chiaro, passo da Brenda. Se sono loro, ti tranquillizzi, se non sono loro, credo che sia giusto iniziare ad allarmarsi. Ah, prima che mi dimentichi...Ero passato in ospedale per darti questo.» Ecco spiegata la stranezza. Lee non si era mai recato in ospedale di mattina, sempre negli orari di visita fissati alle sei del pomeriggio. «Stamattina ho fatto un salto alla base per delle faccende e ho avuto modo di prelevarlo.» Intrufolò la mano in tasca ed estrasse un oggetto familiare. Newt fu sorpreso, era sicuro che non l'avrebbe più ricevuto.
«Il mio telefono...» Proferì con lentezza, sbigottito. Non credeva ai suoi occhi, o meglio alla circostanza in generale. Nella sua testa aveva messo in scena un film mentale dove Thomas eroicamente bussando alla sua porta glielo riportava. Figurarsi se poteva concretizzarsi...
«Già, l'agente Stan ha recuperato tutto, tra cui il tuo telefono. Tutto ciò che era nell'auto di... Thomas, adesso è nei garage della CIA, al sicuro.» Dopo tempo di nuovo quel nome, si vedeva che anche Minho avesse difficoltà a pronunciarlo, lo evitavano entrambi come la peste. La sua ragione la sapeva, ma quella dell'asiatico continuava a restare sconosciuta. E non aveva avuto neanche il coraggio di chiederlo. «È tutto al sicuro, io vado, vi farò sapere appena ho notizie. Newt ci sentiamo, alla prossima, fiore di loto, è stato davvero un piacere.» Minho le baciò di nuovo la mano e in una corsa da Bolt, si defilò con una rapidità impressionante, chissà se perché mosso dalla sete di scoprire chi si celasse dietro a tutto quello o perché semplicemente gli mancasse Brenda.
«Thomas eh?» Borbottò Lizzy, l'indice al mento e un'espressione pensierosa in viso. Era una strategia per cambiare argomento, cercando di allontanare suo fratello dal ricordo del litigio di poco prima. «Hai cambiato espressione per un po', non so molto di questo Thomas...» Constatò, mettendosi in piedi, mangiucchiando una mela. Aveva notato l'imbarazzo che aleggiava tra Minho e suo fratello, a quel nome Newt era completamente atterrato su un altro pianeta.
«Perché non c'è niente da sapere. È un collega, nessuno di importante.» Cercò di mantenere tono e viso neutrale per quanto possibile. Maledizione, era un agente specializzato dell'Intelligence doveva nascondere al meglio le sue emozioni, eppure, con sua sorella minore era sempre stato difficile, ricordava quando gli portava a casa compagni di classe per farlo flirtare. Che creatura diabolica!
«Okay...Minho è un tuo collega e amico, palesemente etero, quindi la domanda sorge spontanea...dov'è Ben? Non dovrebbe essere con te?» Elizabeth era fatta per il gossip, eppure, sembrava confusa, figurarsi se avesse saputo tutta la vicenda. Sarebbe impazzita.
«È un periodo un po' così...» Preferì limitarsi, s'alzò e cercò di sparecchiare. Un'impresa impossibile, come avrebbe tenuto stampella e piatti? Decise di dire qualcos'altro o conoscendo Lizzy lo avrebbe stremato con le domande. «Ci siamo un po' allontanati, un periodo di pausa.» Pensò che potesse bastare, ma...
«Ah, bello stronzo, quindi si è allontanato da te nel momento in cui avevi più bisogno di lui.» No, in realtà quella descrizione calzava a pennello a Thomas, Ben, per quanto insopportabile gli aveva fatto visita, solo che lo aveva gentilmente mandato a cagare tramite un'infermiera.
«No, in realtà ci siamo allontanati dopo poco aver iniziato il mio nuovo incarico alla CIA. Incomprensioni e litigi, molti agenti sono single e senza legami familiari proprio per questo, sai? Il sacrificio, sorella, brutta cosa.» Newt restio continuò a sparecchiare, ignorando le premure di sua sorella.
«Mh...interessante, quindi qualcosa comprometteva la vostra relazione o meglio dire qualcuno.» Dedusse, soffermandosi ed enfatizzando l'ultima parola, finse di guardare altrove, ma con la coda dell'occhio, restò lo sguardo inchiodato su suo fratello che era sempre stato peggio di un libro aperto con le emozioni.
