16. Rehabilitation from pain
N/A: La riabilitazione del dolore, un titolo insolito, ma appropriato per ciò che andrete a leggere. L'ideale per racchiudere ciò che affrontano Newt e Thomas in questo capitolo, con "dolori" differenti. Spero di non deludere le vostre aspettative, sono 53 pagine di word che ho revisionato, ma gli errori scappano, quindi scusatemi! P.s: Per chi avesse letto la mutazione(prequel di James Dashner) troverà due nomi familiari: Alec e Lana. Mi piace scrivere e citare un po' tutti i personaggi, far vagare la fantasia. Be', spero che questa lunga attesa ne sia valsa la pena. Felice Pasqua ^-^
16. Riabilitazione dal dolore
Thomas non riuscì a credere come a distanza di anni potesse rivivere ciò, soprattutto con chi aveva sempre creduto di odiare. Emozioni contrastanti si stavano elevando dallo stomaco fino al cuore, con Newt dormiente tra le braccia, sul suo petto.
Il respiro si incastrava nei nodi invisibili che gli stringevano la gola, il cuore batteva all'impazzata più di quando il timer della bomba si stava avvicinando allo zero, al fianco di Teresa.
Stava vivendo una sensazione oscura e incontrollabile, tanto familiare quanto remota; la equiparò a quella vissuta il marzo di quindici anni prima.
Era un sabato soleggiato, maledettamente felice; la radio trasmetteva le canzoni del momento, spensierato, cantava a squarciagola con i suoi genitori, fregandosene bellamente se fossero fuori tempo o avessero confuso i versi.
«È il cantante a sbagliare, mica l'insuperabile famiglia Edison.» Ironizzava così Alec, suo padre, ogni qualvolta ci fosse una discordanza con il testo, e ciò capitava spesso.
Thomas aveva cominciato a insospettirsi, dubitando che gli errori da parte dei suoi fossero voluti, fatti di proposito perché adoravano che li correggesse.
«No, mamma, dice: I won't be afraid, just as long as you stand, stand by me.» Scandì accuratamente una parola dopo l'altra, gesticolando.
Per gli errori di alcune canzoni faceva orecchie da mercante, ma se si trattava di Stand by me, esigeva la perfezione. Dal primo ascolto se ne era innamorato follemente e non passava giorno che non la ascoltasse, di conseguenza non ammetteva errori. Un capolavoro di Ben E. King del 1961, nata esattamente trent'anni prima della sua nascita. Sua madre scherzosamente gli diceva di avere gusti vintage, senza mai abbandonare il genuino sorriso che si sollevava agli occhi, illuminandoli e creandovi attorno quelle rughe che Thomas amava tanto.
«Uff... Non-sono- vecchio!» Sbottò, la fronte aggrottata in un'espressione arcigna. «Hanno fatto anche versioni recenti, ma che ci posso fare se l'originale è la migliore?» Le braccia conserte al petto e l'espressione indispettita.
Quel ricordo apparteneva a qualche anno prima dall'incidente, aveva circa sette anni e se ne stava seduto con le gambe incrociate sul grosso letto a baldacchino della loro casa in vacanza, in giro per l'Europa. Sua madre disfaceva i bagagli, mentre suo padre in punta di piedi le si stava avvicinando alle spalle, circuendole i fianchi e iniziando a ondeggiare sulle note del lento.
«In effetti, le 2.0 non ci permettono di fare questi balletti che ti piacciono tanto, Lana. Tom ha ragione.» Strizzò l'occhio in direzione del figlio, che gli sorrise di rimando, alzandogli il pollice.
«L'ho sempre detto che è la canzone perfetta per rimorchiare.» Constatò, fiero di capire già di musica.
«Thomas!» Ripresero all'unisono i genitori, e con una fragorosa risata lo raggiunsero sul letto, dando inizio a una battaglia di solletico all'ultimo respiro.
Amava incondizionatamente quei ricordi, amava incondizionatamente quella canzone.
Infatti, il suo cuore fece un tuffo quando lo speaker l'annunciò alla radio. Cosa poteva desiderare di più? Era la giornata perfetta: sole, la primavera nell'aria, la radio trasmetteva la sua canzone preferita, avrebbe mangiato al McDonald's con i suoi adorati genitori e sulla strada del ritorno avrebbero comprato anche del gelato.
Tutto maledettamente perfetto. Non avrebbe mai immaginato che fosse la quiete prima della tempesta, che di lì a poco si sarebbe consumata una tragedia.
Successe tutto con una fugacità inafferrabile.
Il momento prima stava toccando il paradiso, quello successivo era sprofondato nei meandri dell'inferno.
L'urto fu sovvertivo e devastante, tanto fulmineo da sembrargli irreale; ne seguì un improvviso scoppio di vetri, lo stridio degli pneumatici, la radio perse il segnale, e la vettura cominciò a zigzagare, interrompendo il solito incedere lineare.
Suo padre provò a frenare a fondo, mentre la vettura perdeva sempre più il controllo, issandosi su due ruote e volteggiando a mezz'aria; tornò sull'asfalto, capovolta.
Malgrado l'indolenzimento e il cuore che pompava a più non posso nel suo piccolo petto, appena l'auto parve assestata, con il fiato flebile chiamò i suoi genitori; benché fosse praticamente all'aperto, pareva che ogni molecola d'ossigeno si fosse dissipata, soffocandolo. La paura gli bloccava il respiro, e quella fame d'aria sembrava accrescere nel ricevere solo silenzio.
Voleva chiamare i soccorsi o chiunque altro si sarebbe offerto di aiutarli, ma gli uscivano solo deboli guaiti strozzati dai singhiozzi.
Riuscì a prendere il controllo di sé dopo interminabile tempo, quando sentì l'avvicinarsi delle sirene, annunciando l'arrivo dei soccorsi che, come una boccata d'ossigeno, gli permisero di farsi sentire.
«A-aiuto, aiutateci p-per favore...» Biascicò, bloccato tra una lamiera e l'altra. Dagli occhi avevano iniziato a scendere gocce calde, salate e silenziose che gli rigavano le gote paffute e rosee.
A testa in giù, un conato di bile bussò prorompente alla bocca dello stomaco, ma lo represse. Sapere che lì fuori ci fosse qualcuno che li avrebbe salvati lo spronava a resistere, gli trasmetteva forza e coraggio, alimentando miserabilmente la sua speranza.
Speranza che cominciò a svanire quando all'interno dell'abitacolo iniziò a propagarsi un forte odore di gasolio, fiutato anche dai pompieri che seguirono i loro protocolli alla massima velocità possibile; si scambiarono una fugace e tacita occhiata, prendendo la più sofferta decisione.
Uno di loro, probabilmente il caposquadra, flemmatico impartì: «Sbrigatevi, cercate di recuperare il salvabile.»
"Cercate di recuperare il salvabile?" Ripeté tra sé, incredulo e scioccato che gli uomini in divisa che aveva sempre idolatrato e visto come eroi prendessero decisioni del genere, senza rischiare il tutto per tutto.
Il suo mondo allegro e colorato si arrestò, venendo a contatto con la realtà degli adulti, quella vera prima del previsto. Capì che il mondo vero non era a colori, bensì grigio, una lotta continua dove i buoni erano destinati a fare una brutta fine.
Contrasse la mandibola, frenando per quanto possibile l'impulso di scoppiare in un pianto liberatorio. S'imponeva di reagire, di avere fede e soprattutto si ripeteva di essere più forte e grande della paura, solo che non riusciva a crederci.
Le lacrime continuarono a rigargli le guance, mentre si angustiava a soffocare i singhiozzi nel manicotto. Non voleva che i suoi genitori si preoccupassero più di quanto già fossero; almeno fisicamente lui stava bene, o quasi. Non avvertiva dolori lancinanti che segnavano la presenza di fratture, solo stordimento e qualche escoriazione, pareva non esserci nessuna ferita invalidante. A immobilizzarlo era lo shock, l'ignoto che lo attendeva.
Non sapeva cosa sarebbe successo, se avrebbe potuto mai più trascorrere una notte nel suo letto, un pomeriggio a scuola o qualche altra ora nel mondo. E neanche gli importava; se ci fossero stati i suoi genitori ad affiancarlo, si sarebbe sentito a casa anche all'inferno.
Tra le lamiere contundenti cercò di trovare lo sguardo di suo padre. Posò i piccoli occhi da cerbiatto impaurito sull'uomo, osservandone parte del viso, impregnato di sudore e sangue. Riusciva a vedere poco, ma gli bastava. Cercò di memorizzare avidamente ogni dettaglio di quel volto, imprimendolo indelebilmente nella sua memoria.
Il suo supereroe stava combattendo da vero guerriero contro il dolore, celò la sofferenza con tanta tenacia, come aveva sempre voluto insegnare al piccolo Thomas.
«Forte come un leone, è così che devi essere figliolo, in qualsiasi circostanza.» Glielo ripeté anche in quel momento, le parole tremolanti e gli occhi acquosi; tuttavia, gli squarci delle lamiere misero a dura prova anche il solido orgoglio di Alec Edison, che stava lottando per fungere da porto sicuro al suo piccolo, fino alla fine.
Sua madre, nonostante l'irreversibilità del momento, non abbandonava il solito dolce e rassicurante sorriso. Quanto coraggio e forza si celava dietro quell'espressione, pensò Thomas, commosso.
Il poco e debole respiro Lana lo dedicò interamente a lui; gli raccontò come in una favola tutte le cose belle che avrebbero fatto una volta usciti di lì, come se fossero già a casa da quella gita senza ritorno. Testarda come sempre, lottò tra i rottami per avvicinarsi alla sua piccola mano, e quando riuscì a raggiungerla, la strinse con così tanto impeto che Thomas credette che quella presa calorosa e confortante sarebbe stata il loro talismano per sparire da quell'inferno terreno.
Si sentiva in un'ampolla, in un pezzo di paradiso crollato nei gironi dell'inferno. Per un attimo, un solo istante dimenticò quell'orrore, credendo nell'impossibile, nelle favole, ma quelle...non esistevano.
Non ebbe neanche il tempo di imprimere quel momento nella sua memoria, di metabolizzare quell'attimo, che si trovò allontanato improvvisamente dalla presa materna, tirato fuori dalla vettura a un istante dallo scoppio. Il calore gli invase il viso, ma era già al sicuro per rimanerne colpito.
Quell'estraneo lo protesse con le proprie braccia, allontanandosi rapidamente dalla carcassa d'auto in fiamme.
In un attimo non c'era più quella mano dalla stretta rassicurante che avrebbe riconosciuto tra mille, che l'avrebbe salvato dalle cattiverie del mondo.
Non c'era più suo padre che gli avrebbe insegnato a guidare prima dei sedici anni.
Non c'era più chi lo avrebbe protetto dai mostri sotto al letto, chi gli avrebbe raccontato la favola prima di dormire.
I suoi punti di riferimento si dissolsero come cenere nel vento. Non era più a casa, mai più lo sarebbe stato.
I suoi grandi occhi scuri e luccicanti «come due stelle» -gli diceva sempre la mamma-, da quel giorno, divennero pozzi di nera e apatica sofferenza.