E Newt la detestava per questo, sin da bambina possedeva un ottimo intuito in fatto d'amore, triangoli e romanzi rosa. Aveva fatto centro, e a Newt caddero i bicchieri da mano, per fortuna erano di plastica. Lizzy li sollevò posandoli nella pattumiera, poi quasi strappò via i piatti dalle mani del fratello, che sistemò nel lavello della cucina, promettendo che li avrebbe lavati dopo quella conversazione sorprendentemente interessante, perché diciamocelo, suo fratello in ventisette anni di vita non aveva avuto una relazione degna di pettegolezzi, tutte piatte e monotone. Una vera seccatura, gli mancava sempre il brio, la scossa o meglio la scintilla.
Lei gironzolò per casa in cerca di un vaso per il mazzo di girasoli, mentre suo fratello s'affacciò al balcone per fumare, lasciò la porta aperta così che potessero comunque continuare a parlare e sentirsi.
«Credo che tu e Ben dovreste far pace.» Gongolò all'improvviso, mentre Newt aspirava ampiamente la nicotina, cercando di concentrarsi sulle macchine che sfrecciavano sotto al suo palazzo. «Tutto l'amore che provi per lui lo hai messo in questo ritratto. Sono felice che continui a coltivare il tuo hobby, e ...se questo ritratto gli è fedele, mio caro fratello, sappi che è proprio bello il mio futuro cognato.»
Newt si voltò, Lizzy lo aveva raggiunto sul balcone e stringeva tra le mani un foglio. A quella vista trasalì. Sapeva che non poteva più mentirle. Lei aveva trovato quel foglio, quel disegno, il ritratto che aveva sentito il dovere di riprodurre perché in quegli occhi, quando era a New Delhi, aveva visto il vero dolore, quello autentico, quello che stacca l'anima. Aveva visto la sua umanità. La sua essenza era lì, in quelle iridi dove avrebbe voluto annegare per sempre. Perché lui provava qualcosa per quello stronzo.
Non era un'attrazione fisica, una cotta passeggera, poteva essere il suo grande amore. Forse platonico, ma sicuramente amore. Perché non potevi tenere a qualcuno in maniera così indefinita se non c'era un sentimento profondo alla base. Sembrava che Thomas costruisse edifici, pietre su pietre, porte con serrature cifrate e lui combattesse per abbatterle, per annullare la distanza tra di loro.
Era stremato, sfinito, non sapeva per quanto avrebbe dovuto vivere ciò, ma sapeva che sarebbe pesato il triplo senza di lui. Per lui avrebbe lottato, e lo avrebbe fatto il doppio se fosse servito a costruire un noi.
«Lui non è Ben.» Balbettò, lasciando sospesa la sigaretta. La cenere stava cadendo sul pavimento, facendo la medesima fine che il suo cuore aveva fatto nei giorni passati, in ospedale, aspettando qualcosa che non era mai arrivato.
Era stato un colpo. Vedere quel foglio era come rivederlo di persona. Lo aveva riprodotto fedelmente. Le lacrime gli pizzicarono gli occhi, partendo subito in rassegna i momenti critici nel suo abitacolo, il tocco delle mani e tante altre cose che non ricordava nella confusione, nello stordimento...gli sembrava anche di aver visto una cicatrice sul petto, ma non ne era sicuro.
«Lui...Lui è Thomas.» Rivelò in un soffio dopo lunghi minuti di silenzio, le gambe e le mani che tremavano senza possibilità di fermarsi, di calmarsi. Faticava anche a tenere tra le dita un oggetto così lieve come la sigaretta. Elizabeth lo notò e riconobbe in silenzio che era un fatto mai visto prima, quel tipo di sentimento lo aveva vissuto qualche sua amica, lei una volta, ma suo fratello, mai era stato così coinvolto in una relazione o quello che fosse. Lizzy non parlò, non c'era mai stato bisogno tra loro di stupide e vuote parole, avevano una connessione profonda, che andava oltre, si limitò a poggiargli una mano sulla spalla, massaggiandola con degli affettuosi cerchietti in segno di conforto.
Il ragazzo si affacciò al balcone, le mani salde alla ringhiera, gli occhi chiusi e il respiro ansante.
Thomas. Maledizione, quanto gli pesava soltanto pronunciare quelle due sillabe.
***
Aveva mantenuto la promessa che aveva fatto a Chuck, a sé stesso e anche quella alla vecchia bagascia dell'assistente. Avevano trascorso entrambi una giornata diversa, con qualche intoppo, certo, ma si era rivelata curativa. Un cerotto per la grossa ferita che si portava addosso, dentro.
Al parco giochi erano saliti su tutte le giostre, fatta eccezione per quelle demenziali, Charles le aveva scartate con un'aria da snob e Thomas lo aveva lasciato fare. Doveva riconoscere che il piccoletto aveva davvero gusto e coraggio, a suo contrario. Si era trovato diverse volte a urlare peggio di un disperato e il piccoletto, incredulo, aveva ipotizzato che fosse tutta una farsa messa su per farlo ridere, sperò che fosse così perché l'invincibile Thomas spaventato, sudaticcio e tremante era davvero ridicolo. Aveva addirittura preoccupato i tecnici delle giostre, quando era scoppiato in uno stridulo urlo: «Non salirò mai più su questa creatura diabolica.», rivolgendosi alle montagne russe. Quante personalità aveva l'agente dei servizi segreti? Prima pestava a sangue uno da una faccia brutta come la sploff e poi si terrorizzava con delle giostre? Sapeva davvero essere strano Thomas Edison.
Per non parlare di quando erano saliti sulla ruota paranoica, ad alta voce aveva insultato tutti quelli che vi erano saliti perché fossero solo ed esclusivamente coppiette, l'unico duo diverso erano lui e Chuck.
«Incredibile, l'amore ha monopolizzato la ruota panoramica, se si è amici sembra quasi sia un reato salirci, vedi Chuckie siamo gli unici, che idiozia!» Inutile dire che occhiate gli avevano destinato le coppie sedute in prossimità della loro postazione.
Dopo il disastro alle giostre, il dovuto zucchero filato e la dolcissima mela caramellata equamente divisi e tutti imposti da boss Chuck, così lo aveva soprannominato Thomas, verso fine pomeriggio, aveva riflettuto che di certo un boss non poteva rincasare a piedi, così avevano fatto un salto a casa e recuperata la moto, con i dovuti caschi avevano girovagato qua e là. Per il tragitto Chuck non aveva lasciato neanche una volta la stretta al petto di Thomas, che aveva viaggiato responsabilmente a una velocità moderata, rispettando tutti i segnali e concedendo anche precedenze che non doveva.
Per non fare la figura del pappamolle, il piccoletto ogni tanto lo rimbrottava con frasi del tipo; «Anche una tartaruga andrebbe più veloce.»
«Ne riparleremo tra qualche anno, Chuckie, quando ne avrai anche tu una, e faremo delle gare negli appositi circuiti.» Aveva risposto Thomas con aria scherzosamente di sfida.
Giunsero a destinazione in una quindicina di minuti, furbamente Edison parcheggiò distante dall'edificio, così da non far vedere alle assistenti su che mezzo-poco sicuro- avesse viaggiato il loro ospite. Quando furono dinnanzi al cancello, Chuck strinse affettuosamente Thomas, chiedendogli di replicare quella giornata pazza quanto prima, Edison gli diede la sua parola. Il bambino fece per togliersi la giacca, ma Thomas gliela lasciò, come pegno del loro secondo incontro. Si salutarono con una sequenza di gesti, un saluto personalizzato che Chuck reputava "figo e unico" soltanto per loro. Lo ripeterono diverse volte, perché Thomas sbagliava sempre qualche mossa, quando alla fine ci riuscì, si rivolsero caldi saluti come se fossero amici da sempre, poi il più grande infilò il casco e diede gas. Sarebbe tornato nel luogo dove aveva trascorso gli "arresti domiciliari", concedendosi prima però l'ora d'aria.
***
«Sei ancora arrabbiato con me, fratellone?» Domandò Lizzy, puntando i suoi smeraldi sulla figura silenziosa di fronte a sé. Aveva già spolverato le mensole, spazzato e ora stava passando il mocio. Aveva insistito per dare una sistemata alla casa, anche se non era completamente in uno stato pietoso, ma un ulteriore profumo di pulito era comunque ben gradito. Newt aveva cercato di fermarla, ma sua sorella era un vulcano attivo, nello studio, pulizie domestiche, nello sport... Ogni volta che era come sfidare un muro, e chiunque provasse a contraddirla, perdeva in partenza.
Sconfitto, quindi si era rilassato-o almeno è ciò che stava cercando di fare- sulla sedia, le gambe allungate e poggiate sulla sedia, sistemato in modo che non potesse recare problemi e ulteriori dolori al piede infortunato. L'argomento "Thomas" non l'avevano più riaperto e andava bene così, sapevano entrambi quando sarebbe stato il momento giusto.
«No, Lizzy, però promettimi che sarai prudente, ho a che a fare con gente senza cuore, non voglio raccontarti cosa hanno tentato di farmi fare...» Avrebbe voluto continuare con "se non fosse stato per Thomas", ma decise di cambiare con «Mette i brividi...»