Quelle fiamme divorarono la sua famiglia, le sue certezze, il suo amore. Lasciarono solo macerie insanabili, cenere di una ormai lontana felicità.
Scalciò, dimenandosi dalla morsa giunta in suo soccorso. Iniziò a colpire l'uomo che lo teneva, mordendogli le braccia; i suoi arti si muovevano fuori controllo, sferrando inoffensivi calci e pugni. Voleva divincolarsi da quella stretta soffocante, avvicinarsi ai suoi genitori o a quello che ne rimaneva. Non glielo lasciarono fare, ma in compenso assistette all'intervento della squadra dei soccorsi qualche metro più in là.
Vide le fiamme affievolirsi fino a spegnersi, e due corpi carbonizzati, del tutto irriconoscibili estratti dall'auto.
Gli sguardi afflitti e amareggiati furono tutto ciò che scorse dal viso di quegli uomini. Sguardi che tradirono la sicurezza che ostentavano fisicamente.
I suoi genitori non ce l'avevano fatta a resistere. E di lui...Cosa ne sarebbe stato?
Un grido agonizzante scappò dalle sue labbra. Un pianto raccapricciante s'innalzò, la colonna sonora per quella dipartita.
Passarono ore, non aveva intenzione né di mangiare né di bere, fissava il vuoto senza sbattere le palpebre, catatonico. Su un altro pianeta.
Non sapeva dove fosse, né gli importava. Si mosse solo una volta, dopo tempo, la testa tenuta tra le mani, un'espressione distrutta aleggiava sul suo piccolo viso.
Schiacciò le meningi come se potesse spegnere il dolore che gli comprimeva la fronte. Una donna dal sorriso bonario si avvicinò, gli porse una tisana ai frutti di bosco e dopo tanta esitazione, ne bevve diversi sorsi. Avrebbe aiutato a ridurre il suo mal di testa, gli aveva detto.
E in effetti...Un secondo dopo l'altro la rabbia e la disperazione parvero allontanarsi dal suo corpo, svanire pian piano a ogni respiro.
Ingenuo. Si era fidato della prima persona che non fossero i suoi e già aveva sbagliato.
Avrebbe voluto replicare con "Cosa mi avete fatto, cosa c'era lì dentro."
Ma la voce cominciò ad affievolirsi, diventando una nenia incomprensibile e sconnessa.
Le forze cominciarono a mancare, scivolando via dal suo corpo.
I volti intorno a lui cominciarono a offuscarsi fino a diventare macchie indistinguibili.
Le palpebre si fecero pesanti, mentre nella sua testa riecheggiò solo una frase, il verso di una canzone, la sua:
Non avrò paura finché tu sarai con me.
Poi il buio lo travolse.
***
I pensieri viaggiavano inafferrabili, scontrandosi tra loro come macchine all'autoscontro.
Necessitava anche in quel momento di un tranquillante, peccato che non ci fosse nessun infermiere infame a somministrarglielo.
Da quando si erano rifugiati in auto, il suo cervello non si era concesso un solo istante di tregua; ininterrottamente, aveva esaminato le diverse possibilità e nessuna sembrava essere lontanamente attuabile.
Tramite il chip, era venuto a conoscenza che le strade principali e secondarie che avrebbe dovuto imboccare per tornare a Langley erano intasate in un ingorgo stradale che sommato al cattivo tempo, avrebbero tardato il loro arrivo, rivelandosi per Newt un tentativo vano quanto fatale.
L'ambulanza avrebbe riscontrato le medesime difficoltà, quindi l'unico salvataggio in cui riporre speranza sarebbe stato quello da parte dell'Intelligence per via area, semmai il segnale si fosse deciso a collaborare.
Febbrile, con le dita che tamburellavano sul sediolino e morsi che scavavano per punizione nel labbro inferiore, fissò in alto per innumerevoli minuti, ma dalla lastra grigia e scura, baluginata da qualche lampo gialliccio, scese soltanto pioggia battente. Nessun segnale, nessuna luce. Sbuffò spazientito, o forse non si trattava di pazienza persa ma ansia che aumentava un secondo dopo l'altro.
Ricontattò Brenda sia al computer della base sia al cellulare, ma la perseveranza addizionata al maltempo arrestò nuovamente il sistema, incanalando tutte le richieste di soccorso nella snervante dicitura: invio non riuscito. «Merda!»
Non demorse. Inoltrò gli SOS anche a Jorge e agli addetti della cyber sicurezza: Aris e Rachel. Prima o poi, tra i tanti destinatari, le segnalazioni sarebbero arrivate a qualcuno. Newt non poteva morire in un modo così ridicolo.
Cercò informazioni online, dritte per rallentare l'emorragia e migliorare-per quanto possibile-lo stato del collega, che non avrebbe retto a lungo; quel proiettile doveva essere estratto da chirurghi esperti, con materiali adatti, in una stanza igienizzata e al più presto possibile. Non poteva improvvisarsi dottore tramite un tutorial su youtube.
Il cofano della sua auto era un arsenale con cui avrebbe potuto difendersi da un intero esercito, ma non c'era la minima traccia di medicine, a parte un defibrillatore portatile, ma sperava di non doverlo usare. Al momento poteva solo aspettare e cercare di alleviare la sofferenza tramite supporto morale, ma anche in quello faceva piuttosto schifo, dato che negli unici istanti di coscienza del biondo gli aveva accennato dell'incidente dei suoi...Ottimo, no?
Si sentiva inutile proprio come qualsiasi altro umano. Impotente. Poco importava che avesse una mutazione genetica rara che gli permettesse di ospitare un impianto informatico racchiudendo informazioni top secret del mondo. Non poteva fare niente se non aspettare.
Esausto, lasciò scivolare la testa all'indietro, la chioma malconcia contro il finestrino. Le braccia, forti e gagliarde, sembravano aver perso la loro vigoria, scivolando in una dolce carezza sulle esili spalle del biondo, che nonostante indossasse la propria giacca, tremava sotto i suoi tocchi.
Aveva fatto di tutto per tenerlo al caldo, ma il gelido freddo montanaro s'insinuava scaltro all'interno dell'abitacolo, combattendo con il tepore che provava a stagnarvisi.
Una mano circuiva gradevolmente il polso bianco latte― di tanto in tanto scoccava un'occhiata all'orologio per controllare i battiti―, mentre l'altra era ancorata in quella del biondo in una presa risoluta, come se potesse trasmettergli la giusta dose di forza per superare quel momento cruciale.
Si fermò ad osservarlo, spaventato che si stesse mutando sotto il suo sguardo ad ogni secondo.
La pelle tesa, la fronte aggrottata in un'espressione sofferente; l'incarnato tendeva verso tonalità pallide quasi bluastre, significava che l'ossigeno non arrivava correttamente agli organi, lo aveva studiato nei corsi di anatomia, non troppo nei dettagli, purtroppo. Le labbra sempre curvate in un sorriso sbilenco, erano assottigliate in una linea dritta violacea, inespressiva. I respiri erano lamenti sofferti, probabilmente Thomas avrebbe dovuto ricorrere a una ventilazione artificiale (respirazione bocca a bocca). Portò le mani davanti al mento, le nocche tra le labbra, i pensieri che lo divoravano come avvoltoi assettati di terrore.
L'ansia cresceva sproporzionata, la paura di perderlo era più di quanto si aspettasse.
Sollevò la testa verso il tettuccio, cacciando indietro lacrime che avevano iniziato addirittura a pungergli gli occhi; tirò su con il naso.
Prese un respiro, ma l'ossigeno sembrava troppo poco per sentirsi sufficientemente appagato di quella boccata d'aria. Quanto poteva essere fragile.
Smorzò un sorriso beffardo a pensarsi in quell'istante, lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore, guardandosi. Aveva un aspetto da schifo e da mammoletta; se l'Intelligence l'avesse visto, Lillian lo avrebbe destituito seduta stante.
Ogni tipo di affetto o debolezza verso sé stessi o gli altri veniva considerato dalla CIA come qualcosa di troppo, d'intralcio per il loro lavoro.
«Le emozioni indeboliscono, distraggono il soggetto. Non è una coincidenza Edison che distrazione e distruzione siano così vicini, con la differenza di una sola vocale.»
Era ciò che l'austera Strand gli aveva fatto notare già nei loro primi incontri, e a Thomas un rapporto solo ed esclusivamente professionale andava più che bene, o almeno era quello che voleva in quel momento; con la morte dei suoi genitori la sua sfera emotiva aveva subìto un danno irreversibile, un blocco, una vita senza affetti non lo toccava minimamente anzi, avrebbe fucinato meglio la sua corazza.
Col passare degli anni aveva incontrato Teresa Agnes, l'unica che non fosse una psicologa specializzata in traumi infantili che l'ascoltava con piacere, senza mai giudicarlo, pronta sempre a porgergli la propria spalla su cui piangere. All'inizio era stata una buona amica, le aveva voluto bene. Un bene che non era mai sfociato in amore, e che si era rivelato unilaterale e tossico, tanto da offuscargli il giudizio.
Avrebbe dovuto spararle, in India, e invece, per l'ennesima volta come lo sciocco aveva tentato di salvarla, attribuendo la causa della sua morte ad A5, malmenandolo come non ci fosse un domani in un vicolo del Messico; non era l'unica volta che avesse sbagliato con quello dai capelli fulvi e...
Se ne pentiva, tanto.
Non avevano iniziato con il piede giusto e, probabilmente, se quello fosse sopravvissuto, avrebbero continuato nell'infinita corsa dei loro battibecchi, ma Thomas preferiva più essere inseguito per tutto il mondo da "il salvatore dell'universo" che vederlo sottoterra.
Avrebbe voluto urlargli che gli dispiaceva, dirgli che...
Lì, in auto con lui, mentre il cielo cupo e mesto liberava le sue incessanti lacrime, al centro del proprio petto si stava attivando qualcosa che non credeva più di avere. Un ingranaggio usurato, polveroso, saturo di ragnatele, bloccato da quindici anni, stava ritornando in funzione. E purtroppo o per fortuna era solo ed esclusivamente per lui.
Teresa gli era quasi morta tra le braccia, eppure, poté giurare che quel magone d'ansia che aveva nello stomaco mentre la testa di Newt si abbassava e alzava a respiri sempre più lenti e affannati sul suo petto, non l'aveva mai provato con nessun altro al di fuori dei suoi genitori; con stupore notò che quella fiamma di speranza che si era estinta con una ventata di gelido freddo in quel fatale incendio, improvvisamente era tornata a bruciare più ardente di sempre, facendogli sussurrare con un filo di voce in una tiritera; «Dai, resisti.»
Non avrebbe convissuto con quella perdita, non se lo sarebbe perdonato.
Si protese verso i sediolini anteriori per arrivare al cruscotto, alla ricerca di fazzoletti o qualsiasi altro tipo di straccio, avrebbe usato anche quello con cui lucidava la carrozzeria se solo l'avesse trovato.
«Quando cerco qualcosa puntualmente non c'è.» Brontolò di cattivo umore, rilasciando un sospiro affranto.
Perlustrò la sua Maserati nera in attesa di idee, di un piano. Aveva solo armi in quell'auto, niente che potesse aiutarlo, nemmeno una bottiglina d'acqua.