«Va bene, va bene, ho capito. Non pensarci, starò attenta. Piuttosto...Minho ti ha scritto qualcosa? Fissi il telefono come se a momenti dovesse uscirci qualcuno da lì dentro.» Newt mosse il capo a destra e sinistra, abbattuto, poi, inevitabilmente, di nuovo lo sguardo cadde sullo schermo nero.
Era assurdo solo pensarlo, figurarsi dirlo ad alta voce a sua sorella, ma avendo recuperato il telefono, paradossalmente si sentiva più vicino a Thomas, quello avrebbe potuto scrivergli, avrebbe potuto osare anche telefonargli, non importava che fossero passati giorni e che lo aveva ignorato completamente. Gli avrebbe perdonato se in quel momento gli avesse inviato un messaggio chiedendogli "come stai?"
Un freddo "come stai" sarebbe andato bene, gli sarebbe bastato. Per una volta forse anche Isaacs Newton sarebbe riuscito ad accontentarsi.
Da un lato quindi si sentiva sereno, con una piccola fiammella di speranza accesa che a momenti avrebbe potuto brillare, dall'altro lato, invece, era l'ennesima dimostrazione che nonostante vi fossero tanti modi, ciò che voleva era comunque irraggiungibile, faceva più male di tutto. Un conto era non aver modi e mezzi, un altro averli e non usarli per menefreghismo, disinteresse. A Thomas Edison davvero non importava niente di lui.
Lizzy restò in silenzio, poi gli si avvicinò, scompigliandogli affettuosamente i capelli. «Tranquillo, a breve arriverà la pizza e dimenticheremo tutto con una bella birra ghiacciata, come i vecchi tempi, ricordi?»
Newt sorrise appena, un sorriso costretto, di circostanza. «Certo che ricordo» Si limitò a rispondere, inarcando le labbra in un sorriso sornione. La sua vita lavorativa per non parlare di quella sentimentale stava andando allo scatafascio, ma almeno l'unica nota positiva, l'appiglio che gli faceva sentire che non tutto era perduto, era sua sorella, che per fortuna era lì con lui, non oltreoceano come i suoi genitori.
Il tempo passò veloce, in men che non si dica, il campanello suonò annunciando l'arrivo delle pizze. Prima che potesse alzarsi per consumare la cena guardò di nuovo il cellulare, in attesa anche di una "A" inviata per errore, una chiamata di un secondo, ma ancora una volta nessuna notifica e notizie che non riguardavano Thomas lo facevano solo innervosire ulteriormente oltre che deprimere.
Ciò che non sapeva era che proprio sotto al suo palazzo, mentre le auto continuavano a sfrecciare e un ragazzo con uno scooter consegnava due pizze, in disparte, con un casco in testa, un altro ragazzo che conosceva molto bene e che stava aspettando da sempre, in silenzio, nell'ombra, teneva gli occhi fissi sul suo balcone, la luce fioca accesa nella cucina che illuminava flebilmente l'abitazione.
Il motociclista estrasse il telefono dalla tasca dei pantaloni, andò su rubrica e scorse fino ad arrivare alla lettera N, quel nome era sempre stato lì, e ora che sapeva che Newt era di nuovo in possesso del suo telefono, poteva cominciare a fare qualche passo. Aveva sbagliato, ma poteva rimediare, poteva scrivergli qualcosa, ma cosa?
Sarebbe stato appropriato chiedergli come si sentisse, anche se abbastanza ridicolo, avrebbe voluto osare inviando un "mi sei mancato" o ancora più sincero "mi manchi", perché quella di Newt era una mancanza che non aveva fine, ma non lo avrebbe mai ammesso a sé stesso, né tanto meno scritto e inviato al diretto interessato. Avrebbe dovuto essere sfrontato con un "Sono sotto casa tua, scendi? No, salgo io, non ti affaticare." Ma non l'avrebbe fatto mai, né in quella vita, né in un'altra.
Avrebbe dovuto ringraziarlo, perché per l'ennesima volta gli aveva salvato la vita, e invece ciò che desiderava fare era soltanto urlargli contro di sparire, di iniziare una nuova vita con un lavoro al sicuro lontano da lui. Lo odiava, perché quel biondo saccente era paradossalmente come lui, indomabile e ribelle, spaventosamente simile.
L'odiava perché non riusciva ad odiarlo. Sbuffò, sentendosi ridicolo nel ripetere tra le labbra quella frase, attimi prima nella sua testa aveva avuto senso.
Deluso e arrabbiato con sé stesso, per essere uno stupido fifone, incapace di capire cosa fosse giusto fare, vittima del suo conflitto interiore, fece ciò che gli riusciva meglio, mise in moto e accelerò, scappando ancora una volta da Newt, lasciandosi dietro l'abitazione dell'agente Isaacs, che alle sue spalle si confuse tra i tanti palazzi colorati.
Ignorò che per quanto lontano potesse andare, non sarebbe mai stato abbastanza per poter sfuggire a ciò che aveva dentro. Sotto pelle, un pugnale conficcato in profondità nello sterno aveva scavato a fondo, incidendo con l'argentea lama quattro lettere che non sarebbero andate mai via. Ormai facevano parte di lui.
***
Camminò molto, quando era in sella alla sua moto, il tempo scorreva rapidamente, rivelandosi curativo, pareva che quelle passeggiate mettessero ordine nei suoi pensieri, alleggerendo i pesi che si portava addosso da troppo tempo, senza risoluzioni. Rincasò verso le nove di sera, optò anche lui per una pizza, che consumò in compagnia delle pile di filmati del Barcode.
Voleva vederci chiaro sugli uomini con cui Newt aveva avuto a che fare nella missione in veste di spogliarellista, così da vedere se vi trovava volti familiari che anche lui aveva di recente scontrato all'interno della fabbrica.
Sarebbe stato un miracolo anche scorgere qualche indizio in più sulle origini di Chuckie, dopotutto lo avevano trovato nei sotterranei di quel locale, era probabile che avesse legami di parentela con qualche ballerino.
Non voleva piombare con domande indelicate nella vita del piccoletto, non gli avrebbe chiesto spudoratamente con interrogatori specifici del suo burrascoso passato, scavando senza pietà nei suoi ricordi brutali, sapeva cosa significava, aveva vissuto in prima persona l'indelicatezza di agenti spietati che lo avevano assillato di domande, invece, di fargli elaborare il lutto, nel suo silenzio e dolore.
Non avrebbe mai fatto un simile errore con quel bambino. Se doveva vederci chiaro, avrebbe indagato a fondo, interrogando parti esterne, pazientando tanto. Se c'era una cosa che aveva imparato facendo quel lavoro era che la verità impiegava sempre troppo tempo per uscire fuori.
Avviò le cassette, passarono ore, ma non riuscì ad emergere nessuno spunto degno di nota, o forse qualche piccolo indizio apparve, ma Thomas era troppo preso da tutt'altro che non lo notò.
L'orologio enorme al capo del letto segnava ormai le tre e un quarto di notte, nessuna traccia di sonno, un minimo riposo per la sua anima.
Pensò di fare una doccia e scrollarsi di dosso tutte le cose storte che erano avvenute in quella giornata, per pochi istanti dedicò i suoi pensieri a Ben Miller, chissà cos'altro gli avrebbe riservato. Sperò con tutto sé stesso che avessero chiuso lì i conti. Si infilò il pigiama e si lanciò a peso morto sul letto.
Era sicuro che avrebbe atteso il giorno con gli occhi spalancati, in stato vigile e attivo, ma almeno avrebbe ricalcato i momenti che aveva vissuto con Newt, era una cosa che lo imbarazzava, ma in fondo, nessuno lo sapeva. Avrebbe ripercorso con la memoria i momenti trascorsi insieme, soprattutto quelli più recenti, emozionanti.
Ricordò il tocco caldo delle sue mani, strette l'una all'altra, e neanche si rese conto che dopo tempo, riuscì a chiudere gli occhi, vittima di Morfeo.
Sdraiato su un fianco al lato destro del letto la mano del sonno riuscì a posarsi su di lui, ignaro che a pochi centimetri dalle sue labbra ci fosse A5.
L'ologramma del chip si era interrotto a una riproduzione ben specifica: il ricordo di Newt nella sua auto.
I capelli biondi che giorni prima erano ricaduti sul suo petto, grazie all'effetto tridimensionale, in quel momento erano sparpagliati in disordinate e dorate ciocche, riflesse proprio sul suo cuscino. Il petto del biondo si abbassava e alzava a respiri regolari a pochi centimetri dal suo, le labbra schiuse e il respiro ansante, a tratti affaticato. Ricordò la propria lacrima, mentre raccontava a Newt di sua madre, della paura che negli anni si era imposto di non provare e che come una diga sul punto di cedere stava pian piano gettando fuori tutto il pianto, distruggendo i limiti e confini che s'era imposto nel tempo.
Sopraggiunse un sogno in dormiveglia, una mezza realtà, un ardente desiderio.
Paradossalmente, ai limiti dell'impossibile, dell'indicibile e inimmaginabile, riprodotto in un ologramma quasi reale, Newt era lì, di fianco a lui. Faccia a faccia. Le labbra distanti pochi centimetri permettevano quasi ai loro respiri di fondersi l'un l'altro.
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