Portò i capelli all'indietro, scombinandoli più di quanto già non fossero, poi iniziò a strapparsi le pellicine con i denti come se non si cibasse da giorni. Un cannibale avrebbe avuto più grazia.
A corto di idee, decise di attuare l'unica che gli era balenata in mente. Cacciò fuori il coltello a serramanico, nascosto sotto il tappetino, e tagliò un angolo della maglia, scoprendo parte dell'addome.Aprì di poco il finestrino, giusto un po' per bagnare la stoffa con l'acqua piovana.
Si sentiva un primitivo, ma almeno avrebbe potuto migliorare l'aspetto del biondo, bagnargli le labbra per evitare che si disidratasse, pulirgli via il sangue che macchiava quel dolce e bel viso... Un attimo.
Dolce e bel viso. Lo aveva davvero pensato?
No. Doveva esserci un'interferenza tra un neurone e l'altro. Il suo encefalo non avrebbe mai pensato che Newt fosse vagamente attraente; come una nuvola passeggera, accantonò quella fantasia, concentrandosi sul da fare.
Rimediò un piccolo cuscino-che teneva solitamente sotto il sediolino del passeggero-, e cauto lo sistemò dietro la schiena del collega; si spostò poi ai lati, trovandosi abbastanza scomodo per occupare solo il bordo del sediolino, ma ignorò, avrebbe lasciato a Newt più spazio.
Malgrado le gambe premute contro i sedili anteriori non poté lamentarsi di quella prospettiva, quel fastidio ne valeva la pena; sebbene gli mancasse l'effluvio di vaniglia emanato dalla chioma umidiccia color grano appena sotto il suo naso, al fianco del biondo poté soffermarsi sui dettagli del suo viso, scorgerne delle particolarità, cose su cui non aveva mai indugiato perché atterrito dai suoi occhi magnetici.
Piccoli e vispi, ma letali. Era così che li aveva definito Edison, dal primo momento che li aveva incontrati nel laboratorio di Jorge Cassidy. Sorrise impercettibilmente ripensando al loro primo battibecco. Senza che il cervello desse il via, la sua mano partì, cominciò a carezzargli le ferite con una delicatezza estrema come se tra le mani reggesse un vaso antico di porcellana pregiata che avrebbe potuto frantumarsi di lì a poco.
Ripercorse le ferite in una carezza morbida, danzando con pollice e indice, come un pittore che minuziosamente sistemava i piccoli dettagli del suo dipinto. Il suo tocco era leggero, eppure, vide diverse volte Newt dimenarsi, muovere le labbra, per poi mormorare qualcosa di incomprensibile. Non era agitato per i suoi tocchi fini, bensì per la sofferenza che stava vivendo.
Se solo avesse potuto ridurre il suo dolore, Thomas l'avrebbe fatto. Anche prendendo parte. Tamponò i graffi sanguinolenti con assoluta dolcezza, mentre sotto il suo sguardo zelante, lividi cominciavano a prendere forma sulla tela marmorea del suo corpo, tingendola di chiazze cerulee.
Scrutò il volto con tale attenzione che avrebbe saputo dire il numero esatto di efelidi che ornavano il naso e le guance, all'altezza degli occhi. Non le amava particolarmente, in una rivista letta distrattamente erano state addirittura reputate antiestetica, ma su Newt si accorse che gli piacevano; gli riservavano un'ulteriore aria puerile, semplice... bella. In realtà, quel biondo inglese dal portamento regale emanava completamente raggi di bellezza: dai suoi capelli biondi che gli riservavano l'aria di un principe, alle sue scarpe sempre laccate e incredibilmente grandi.
D'impulso, senza neanche permettere a quell'idea di essere ponderata, Thomas mise in pratica ciò che sua madre faceva con lui quando aveva linee di febbre. Era un gesto affettuoso, incomprensibile perché non affidabile quanto un termometro, ma...dolce.
Le soffici e carnose labbra lambirono la fronte lattea con un delicato e repentino bacio. Indietreggiò di scatto, sconvolto dal turbine di emozioni che lo stava travolgendo.
Lo aveva fatto solo per accertarsi che Newt non scottasse tanto, non si aspettava che il suo cuore iniziasse a battere così velocemente, temendo che fuggisse via. Quel minuscolo secondo, quel minimo contatto, bastò per dare vita a un incendio al centro del suo petto, rovente e indomabile, capace di spazzar via quel po' di fastidio che avvertiva per l'aria pungente che pizzicava sulla pelle scoperta.
Si impose di darsi un contegno, senza lasciare che stupide fantasie prendessero il sopravento. Non poteva cedere alle distrazioni, non con lui né tantomeno in un momento del genere. Doveva restare concentrato, e migliorare, per quanto possibile, lo stato malandato del suo protettore.
Scivolò lo strofinaccio verso il naso e le guance, rimuovendo il sangue incrostato, fermo proprio giù alle narici. Non era il momento per pensare a banali e sciocchi sentimentalismi, ma nel dubbio, per evitare problemi, immaginò Minho al posto di Newt, sarebbe stato più semplice.
Infatti, quando arrivò alle labbra, più screpolate di sempre, senza pensarci troppo, con la maglia le umidì.
Aveva letto che nel corso di un'emorragia bere era profondamente sconsigliato, e quello gli era sembrato l'unico modo possibile per permettere a Newt di non disidratarsi. Passò la pezza lentamente da destra verso sinistra e viceversa, poi su e giù bagnando sia il labbro superiore che l'inferiore.
Sorrise impercettibilmente, immaginando come potesse essere avvicinarsi di più a quella bocca saccente che era sempre riuscito a metterlo a suo posto, a spegnerlo. Era sicuro che fosse buona, che sapesse di qualcosa di buono. No, non stava più pensando a Minho.
Impulsivamente la sfiorò con il pollice, quel contatto gli fece ingoiare tutte le parole, si incantò come un serpente fisso sulla melodia dell'incantatore.
Era come estasiato: i suoi occhi erano i poli, e le labbra del più grande il magnete che li attirava a sé. Per quanto volesse far prevalere la razionalità, i suoi occhi non riuscivano a scollarsi.
Era talmente catturato da quelle labbra, dal naso delicato e la grazia che trasudava anche in un momento critico del genere che...Non si accorse che quei pozzi indagatori e letali fossero spalancati, fissi su di sé.
Deglutì automaticamente, arretrando con lentezza. Doveva sbrigarsi a frenare il subbuglio delle sue emozioni, se avesse reagito di fretta e furia, A5 seppur frastornato avrebbe notato che c'era qualcosa di diverso nel suo sguardo, nelle sue movenze...Newt non era stupido, anche con un proiettile alla caviglia che lo stava dissanguando.
Abbozzò un sorriso innocuo, tranquillo apparentemente, mentre nella sua testa aveva inizio un conflitto al pari della terza guerra mondiale, le due fazioni presenti: razionalità contro irrazionalità. Sapeva quale doveva far prevalere. Deglutì diverse volte, quasi rischiò di strozzarsi con la propria saliva.
Incapace di fronteggiare lo sguardo magnetico, confuso e criptico del più grande, irruppe con un «Ehi...» con voce acuta, con la i leggermente prolungata. A dir poco penoso. Se si fosse aperta una voragine nel sedile, ci si sarebbe buttato dentro senza pensarci più di una volta. Si schiarì la voce, cercando di recuperare la propria virilità.
«Buon giorno bell'addormentato.» Pronunciò, nonostante fossero le cinque del pomeriggio. Cercò miseramente di spostare l'attenzione su quell'aggettivo simpatico e non sulla sua goffaggine. Dire bello con facilità riguardo a Newt, non avrebbe fatto insospettire quest'ultimo.
Thomas sentì il sangue ribollire verso le guance e si grattò la nuca, per l'impaccio. La sudorazione stava aumentando in maniera proporzionale all'imbarazzo, l'ansia e alla preoccupazione.
A5 fece leva sulle braccia, issandosi di poco.
«E così? Non sono ancora morto?» Bofonchiò, quasi scocciato. La voce impastata dal sonno e dalla spossatezza. Si sentiva una sploff. Era stato meglio persino quando al Barcode si era beccato un proiettile di striscio alla spalla. Il bersaglio perfetto, così si sarebbe fatto soprannominare dall'Intelligence, se fosse sopravvissuto.
«Già, a meno che non siamo entrambi all'inferno, ma lo escluderei, l'ho sempre immaginato abbastanza caldo...» Senza accorgersene proferì le ultime due parole a bassa voce, quasi con voce roca, sfregando un palmo contro l'altro, per poi chiudere le mani a coppa espirando calore all'interno. Stava travisando tutto in un altro contesto.
L'inglese si guardò un po' intorno, lo sguardo smarrito e confuso. Stava facendo mente locale. «Da quanto siamo qui?» Interrogò atono, rivolgendo lo sguardo all'ambiente circostante, la pioggia battente che si scagliava contro i vetri in maniera sempre più decisa. Grandine.
«Da un po'...» Edison non specificò il tempo, e al più grande bastò per capire che ne fosse passato un bel po' e che non ci fossero buone notizie. Decise di tacere.
«Beh, come ti senti? Hai perso i sensi prima e...» Domandò A2, senza mai distogliere lo sguardo dalle sue mani che non riuscivano a stare ferme. Newt le osservò, era una chiara dimostrazione di agitazione. Il peggio l'avevano superato, perché tanta tensione?
«Ho perso i sensi? Tua impressione...Avevo voglia di fare un sonnellino, sognare qualcuno di interessante.» Proferì con leggerezza, allentando la tensione, almeno per quanto riuscisse.
«Me, immagino... altrimenti non mi spiego il chilometro di bava.» Scherzò, sollevando lo sguardo per studiare l'espressione del biondo. Ovviamente non era vero, ma si sentiva a suo agio quando scherzava con quello, impazziva quando Newt lo asfaltava senza il minimo sforzo, sferrando colpi distruttivi.
«Mi dispiace deluderti, Edison. Tu non sei interessante, sei...» Portò l'indice sotto al mento, un'espressione pensierosa rifletteva sul suo viso. «Sei...» Indugiò ancora un po' e Thomas sapeva che avrebbe sganciato la bomba a breve. «Noioso.»
Newt lo disse con una sicurezza disarmante, i muscoli fissi e rigidi non lasciarono trapelare il contrario tanto che il moro avrebbe potuto cadere nella sua trappola.
«Non credo neanche un po' che hai questa considerazione di me, ma se ti fa sentire realizzato che mi beva le tue fesserie, reputati soddisfatto. Ora rispondi alla mia domanda, non tergiversare, biondino.» Finalmente era riuscito a riprendere il controllo di sé, includendo anche la sua possente mascolinità. Accennò un sorriso sghembo, notando la rabbia prendere il possesso del collega. Sapeva rispondere bene alle provocazioni, scansandole con diplomazia.
Isaacs inarcò la testa da un lato, facendo lo gnorri. Le braccia incrociate al petto e sul viso un'espressione inscalfibile, stoica. Certo, era difficile fingersi indifferente alla vista di parte dell'addome scolpito della persona che padroneggiava i suoi sogni erotici. Celò l'imbarazzo scostando i capelli all'indietro, ritornando a fissare gli occhi del più piccolo, solo quelli, senza scendere altrove, anche se ... pure lo sguardo, come ogni altra parte di Thomas, gli destavano un certo effetto.
Il più piccolo si sporse verso di lui, annullando altri centimetri di distanza. Gli rivolse uno sguardo genuino, non più sfidante e accattivante come quello di poco prima. In un soffio proferì; «Come ti senti?» Il fiato gli solleticò il collo e il mento, persino con un proiettile nella caviglia era piacevole, figurarsi in perfetta salute.
L'inglese incrociò le braccia al petto, un ghigno forzato aleggiava sulle sue labbra. I dolori si stavano ripresentando, lancinanti ed estenuanti come prima, erano stati così forti che aveva addirittura perso i sensi, ma finché avrebbe avuto le forze per resistere, non avrebbe liberato grida.
«Sei preoccupato per me?» Chiese, con aria fintamente disinteressata.
«Non si risponde a una domanda con un'altra.» Ribatté, in difficoltà. Era così palese che stesse tremando dalla paura di perderlo? In quel momento si odiava.
«Ora sei tu a temporeggiare.» Rimarcò il biondo, per niente intenzionato a perdere la coroncina di "come asfalto io nessuno mai".
L'americano tacque e Newt percepì quel silenzio come un ostacolo impossibile da valicare. Lo aveva in pugno. Un riso bussava sulle labbra che si ammoniva di tenere dritte in un'espressione seria e autoritaria. La vittoria era vicina, un passo dallo strappare il nastro del trionfo.
«Thomas Edison preoccupato per me, sì in effetti...mi sembra un'assurdità.» Constatò, l'aria saccente e determinata come sempre. Il moro storse il naso, infastidito.
«È così assurdo che abbia voluto salvarti la vita, mh?» Replicò, un sopracciglio sollevato e l'aria sospettosa.
Dove voleva andare a parere il biondino? Si aspettava che deponesse l'ascia di guerra, abbracciandolo e cantando a squarciagola I will always love you di Whitney Houston?
«Non è ancora detta l'ultima parola.» Soggiunse il ferito, lanciando un'occhiata verso il basso, in direzione dei suoi piedi. Era una ferita da non sottovalutare e se i soccorsi non fossero arrivati in tempo, sarebbe potuto anche morire dissanguato. La salvezza non era affatto certa come voleva far credere il bel moretto.
«In tal caso non dovevi immischiarti, riguardava me e Jigsaw. Avevo tutto sotto controllo.» Sbottò, manifestando pian piano il suo risentimento. Non tollerava l'atteggiamento di Thomas. Non sopportava che avesse fatto irruzione, rischiando la sua vita per la propria. Non si sarebbe mai perdonato se le cose fossero andate in maniera diversa.
«Tutto sotto controllo?» Fece eco il più piccolo, sgranando gli occhi e alzando la voce, il tono più alto rispetto a prima, soffocò una risata priva di umorismo. «Mi è difficile crederlo visto che ti ho trovato in ginocchio, quasi nudo, mentre quei bastardi ti frustavano come se fossi uno schiavo dell'antica Roma, a un palmo dal cazzo di quello, pronto a diventare la sua puttana.» Sbottò veloce senza respirare in preda al nervosismo, sollevò la coperta per ricordargli in che stato l'avevano ridotto.
Era infuriato, sembrava che il viso si fosse rimpicciolito e le vene del collo, sporgenti come non mai, sembravano sul punto di scoppiare. Newt l'aveva visto solo una volta arrabbiato così tanto, nelle strade del Messico quando prendeva a scazzottate una cabina telefonica. Spostò la testa all'indietro come per allontanarsi, quasi spaventato da una reazione così focosa.
«Lo ricordi, Newt? Perché credo che la tua perdita di sensi di poco prima, altro che come dici tu sonnellino in cerca di qualcosa di interessante, ti abbia rimosso quelle oscenità.» Thomas aveva la mandibola serrata, gli occhi vitrei e spenti vagavano dalla figura del biondo all'ambiente esterno, la pioggia che pareva aumentare assieme al suo disprezzo.
«Non le ho dimenticate.» Si limitò a dire, l'espressione arcigna.
Era tanto arrabbiato con Thomas, così tanto che avrebbe potuto persino strappargli un bacio. Come faceva a non capire che ce l'aveva con lui perché aveva temuto più per la sua vita che per la propria?
«Come pensavi di uscirtene, diventando l'oggetto sessuale di quelle merde viventi?» Inarcò un sopracciglio per poi puntare gli occhi sui piedi del biondo o più specificamente a quello messo peggio: la caviglia destra. C'era tanto, troppo sangue. La garza bianca che sopracciglia discutibili gli aveva stretto con tanta dedizione era completamente intrisa di scarlatto.
«Probabile. Il fine giustifica i mezzi. Se dovevo fare quello per il bene della missione e carpire altre cose, l'avrei fatto. Servi e proteggi è il motto dell'Intelligence, no?»
Preferì continuare a parlare, mentre Thomas non gli prestava più tanta attenzione, preso da altro, la sua caviglia ad esempio. Non gli lasciò il tempo di fare domande e metabolizzare, che in un gesto fulmineo si privò completamente della maglia, scoprendo la schiena bronzea e tutto il torace. Usò il suo indumento come benda, attorcigliandola attorno a quella di Gally, comprimendo al meglio l'emorragia. La fasciatura avrebbe retto più a lungo, a contrario del cuore di Newt, che aveva iniziato a decelerare a quella vista o forse per motivi di imminente resa.
«Stento a credere che ce l'avresti fatta. Ti avrebbero ucciso prima. E poi davvero? Gli avresti fatto quel lavoretto schifoso? Quello non era per il bene della missione, quello...» Thomas si voltò, rivolgendogli di nuovo lo sguardo, sconvolto, indignato per la riflessione del più grande. Indignato quanto sorpreso.
«Hai ragione.» Confermò il più grande, puntando i letali pozzi sulla figura del suo interlocutore. Occhi profondi, magnetici e sinceri. Gli sarebbe costato ammettere una minima parte di verità, ma nel peggiore dei casi, se fosse morto, la sua anima all'altro mondo avrebbe gravato del peso di quel rimpianto. Non ci stava a viaggiare con quel fardello per secoli nell'aldilà, e poi non era niente di nuovo, una cosa simile l'aveva accennata già nella camera in albergo in New Delhi, dopo l'esplosione.
«Lo avrei fatto per te.» Rispose soltanto, breve e conciso con il po' di fiato che gli rimaneva in gola.
Avrebbe voluto continuare quella confessione con: "Al diavolo Lillian con tutta l'Intelligence e fanculo a quello stupido aggeggio che hai, se avessi altre occasioni dove dovrei scegliere se salvare te o il chip, non avrei il minimo dubbio, salverei te. Sempre"
Ma sarebbe stato troppo smielato, o forse semplicemente troppo per un rapporto che come il loro aveva già problemi e incomprensioni da tutte le parti. Nonostante avesse omesso gran parte del discorso, fu felice almeno di aver rivelato quella minuscola verità.
I loro sguardi s'incontrarono a metà strada, fermi ad osservarsi, a studiarsi, incatenandosi gli uni negli altri. I respiri più pesanti di sempre, un sopraffanno per i loro polmoni.
«Beh... visto che siamo in vena di confessioni, sappi che mi intrufolerei di nuovo, portandoti via di lì. Non mi sarei mai perdonato il contrario, come non avrei perdonato te se mi avessi lasciato morire quel giorno all'ospedale.» Proferì sincero, forse come non mai. Abbozzò un sorriso di circostanza, suscitando nel più grande un groviglio confuso di emozioni discrepanti.
Isaacs si sentì improvvisamente leggero, come se una scia di piume lo avesse sollevato in aria, portandolo a svolazzare con le stelle. Il masso sul petto, il rimorso che lo aveva crucciato per aver strappato Thomas dalle braccia di Teresa sembrava essersi alleggerito se non addirittura sparito, come un ricordo lontano quasi non più appartenente a lui. Inesistente.
«Forse l'odio tra noi non è ancora abbastanza per ucciderci l'un l'altro.» Si trovò a constatare, soddisfatto per la rivelazione del collega, strinse il capo tra le spalle, guardando verso il proprio petto, impedendosi di vagare lo sguardo su addominali e pettorali scolpiti.
«Forse, oppure, non ci odiamo come vogliamo far credere.» Caspio! Stava incontrollabilmente perdendo colpi. Quella frase l'aveva solo pensata e invece, la sua stupida bocca, senza mettersi in contatto con il cervello, aveva deciso di dare voce a quel pensiero. Avrebbe volentieri colpito la testa, ma avrebbe peggiorato la situazione, facendo interamente la figura dell'idiota.
Le sue guance si tinsero di un vergognoso rosso, mentre Newt vide Thomas come non mai. Non gli aveva mai dato l'aria da tipo impacciato e goffo, ma era spassosa. Maledettamente divertente, avrebbe voluto ridere di gran carriera se la ferita alla caviglia non avesse iniziato a farsi sentire, come un pugnale che scagliava colpi.
Una leggerezza paradisiaca lo cullò per pochi istanti, il tempo che il suo sguardo scivolò sul petto scoperto dell'americano. Non ce l'aveva fatta a tenere gli occhi lontani da tanta bellezza.
Su quel petto accentuato il giusto, al pari di un dio greco, bello da mozzare il fiato, al centro, tra quei capezzoli che reputò adorabili, proprio all'altezza del cuore notò un'anomalia. Non ci aveva fatto caso quando nel bunker in India si era cambiato la felpa, eppure, sembrava essere stata sempre lì, veterana, quasi sbiadita.
Una preoccupazione lo travolse come un mare in burrasca, e senza accorgersene, trattenne il respiro. Sgranò gli occhi per mettere a fuoco. Avrebbe tanto voluto che fosse un'allucinazione, un miraggio, ma quel segno sulla pelle c'era davvero.
Istintivamente si sporse verso Thomas, che indietreggiò come per schivarlo, ma Newt imperterrito proseguì, e senza indugiare, con l'indice lambì delicatamente quel segno, in un tacito permesso.
Edison boccheggiò, voleva replicare, dimenarsi, ma non disse nulla, non ci riuscì. Non riuscì a frenare il dito del biondo scorrere sul suo petto, ripercorrendo il segno. Non fu capace di interrompere quel contatto. Non volle.
Newt percorreva quella cicatrice come una cartina geografica, le estremità e il mezzo, scorreva lento per tutta la sua estensione.
La osservava ammaliato, incredulo che corrispondesse proprio all'altezza del cuore...come se qualcuno avesse scucito la pelle di Thomas e gli avesse tolto il cuore. O forse l'aveva scucita lui stesso per cavarselo, per viverne senza. I battiti palpitavano sotto i suoi tocchi, avvertiva un senso di appartenenza, il calore del suo petto era qualcosa di inconfondibile, di familiare. Non un tessuto, non un sediolino, ma carne. La pelle che da quando aveva conosciuto, sognava di impregnare le sue lenzuola, attorcigliarsi alle sue gambe, il petto, muscoloso e ben piazzato, contro la sua lattea schiena, a riscaldarlo in giornate piovigginose come quella.
Avvertì il calore del corpo di Thomas attraversare le sue dita fino a salire al suo petto, in un'altra circostanza, il sangue sarebbe fluito anche altrove, verso il basso. Era una piacevole sensazione, seppure il malessere del momento fosse tanto. Il cuore fece una capriola, e per alcuni istanti batté all'impazzata. Erano seduti, l'uno di fronte l'altro e sembravano scoprirsi, spogliarsi restando con i vestiti, raccontarsi di tutto restando in silenzio.
Newt aveva il capo chinato in avanti verso il petto del moro, mentre quest'ultimo aveva la faccia rivolta nell'incavo del collo latteo. L'effluvio di vaniglia gli stava dando alla testa, non sembrava solo fermarsi ai capelli ma anche alla pelle. Thomas memorizzò, nelle profondità del chip e nella sua memoria umana: la pelle di Newton Isaacs sapeva di vaniglia.
Le dita marmoree e affusolate dell'inglese, a contatto con il proprio corpo gli furono avvertite come aghi e spilli, brividi infiniti che gli perforarono la pelle intromettendosi suo sistema immunitario, arrivando allo stomaco e trasformarsi in farfalle, leggere e svolazzanti. Un contatto che apparentemente faceva male, ma poi si rivelava inverosimilmente piacevole, incapace di viverne senza.
Newt calcava quel segno indelebile con estrema cura, come se fosse una ferita ancora aperta; era lunga pochi centimetri, non tanto profonda. La ripercorreva con un'espressione assuefatta, al punto da incantare lo stesso Thomas nei primi secondi, che lo fissò interdetto senza scacciarlo. Quando poi tornò in sé, afferrò il polso del più grande in una presa ferrea.
I loro visi più vicini di quanto si aspettassero, mentre tra i loro occhi saettavano scariche e fulmini, i respiri lenti e affannati, al punto di fondersi e diventare un tutt'uno.
Thomas si indebolì allo sguardo frustato, dispiaciuto, colmo di preoccupazione di Newt. Allentò la stretta senza neanche rendersene conto, perdendosi nei brillanti di nocciola che il più grande aveva al posto degli occhi, e sulla bocca che avrebbe dissetato con un fervido bacio.
«Come è successo?» Domandò con un filo di voce, la saliva si era seccata in gola, rendendogli difficile la deglutizione. Lo spavento era incontenibile. Aveva visto cose peggiori, ma sapere che Thomas avesse una cicatrice in un punto così delicato lo faceva stare male.
«Non importa, è tanto tempo fa ...» Comunicò, volgendo lo sguardo in basso, verso i propri piedi. Ricordare faceva male. Ricordare era rivivere.
«Guarda che se ti azzardi a dirlo a qualcuno, non te la faccio passare buona. Sei l'unico che mi ha visto a torso nudo, non ci metterei troppo a capire che hai cantato.» Intimidì con voce più dura, ma Newt lo capiva meglio di tutti. Era il suo solito scudo, da cui Edison non voleva mai far trasparire niente, figurarsi debolezze. E in quel momento si era spogliato delle paure contro la propria volontà.
Mosse il capo meccanicamente in cenno affermativo, non si sarebbe mai permesso di sbandierare un segreto, ma voleva saperne di più. «Chi è stato, Thomas?» Lo guardò intensamente, con uno sguardo apprensivo, che gli urlasse: puoi fidarti di me.
Vide il più piccolo agitarsi e allentare la presa dal suo polso, fino a lasciarlo andare.
«I tuoi battiti...» enunciò, cambiando discorso e rivolgendo una rapida occhiata all'orologio. «Stanno rallentando.» Era una perfetta scusa sviare un argomento tanto delicato come la ragione della sua cicatrice, ma non stava mentendo, i battiti di Newt erano spaventosamente diminuiti, avrebbe potuto avere un arresto cardiaco da un momento all'altro.
«Che strano...I tuoi, invece, vanno piuttosto veloce...» Affermò con un sorriso genuino e sorpreso, prima di avvertire la propria voce lontana.
Qualcosa non andava, qualcosa in lui non stava funzionando correttamente. Lo percepiva dalla fiacchezza, la flebilità della sua voce, meno pronunciata, dall'incapacità di muovere le labbra e dire qualsiasi cosa.
Un'improvvisa vampata di sangue salì fino ai capelli, riscaldandogli fino le punte delle orecchie. Vide qualcosa di indefinito muoversi, ma c'erano macchie e pallini ovunque, doveva essere Thomas ma non poteva esserne certo. Non vedeva bene, le immagini davanti a sé erano sfocate.
Sbatté gli occhi più e più volte, cercando di distinguere l'ambiente circostante, ma le sue pupille roteavano verso l'alto. L'espressione stralunata e priva di sensi padroneggiava sul viso candido.
Cadde all'indietro, atterrando sgraziatamente sul cuscino; una caduta attutita dalle braccia del moro, che gli aveva per fortuna cinto i fianchi. La mano del sonno si stese sulla sua mente.
«Ehi, Newt!» urlò, l'ansia che prendeva il possesso del suo corpo, il respiro affannato e il battito accelerato. «Ci sei? Sono Thomas...»
«Mi vedi?» Domandò, l'ansia che gli attanagliava lo stomaco. Le sue mani incorniciavano la testa dell'inglese, per tenerla ferma e concentrata su di sé. «È tutto okay, Newt. Sono Thomas, sono qui» Rassicurò, anche se nella sua voce non ci fosse nulla di calmo. Tremava tutto e anche le sue palpebre.
La fronte marmorea era ancora più sudaticcia rispetto a prima, i capelli grondavano di sudore e lo sguardo era assente, le pupille brancolavano nel buio in cerca di vedere qualcosa, uno spiraglio di luce.
Lo schiaffeggiò prima delicatamente e poi con più enfasi, la rabbia che fluiva incontrollabile nelle vene. Controllò il polso ed era debole, doveva trovare il defibrillatore. Doveva sbrigarsi a trovare quel fottuto aggeggio.
Si sedette sulle ginocchia rivolto verso il cofano, frugò tra i vari arnesi, sparpagliò tutto, ma riuscì a trovare quello di cui aveva bisogno. Esitò, sapeva come usarla; doveva solo attaccare quel filo sul petto del collega e premere il pulsante rosso della consolle, solo che non voleva dargli una scarica elettrica, non se Newt poteva riprendersi senza.
Bofonchiava, mormorava tra i denti cose incomprensibili. Thomas dovette porre l'orecchio verso le sue labbra, per capire che stesse ripetendo un nome, che non aveva mai sentito.
«Lizzy...» borbottò, privo di sensi.
Lizzy? Si domandò Thomas, curioso su chi potesse essere, mentre con la pezza rinfrescava la testa del biondo. Il fiato era flebile, avrebbe dovuto...
«No, Newt. Sono Thomas. Devi svegliarti. Mi senti? Posso darti una fottuta scarica e non credo ce ne sia bisogno, sei sempre elettrico di tuo e non ti sopporterei peggio, quindi svegliati, cazzo! Non lasciare che ti faccia del male!» Era pieno di rabbia, disperato e incazzato con il mondo. Afferrò la pezza, aprì il finestrino per bagnarla ancora un po', e fu lì che lo vide. Era forse un miraggio? Gli occhi acquosi e umidi si spalancarono, increduli. Aveva pianto e non se ne era nemmeno accorto. Si pulì gli angoli con la manica, in cerca di quella luce.
«L'hai visto anche tu?» Chiese scioccato, come se A5 potesse rispondergli. Un sorriso gli illuminò il viso, aprendosi così tanto da raggiungere gli occhi. «Sono sicuro che fosse un segnale dall'Intelligence, doveva essere un faro a lungo raggio. Sono qui, Newt.» Urlò, agguerrito, scrollando il ferito per le spalle, che continuava a delirare. Forse stava impazzendo, forse era la speranza che lo stava illudendo di nuovo, ma volle credere alle parole rincuoranti di sua madre a un secondo dal distacco.
Avvertì un ronzio fastidioso, lo conosceva. Era legato al chip e alla linea disturbata. Qualcuno voleva mettersi in contatto con lui, stava sintonizzando la frequenza.
Le orecchie si spalancarono e il cuore si arrestò. Una parola chiara, distinta, inconfondibile e maledettamente familiare risuonò nella telefonata trasmessa dal chip;
«Hermano?» Si pietrificò, incredulo.
Sorrise di nuovo, grato. «Mio Dio, Jorge! Sei davvero tu?» Alzò il tono di un'ottava, entusiasta. Pareva aver vinto alla lotteria.
«Bando alle chiacchiere ragazzo, come sta il tuo amico?» Domandò il neuro-scienziato e attuale pilota, la voce sempre calma e trattenuta. Non lasciava mai trasparire alcun tipo di emozione.
«Ha perso conoscenza, il polso è debole, anche il respiro e... ha un proiettile nella caviglia destra, l'emorragia-» Informò Thomas, scoccando diverse occhiate al biondo. Gli afferrò le mani, le portò alla sua guancia. Erano fredde. Spaventosamente. «Ha anche le mani fredde.» Riportò scosso, mentre di sottofondo percepiva vocii, uno scambio di opinioni con i due medicali. Jorge aveva attivato il vivavoce.
«Okay, non agitarti. Jeff e Clint risolveranno tutto. Ci vediamo due km a sud, dove possiamo atterrare, con la fitta vegetazione che c'è qui, mi incastrerei tra qualche albero.»
«Okay, a tra poco, allora.» Informò, lasciando le mani di Newt per scattare al sedile del guidatore e avviare l'auto a tutto gas. Sfrecciò per il viottolo, tra la fitta boscaglia e strade sterrate. I tergicristalli che oscillavano a destra e sinistra per spazzare le gocce che ostacolavano la panoramica.
«Lizzy, devo andare...» Delirò il biondo febbricitante, mentre la velocità dell'auto si ripercuoteva anche sul suo esile corpo, sballottandolo a destra e manca.
Thomas si voltò a guardarlo, il cuore in gola e lo sguardo deciso;
«Finché sono io al tuo fianco, non ti lascerò andare proprio da nessuna parte.»
Aveva di nuovo pensato ad alta voce.
***
Ce l'avevano fatta o almeno era quello che avrebbe voluto sentirsi dire. Era riuscito tramite l'imbracatura a sollevare sé stesso e Newt per pochi metri d'altezza fino ad approdare sull'elicottero e volare assieme a Jorge e ai due migliori dottori dell'Intelligence verso l'ospedale prefissato. Avrebbero dovuto impiegare una quindicina di minuti, ma per il maltempo si protrassero a trenta. Nessun problema, in quel tempo Jeff e Clint attuarono tecniche di "rianimazione", e tramite una flebo impedirono a Isaacs di disidratarsi. Erano forti quei due, Thomas li aveva ammirati in silenzio.
Ora, occupava una sedia della sala d'attesa dell'ospedale in Virginia, con addosso una camicia a mezze maniche stile hawaiano. Non aveva la minima idea di chi fosse, né si spiegava come fosse finita sull'elicottero, ma di certo non poteva presenziare all'ospedale come Tarzan a petto nudo; quindi, anche se imbarazzante, era stato grato per aver trovato quel bizzarro indumento.
Jorge lo aveva definito un «Piccolo colpo di fortuna» Dimenticava che fosse dicembre e che la fantasia fosse davvero pessima. «Non lagnarti, preferiresti avere i capezzoli all'aria?» Era così che gli aveva detto il pilota, mentre lui si sistemava al sedile del passeggero. «E poi sai una cosa?» disse con un mezzo sorriso scoccandogli una breve occhiata. «Il verde ti dona, hermano.»
Sorrise ripensando a quella battuta, era da un po' che non sentiva il senso di leggerezza. La testa gli scoppiava e il solo pensiero che l'operazione stesse avendo complicazioni lo fece annaspare.
Aveva l'aria stanca, di uno che non dormiva da giorni, zuppo da capo a piedi e con zero voglia di vivere. Era così esausto che se ne fregava delle infermiere che gli passavano davanti, confabulando di lui. Chi gli sorrideva, chi si copriva la bocca per nascondere i ghigni e chi lo guardava con aria sognante.
A pensarci, avrebbe fatto meglio ad accettare la compagnia di Jorge. Aveva sbagliato a liquidarlo con la classica frase finta, usata dall'intera popolazione mondiale: «Sto bene.»
Almeno non avrebbe dovuto dar minimamente conto a quelle oche. Era messo davvero male se preferiva scambiare quattro chiacchiere con il suo strizzacervelli, che essere l'oggetto di discussione di quelle ragazze che gli morivano ai piedi. Aveva perso il conto di quante gli si fossero avvicinate per chiedergli se volesse qualcosa da bere o da mangiare. Be', a dieci anni aveva imparato la lezione.
Da solo, in un corridoio vuoto dalle pareti tinte di bianco e blu aspettava. I gomiti sulle ginocchia, le gambe che non accennavano a smettere di muoversi per il nervosismo, le mani congiunte come in segno di preghiera davanti alle labbra e gli occhi spenti che scattavano come saette in direzione del minimo rumore. Una porta che si apriva, una barella che si avvicinava.
Aspettava Jeff, Clint o un'infermiera che gli desse la notizia che tanto aspettava. Positiva almeno.
Quando la notizia arrivò, aveva la testa appoggiata al muro, gli occhi si erano chiusi pesanti dal sonno ed era in dormiveglia.
Si sentì toccare le braccia, una e più volte fin quando non aprì gli occhi, di scatto, sobbalzando appena; Thomas, sono Jeff... Scusami, non volevo spaventarti...» Enunciò dispiaciuto, un sorriso dolce appena pronunciato sulle labbra. «Ti senti bene?»
Si grattò gli occhi, represse lo sbadiglio, e sì...sapeva che fosse Jeff, non c'era bisogno che si preoccupasse così tanto, lui stava bene, non aveva perso sensi. Abbandonò la posizione strascicata, aggiustando la schiena alla spalliera. La stanchezza che aveva prevalso fino a quel momento scomparve, palesando nella testa un unico pensiero.
«Newt. Newt come sta?» Chiese agitato, come se volesse strappare la diagnosi dalle braccia dei suo collega. Gli occhi spalancati, le orecchie pure.
Jeff respirò rumoroso, in cerca delle parole appropriate. Vide un'altra figura con il camice bianco avvicinarsi, quando fu a pochi passi da lui capì che si trattasse di Clint.
«Sta bene, Thomas. È stato davvero fortunato a prendere il proiettile alla caviglia. Se fosse stato più in basso, avrebbe rischiato parecchio... Sai, il piede ospita diverse arterie.» Documentò, stringendo la cartellina al petto. Sembrava che il suo discorso fosse in sospeso.
«Ma?» Andò incontro, il capo basso temendo di ricevere una notizia sconvolgente. In casi come quello sapeva che c'era sempre un ma, e solitamente era una doccia fredda. Il cuore non accennava a rallentare. La tachicardia era una costante di quei momenti.
Fu Clint a prendere parola, dopo essersi scambiato un'occhiata d'intesa con il collega. «Per le prime settimane o addirittura mesi gli risulterà difficile camminare. Zoppicherà. È consigliabile che faccia determinate cose, sai, per velocizzare il processo di guarigione e riprendere il pieno controllo della sua camminata, ma di questo dobbiamo informare i parenti. Consigliare qualche centro di riabilitazione, esercizio fisico...»
Ci fu una pausa, prima che Jeff potesse continuare. Quei due si compensavano, terminavano l'uno la frase dell'altro.
«Tu che lavori a stretto contatto con lui, sai se c'è qualcuno in zona che possiamo contattare adesso?»
Thomas indugiò, aveva sentito quel nome, Lizzy, ma decise di tenerselo per sé. «Noi...non siamo molto legati, non so quasi niente di lui.» Avvisò, lo sguardo basso e sfuggente. Non stava mentendo completamente, di Newt sapeva davvero poco, purtroppo.
«Strano, prima di entrare in sala ci scommetto che ha detto Tommy.» Era stato Clint a rivelargli ciò, infliggendogli il colpo di grazia. Tommy. Nessuno mai lo aveva chiamato così a parte...i suoi genitori, quando erano più affettuosi di sempre.
Deglutì, a corto di parole prima di ripeterlo. «Tommy?» Dalle sue labbra uscì così stupido, ma era sicuro che quando l'avesse pronunciato Newt era diverso, con il suo accento particolare e marcato. Piacevole.
Si bloccò per un attimo, curioso e confuso. La fronte aggrottata e l'espressione da pesce lesso mostrava a pieno la sua sorpresa. Isaacs non l'aveva mai chiamato in quel modo, non da cosciente almeno.
«Thomas credo che anche tu abbia bisogno di fare dei controlli.» L'espressione improvvisamente seria di Jeff lo fece preoccupare per un secondo, era ovvio che fossero in pena per lui, da quando Newt aveva iniziato a occupare i suoi pensieri era davvero strano. Peggiorato. Si grattò il mento, imbarazzato.
«Già, amico. Sotto quell'acquazzone, ti verrà una bronchite se non ti asciughi.» Proseguì Clint, premuroso. Entrambi i dottori avevano un'espressione impensierita.
«Tranquilli, ragazzi. È tutto okay, vado a casa ma... Prima posso vederlo? Magari riesco a chiedergli se c'è qualche familiare che possiamo avvisare.» Propose da stratega.
Jeff e Clint si guardarono sospettosi. «Va bene, ma non stressarlo, è ancora sotto anestesia.» Jeff lo lasciò passare, indicandogli la stanza, Thomas non aspettò altro, precipitandosi di gran carriera ma prima che svoltasse dietro una svolta del corridoio, lo chiamò;
«Ehm...Thomas ti ricordo che la tua macchina è dove l'abbiamo lasciata, come tornerai a casa?»
Fece spallucce, l'espressione di uno a cui non importava più di tanto.
«Chiamerò un taxi.» Jeff e Clint si guardarono l'un l'altro basiti. Non conoscevano tutti Thomas, ma per l'Intelligence era cosa nota e risentita che non uscisse mai senza la sua amata e possente Maserati nera, saperla in Maryland da sola doveva innervosirlo e, invece, sembrava non importargli minimamente.
«Come un comune mortale?» Domandò Clint, scettico.
«Sì, ragazzi proprio come un comune mortale.» Ripeté con un sorriso strano, preoccupante, mentre girava tra il pollice e l'indice le chiavi del veicolo. Si allontanò a grosse falcate, mentre Clint e Jeff si rivolsero un'occhiata incredula, basita.
«Secondo me...un controllo dovevamo farglielo.» Disse uno dei due e l'altro si limitò ad annuire.
***
Entrò in punta di piedi, attento a non fare il minimo rumore. Newt dormiva e non avrebbe voluto svegliarlo, non di nuovo. Sorrise nel rivedere il colorito di sempre che tingeva di nuovo le guance. Il pallore moribondo aveva abbandonato il suo viso, meglio, non gli donava.
Si avvicinò a passi piccoli e silenziosi verso il letto dalle lenzuola bianche, sito al centro della stanza. Un monitor vitale sulla sinistra segnava i battiti cardiaci, si rasserenò notando che rientravano nei parametri. Avvicinò l'unica sedia al letto e vi prese posto.
Non disse nulla per tutto il tempo, si limitò a guardarlo o forse il termine appropriato sarebbe stato contemplato, come un'opera d'arte. Godette di quel momento, della serenità che Newt in un certo senso gli trasmetteva, calmandolo.
Una lacrima gli stuzzicò l'occhio, e la represse con un ghigno imbarazzato, non troppo rumoroso. Non capì se fosse per la tristezza, per la felicità o semplicemente per il sollievo, ma era grato a Jeff, a Clint o chiunque altro-persino dal cielo- avesse interferito, salvandolo.
Si passò la lingua tra le labbra, inumidendole e poi, senza esitazione, allungò la mano, incrociando le sue dita a quelle di Newt. Erano rosee, distese sul materasso, e di una temperatura accettabile.
Sospirò libero, come se si fosse tolto un macigno dal petto, che comprimeva il cuore e i polmoni. Il pollice aveva preso a carezzargli dolcemente il dorso della mano.
«Stiamo facendo progressi, biondino, da Terminator a Tommy.» Sussurrò, con il lieve sorriso che gli smorzava le labbra. Vide l'amico muovere la testa sul cuscino, serrare un po' gli occhi e poi dormire di nuovo come un sasso.
«Va bene, farò finta di non sapere che mi hai affibbiato un soprannome quasi...dolce.» Enunciò, alzandosi di poco per raggiungere con l'altra mano la ciocca ribelle del biondo per spostarla all'indietro, scoprendo la fronte. Quella fronte che aveva, in un certo senso, baciato.
Fu un solo minuscolo secondo, ma...
Un botto, alle sue spalle, lo fece sobbalzare e poi immobilizzare. Deglutì veemente, ritraendo più in fretta possibile le mani, tornando a sedere; quasi inciampò senza voltarsi, cercando a tentoni la sedia, per riprendervi posto. Temette che chiunque fosse entrato l'avesse visto, l'entrata era stata fulminea, più del suo tempo di reazione.
Si voltò a rallentatore verso la porta e rimase senza parole quando vide un tipetto combina guai, solitamente simpatico, ma che in quel momento aveva le braccia incrociate al petto e in viso un'espressione truce. Preferiva aver trovato Minho ad altri, ma avrebbe preferito un'infermiera a lui.
Se l'asiatico avesse avuto una katana, l'avrebbe sguainata dal fodero e rincorso per tutto l'ospedale, proferendo frasi impronunciabili.
Indossava una tuta, neanche lui sembrava passarsela bene; con tutti quegli avvenimenti aveva dimenticato che il coreano soggiornasse nello stesso ospedale a causa della disintossicazione, avvenuta all'alba di quel giorno. Diamine, era successo tutto così in fretta.
«Thomas Edison.» Dichiarò duro, serio come non mai. La serietà non faceva parte di Lee, quando lo era, sembrava sempre che fingesse, che si sforzasse. Non gli riusciva proprio, eppure, gli occhi chiusi in due fessure, lo sguardo inceneritore, per Thomas in quel momento, non erano promettenti, per niente.
«Edison Thomas.» Continuò, avanzando di un passo. «Vorrei chiederti perché hai quella faccia più sploff di sempre, perché indossi una camicia obbrobriosa, ma ora...la vera domanda è: che ci fa il mio migliore amico in un letto d'ospedale?»
L'americano alzò le sopracciglia, sconvolto per l'ultima frase. Rise appena, sentendosi preso in giro. «Minnie va ancora di moda bussare. E poi... migliore amico, davvero? Da quanto siete così intimi?»
«Intimi? Beh, non userei proprio questo termine, ma sì ...Newt e io siamo intimi da più tempo di voi -Indicò con le dita il biondo e sé stesso, imbarazzato, mentre grattava distrattamente l'orecchio-ma meno intenso di voi.» Concluse con un sorriso fiero, per poi abbozzare un'espressione colpevolizzante. Lo aveva davvero detto? Oh, se Newt l'avesse sentito. Cominciò a mangiucchiarsi le unghie.
Thomas aggrottò la fronte, confuso. «Intenso? Che intendi?-»
Il suono dei tacchi inconfondibili che si avvicinavano non fu un allarme abbastanza chiaro per Thomas, che lo ignorò perché concentrato completamente su "intimi e intensi".
Impiegò lunghi minuti per accorgersi che ci fosse anche lei. La figura sinuosa e familiare si concretizzò sull'uscio della porta, sempre avvolta nei soliti tailleur costosi, di qualche passo dietro al coreano. Lillian Strand aveva i capelli rossicci racchiusi in uno chignon, pettinatura alquanto rara, Thomas non gliel'aveva mai vista nei quindici anni di permanenza alla base.
«Cos'è? Una riunione condominiale?» Proferì infastidito, appiattendo gli occhi in uno sguardo seccato. Non ne poteva più.
«Fai meno battute, ragazzino. Ti assicuro che sarà l'ultima, non avrai più voglia di scherzare.» Troncò, lo sguardo vitreo vagava dalla figura dell'asiatico a quella dell'americano per poi piantarsi sull'unico che dormiva. «Che ne dite, tre moschettieri, in quanto capo dell'Intelligence, avrei diritto di sapere perché siete qui?» Scandì lentamente e le sue parole, seppur momentaneamente innocue, avevano lo stesso rumore di coltelli affilati l'uno contro l'altro.
«Io non c'entro!» Si escluse da subito il coreano, indietreggiando con aria impaurita, le mani in alto in segno di resa. Era da Minho, ma Thomas gli scoccò comunque un'occhiata che non aveva bisogno di essere interpretata, gridava senza alcun risentimento: "traditore". L'asiatico ne captò anche un "Faremo i conti dopo", ma sperò vivamente di sbagliarsi. Quando Thomas perdeva le staffe, l'unica cosa da fare non era reagire, bensì correre, correre e correre. E nelle sue condizioni, con ancora mal di testa e nausea estenuante non era consigliato.
«Lee, allora inizio proprio da te.» Proferì la donna, lisciando il rigonfio della sciarpa e avvicinandosi al coreano. «La nostra base non è un parco giochi, non puoi organizzare pigiama party con i colleghi, né puoi ingozzarti di schifezze che ti riducono così! Avete lavorato sodo per essere quello che siete, i vostri percorsi sono costati fatiche e rinunce, allontanamento dai vostri cari.» Si fermò, studiando l'espressione di Thomas. Aveva colpito soprattutto un suo punto debole: prima i suoi genitori, poi Teresa, per un attimo si sentì in colpa, ma poi proseguì imperterrita, nascondendo l'emozione;
«Non potete fare di testa vostra.» Sbottò, e tutti e tre videro Newt agitarsi nel sonno, due erano le alternative: o l'anestesia stava svanendo, o le grida stridule del capo erano così acute e profonde da scavargli nel cervello.
Lee guardò il biondo preoccupato, uno sguardo pieno da apprensione glielo rivolse anche Thomas, Lillian no. Lei doveva condurre la sua guerra.
«Ora tocca a voi due, Thomas.» Avvisò, la dose di rabbia sarebbe stata più carica per lui, lo sapeva. Il capro espiatorio di Lillian era sempre stato Minho, ma A2 riconosceva che con quella scelta azzardata avevano esagerato, ed era giusto subirsela. Già, lui. Newt non c'entrava.
«Fuori di qui, Lillian. L'agente Isaacs non c'entra e deve riposare.» Sentenziò, mentre nel suo sguardo saettavano lampi, scariche di nervosismo lo invasero. Strinse le mani in pugno lungo i fianchi.
«È questo che continui a sbagliare, Thomas. Fai di testa tua e impartisci ordini a me, dimenticando che io sono il capo.» Enunciò, rigida più che mai. «Sospensione a tutti e tre fino a data da stabilire. Un mese o addirittura un anno, senza retribuzione ovviamente. Non azzardatevi ad entrare negli uffici, potrete limitarvi soltanto alla palestra, così al vostro rientro, chissà quanto lontano, vi riconosceremo ancora, ci servono soldati allenati e in forza. Augurate buona guarigione al vostro collega, da parte mia.»
Informò e senza dire altro uscì dalla stanza. Cosa? Non gli aveva neanche dato la possibilità di spiegare, di raccontare i fatti? Edison lanciò un'occhiata al coreano, che lo incitò a raggiungerla.
A grosse falcate uscì dalla stanza, accennò una corsetta e l'afferrò per il polso, leggermente. Avrebbe voluto contorcerlo ma la situazione era già precipitosa di sua.
Il capo inclinò la testa nella sua direzione, il sopracciglio inarcato, l'espressione agguerrita; abbassò lo sguardo verso il braccio, e Thomas lo lasciò subito.
«Lillian non voglio discussioni, accetto questa sospensione, ma Newt non c'entra niente. Ho preso la macchina, intestardito di trovare Jigsaw e lui mi ha seguito, come sempre. È entrato per impedire che lo facessi io, mi vuole tenere al sicuro. Adempiere al suo lavoro correttamente, come tu gli hai ordinato.» Inventò sul momento, gesticolando e balbettando. Sembrava confuso.
«Newt?» Ripeté diffidente, come se quel nome le fosse sconosciuto. «Chi è Newt? Intendi l'agente A5, il tuo protettore. Thomas?» Già, dimenticava. Per l'Intelligence loro erano lettere e numeri null'altro.
«È inutile raccontarmi bugie. So tutto. So che questa idea non è stata tua, vi ho fatto tenere d'occhio e vi hanno sentito nel vostro ufficio, prima della partenza. Inoltre, il computer di A5 aveva la pagina aperta su Jigsaw, strano per uno che sta nei servizi segreti. Farsi scoprire così...» La sua espressione oscillava dal deluso al derisorio. Edison aprì la bocca per replicare, non sapeva neanche lui cosa avrebbe detto, ma quella lo troncò sul nascere;
«Vedi Thomas, anche se nessuno mi avesse informato della vostra discussione, avrei saputo che l'idea di trovare Jigsaw senza un piano non poteva essere tua. Ti conosco da quando eri solo un bambino.» Fece per accarezzargli la guancia come gesto affettuoso, ma il ragazzo fece un passo indietro, schivandola.
«L'agente A5» proferì, deglutendo, quel distacco gli risultava difficile, non lo avvertiva più proprio. «Ha riportato una ferita alla caviglia, avrebbe potuto rivelarsi letale. Ha rischiato di morire mentre lavorava, gli spetta un compenso, infortuni sul lavoro, è così che li chiamano no? Non sospenderlo. Sospendi solo me.» Propose come un affare.
«Thomas, Isaacs Newton non stava lavorando, ha reagito di istinto, senza nessuna autorizzazione. Io né altri gli abbiamo commissionato quel lavoro.»
Thomas sbatté le palpebre, esterrefatto. Come poteva dire una cosa simile? Anche lui era un tipo senza umanità, ma Newt avrebbe potuto perdere la vita, e lei era così irriguardosa. Le destinò un'occhiata indecifrabile, deluso.
«Ricorda, è solo una vocale...Io voglio proteggerti da tutto questo. Se mostrerete disciplina, vi riprendiamo tra una settimana.»
«Vi riprendiamo?» Fece eco, sottolineando il plurale.
«È stata una scelta presa dal consiglio, appena ci sono arrivati i tuoi messaggi, abbiamo convocato un'adunanza speciale, telematica ovviamente, ero ancora fuori Langley quando ho saputo...L'ospedale è stata la mia prima tappa.» Informò scocciata, essere lì sembrava una seccatura per lei, come se avesse cose più importanti da fare.
«Comunque, riconosco tutto questo tuo coinvolgimento. L'agente Isaacs è davvero in gamba, gli affiderò altri incarichi. Non permetterò che la CIA perda un agente così qualificato seppur sprovveduto.» Rassicurò, guardando il corridoio. Aveva fretta.
«Cosa? Io sto bene, non c'è bisogno di un altro incarico, tra noi non c'è niente.» Sì, forse l'ultima frase non aveva abbastanza senso, ma ormai Lillian l'aveva sentita.
«Nessuno ha insinuato che tra voi ci fosse qualcosa, Thomas. Ma può allontanarvi dall'obiettivo principale: sopravvivere. Quando state lì fuori a combattere con i cattivi, c'è in pericolo la vostra vita, la tua.» Disse sospettosa, aggiustandosi gli occhiali da vista sul naso.
«E chi sono i cattivi, Lillian?» La prese di contropiede ironico, avrebbe voluto urlarle in faccia cose del tipo; "Tu credi di fare parte dei buoni? Tu che reputi la mia vita più importante di un'altra solo perché ho una mutazione genetica rara, con quel fottuto chip?"
La risposta non arrivò. Non ne fu sorpreso.
«Goditi le vacanze, Thomas.» Troncò, e con un'ultima ironica nota, proferì «Bella maglia.» Sistemò un'ultima volta gli occhi e senza voltarsi, andò via.
Thomas l'accompagnò con lo sguardo truce, sperando che sparisse presto dalla sua visuale, con quello snervante e insopportabile ticchettio e l'aria da snob. Rientrò in camera per salutare Minho, avvisandolo che sarebbe tornato a casa, aveva urgentemente bisogno di farsi una doccia e riposare. Non era la verità, ma il coreano non l'avrebbe capito, troppo tonto e preoccupato per il biondo che ancora non si svegliava. Thomas gli lanciò un'ultima occhiata preoccupata, prima di sparire dietro la porta.
Lasciò l'ospedale con un freddo che gli gelò l'animo. Contattò un taxi e nell'attesa chiamò Brenda, dicendole di documentarsi su una certa Lizzy, possibile parente di Newt. La segretaria interpellò le pile di documenti che riassumevano le origini dell'agente A5 e la sua carriera lavorativa. Scoprirono nel giro di poco che quel soprannome apparteneva a Elizabeth Isaacs. Sua sorella, di un anno più piccola.
Voleva che Brenda la contattasse, sperare che arrivasse ad aiutarlo. Il tempo della sospensione era indefinito, e non avrebbe potuto presentarsi a casa di Newt e vedere se fosse migliorato, aveva bisogno di sapere che ci fosse qualcuno che si sarebbe preso cura di lui.
Ignaro che il miglior aiuto potesse essere proprio lui.
Infatti, quando il protettore aprì gli occhi, prima di mettere a fuoco dove fosse e salutare Minho proteso verso di lui a pochi centimetri dal suo viso, le labbra d'impulso, come un istinto naturale ripeterono di nuovo quel nomignolo affettuoso.
***
Constatò sereno che avesse smesso di piovere. I flebili raggi di luce si stavano nascondendo lasciando posto alla luna. Erano le 7:15 di sera. Incredibile, aveva guidato per il Maryland solo la mattina e in una mezza giornata aveva rischiato di impazzire, morire e di perdere Newt tra le braccia. Ah, si era sentito male anche Minho.
Quella vita non annoiava affatto le loro giornate. Almeno ora con la sospensione avrebbe riacquisito un po' di equilibro...
Subito all'interno dell'abitacolo, le narici vennero inondate dal consueto odore di fumo stantio di sigarette, pelle, e plastica che ricopriva i sediolini del taxy. Gli era così estraneo quel mondo, con il lavoro e lo stipendio corpulento aveva potuto permettersi una Maserati in età adulta, ma durante la sua adolescenza, non aveva usato mezzi pubblici, perché non era mai uscito. L'Intelligence lo teneva rilegato al dormitorio, facendogli studiare tomi di volumi.
Trascorreva le giornate con gli occhi fissi sull'orologio della sua stanza e sui vari libri, mattoni infiniti di roba, e mentre a quindici anni gli altri ragazzi leggevano Romeo e Giulietta o cercavano di fare colpo e abbordare qualcuno, lui studiava passo dopo passo personaggi come Pablo Escobar. Ciò aveva decretato un abisso tra lui e gli altri.
Per questo gli era sempre piaciuta la solitudine o le persone che sapessero comportarsi, che fossero una via di mezzo: non troppo distanti ma neanche troppo assillanti. Per questo gli piaceva Newt, ancora non gli era chiaro in che senso del termine, ma doveva mettere un punto.
Con l'adorabile biondino le sue regole stavano crollando e doveva risolvere quel minuscolo intoppo. Stava già provvedendo, diretto alla trentaquattresima strada, a sud di Langley.
«Mi scusi...dove devo accompagnarla?» Domandò cordiale l'autista, scorgendolo dallo specchietto retrovisore.
«Siamo vicini, tra 1 km deve girare a destra. Grazie.»
Era diretto a una casa, ma non la propria. A differenza del suo collega, il suo obiettivo era molto legato ai social network e non era stato difficile scovare il suo indirizzo, sempre grazie al chip.
Scese dall'auto, fregandosene delle occhiate indaganti e accusatorie che gli rivolgeva l'autista per la sua camicia fuori stagione e fuori stile, gli lasciò anche il resto, osservando il palazzo che si ergeva dinnanzi a lui al civico 11.
Il portoncino era socchiuso, quatto come un gatto si intrufolò alle scale. Avrebbe dovuto salirle e leggere i cognomi a ogni pianerottolo, sperò di non fare tutti e cinque i piani. Era una giornata già troppo dura sia a livello fisico che mentale.
Per fortuna al terzo piano trovò ciò che cercava. Rilasciò un sospiro di sollievo, piegato in due per il fiatone. Sul campanello, in una grafia disordinata e abbastanza elementare c'era scritto: Ben Miller.
Stava per premere il campanello, ma qualcuno dall'altro lato lo anticipò, aprendo la porta e aggiustandosi la maglia come se l'avesse appena messa.
Era un ragazzo, alto e muscoloso come Ben Miller, con occhi chiari e capelli ricci castani. Gli lanciò un'occhiata di sbieco, era troppo su di giri per fermarsi sul pianerottolo e parlare con Thomas.
«Wow Ben, fai conquiste.» Si limitò a dire, e sotto lo sguardo truce dell'agente scese le scale di gran carriera.
Edison lo ignorò, non era lui il suo bersaglio. Scoccò la lingua, avanzando. Ma non gli fu concesso il tempo di metabolizzare che la porta cominciò a premere contro il suo piede, rischiando di schiacciarlo. Ben stava opponendo resistenza, vietandogli di entrare.
«Che scocciatura!» Sbuffò, e con un calcio spalancò la porta. Non la scardinò, la rinforzò solo il giusto per riuscire a intrufolarsi e chiuderla poi immediatamente alle spalle. Si precipitò in direzione del proprietario, spingendolo al muro e bloccandolo.
«E pensa che ero venuto qui in pace.» Proferì, gli occhi puntati in quelli scuri del rossiccio. L'avambraccio premuto sul suo collo. Era leggermente sollevato sulle punte, Ben era più alto.
«A quanto pare avete proprio il vizio di sistemarvi i vestiti prima di aprire la porta.» Ribadì, rievocando quella sera che aveva portato la relazione a Newt e Ben lo aveva messo a disagio, con i suoi discorsi sulla comunità LGBT, con il petto completamente scoperto.
«Che vuoi, sbirro?» domandò, il viso paonazzo di rabbia. Non smetteva di dimenarsi sotto la possente stretta dell'agente.
«Sapere le tue intenzioni in merito a questo messaggio.» La memoria del suo chip gli riportò quello che aveva letto furtivamente dal cellulare di Newt al suo fianco in auto, prima di avere a che fare con Scar, Gally e Winston.
«Ho sbagliato, lo so. Non ti ho sostenuto come ho fatto con l'FBI, ma la CIA ti tiene più impegnato, ammettilo. Ti prego, non dimenticare ciò che abbiamo trascorso, non dormo più, non sto bene. So che sono stato un grande stronzo e spero che tu possa perdonarmi, magari se mi è possibile sognare davanti a una cena preparata da me, dove non mancherà il tuo piatto preferito. Pensaci, per favore. Mi manchi.» Recitò in una lagna, imitando la vocina di un bambino, prendendosi chiaramente gioco di quello davanti a sé. A ogni parola Ben si indignava, serrava la mascella e aveva pronti i pugni, ma per qualche strana ragione non si mosse, non reagì. Forse sapeva che avrebbe perso in partenza.
«Ho omesso qualcosa?» Domandò ironico, inarcando la testa da un lato. «Scrivi queste cose e poi scopi altri, perché è quello che hai fatto con quello che è uscito di qua, certo che hai un concetto strano di amare.» Thomas mollò la presa, lasciando che quel pezzo di merda prendesse fiato. Sul viso dell'agente aleggiava un'espressione schifata.
Miller aveva la testa bassa, non seppe interpretare se fosse un pentimento o che altro, ma bastò quella distrazione per non metterlo in guardia da un pugno. Dritto al suo sopracciglio. Quasi lo aveva cecato quell'infame.
Gonfiò il petto, lottando con sé stesso e i suoi principi. Si era recato lì con le migliori intenzioni, non voleva ricorrere alla violenza.
Il rossiccio sembrò pentito di aver sferrato quel colpo, si allontanò, tremava peggio di una foglia.
«Chiamo la polizia, tu mi hai aggredito, pezzo di merda.» Disse imbracciando il telefono e correndo verso il tavolo della cucina, come se fosse la tana, dove Thomas non potesse raggiungerlo.
Lo fece, bloccando di nuovo spalle al muro, la presa ferrea per il colletto della maglia. Ben era un ammasso di muscoli all'apparenza, ma non sapeva per niente difendersi. «Ero venuto qui con le migliori intenzioni, dirti che Newt è in ospedale e se tieni a lui, puoi agire adesso, e riprendertelo, ma sai che ti dico? Sparisci dalla sua vita. Non merita le schifezze che gli fai.» Lo lasciò, tentato di sputargli addosso. Non lo fece, mentre sentì qualcosa scorrergli dal sopracciglio destro. Tastò, impregnandosi il dito di sangue. Quel bastardo gli aveva spaccato il sopracciglio.
«Non era lui "il protettore"?» Enunciò fiero di aver ferito l'agente, il riso pronto sulle labbra.
«Diciamo che siamo una squadra.» Rispose Thomas con assoluta calma, facendo un passo dopo l'altro, annullando la distanza tra lui e Miller. Gli destinò un sorriso, il più falso in vita sua.
Poi gli scagliò un pugno all'occhio, con tutta la forza e senza la minima esitazione.
«Questo è da parte di Newt.»
Neanche il tempo per il rossiccio di riprendersi, che ne arrivò un altro, allo stomaco. Inaspettato e forte che lo fece piegare in due, liberando i peggiori insulti.
«Questo era da parte mia, per la battuta del tuo amichetto, per aver solo insinuato che io potessi scopare con tipi come te.» Lasciò Ben cadere sulla moquette, la peggiore che avesse mai visto, mentre con non-chalance si dirigeva verso la porta.
«Ciao, Dexter.» Salutò con un sorriso amichevole, muovendo le dita prima di sparire dietro la porta di casa.
***
Minho aveva visto Thomas, la sua premura, la sua preoccupazione e lo aveva anche colto in flagrante con le mani, ma nonostante Newt gli avesse chiesto di lui, non aveva detto niente a riguardo. Aveva capito tutto, ma preferiva tacere. Chissà, forse la sua nausea gli aveva fatto fraintendere tutto.
No, stava male, ma non aveva allucinazioni, altrimenti si sarebbe immaginata Brenda in un completino leopardato versione dottoressa. Thomas si era davvero ingelosito nel sentire "migliori amici?" Doveva esserci per forza qualcosa sotto, per non parlare di come avesse difeso Newt con Lillian.
Le sue teorie stavano viaggiando su tante orbite che neanche si accorse dell'arrivo dell'infermiera e una scatola invitante che portava con estrema cura.
«Agente Isaacs Newton?» Domandò dolce, e Minho avrebbe volentieri farle il filo, se solo il biondo non l'avesse troncato con lo sguardo.
«Sì.» Rispose confuso, ancora intontito dall'anestesia.
«Questo è per lei, l'hanno lasciato in forma anonima alla hall.» Il coreano chiuse gli occhi in due fessure, Newt aveva lo stesso sguardo perso e curioso.
Era incartato per bene ed era anche intuibile cosa fosse.
«Una torta alle fragole?» Domandò sbigottito l'asiatico, quando gettò via l'involucro rivelando la delizia.
«È la mia torta preferita.» Affermò quello nel letto, sorpreso.
«Wuoah, quindi questa persona ti conosce molto bene...» La voce calò, mentre i suoi pensieri presero il sopravvento. Minho Lee non si entusiasmava nei gialli del suo lavoro, ma metteva anima e corpo nel gossip e love story dei suoi colleghi. Incredibile. Sarebbe stato un ottimo signor in rosa, anziché signor in giallo.
«Beh, a parte i miei parenti che sono a Londra, qui l'unica persona che lo sa è...Ben»
«Ben, dici?»
Il biondo annuì, ammirandola. Era davvero fatta bene, una delle più belle viste in vita sua, se non la migliore.
Newt non aveva altre spiegazioni, Ben era l'unico a esserne a conoscenza lì a Langley.
Minho, invece, come suo solito volle strafare con la fantasia. E nella sua testa l'unico nome che i pochi neuroni sopravvissuti riuscirono a comporre fu solo uno:
Thomas.
E anche stavolta urielMTy mi ha deliziato con questo piccolo capolavoro che ritrae perfettamente il momento dei newtmas in auto, il calore, la loro vicinanza...Grazie, è meraviglioso!
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