7. Gulag
Russia – 14 Agosto 2016, ora locale 7:42
MacTavish guardò con occhio critico i due Sergenti, seduti davanti a sé: Sanderson si passava nervosamente le dita tra i capelli scuri tagliati al millimetro, mentre Ghost pareva più a suo agio, con le spalle rilassate e il fucile in grembo, come se stesse cullando un neonato.
“Il Gulag in cui faremo irruzione ha una storia lunga… e non molto bella” cominciò, schiarendosi la voce.
“Inizialmente era un castello, costruito a prova di assedio e con vere e proprie segrete. L'edificio ha retto anche agli inverni più rigidi, ma lo stesso non si può dire dei suoi occupanti”.
Sanderson si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
“Durante il secolo scorso, ha ospitato tutti coloro che il Governo voleva eliminare, ma che non poteva uccidere… 627 è ciò che Makarov vuole, perciò liberiamolo”. Finito di parlare, aprì il portellone dell'elicottero e diede un’occhiata agli altri velivoli carichi di soldati che avrebbero preso parte alla missione. Imitato da Sanderson, MacTavish si sedette sul bordo con le gambe a penzoloni nel vuoto.
Entrambi si volsero a guadare verso ovest, intravedendo le coste della Siberia nonostante la nebbia leggera che sovrastava le calme acque dell'oceano.
In quel momento, un rombo di motori catturò la loro attenzione: erano stati affiancati da un paio di caccia, incaricati di abbattere la contraerea nemica. I missili lanciati lasciarono una lieve traccia biancastra e quando colpirono il bersaglio, una nuvola nera si sollevò da terra.
“Si comincia…” sussurrò Sanderson, più a se stesso che agli altri, consapevole che non avrebbero potuto sentirlo.
Attraversarono la cortina di fumo e Roach deglutì rumorosamente quando i suoi occhi misero a fuoco le alte mura della fortezza, circondate da abeti innevati. La cinta muraria perimetrale era circolare, con un paio di torri di avvistamento nuove di zecca al suo interno.
MacTavish si coprì la bocca con una mano a coppa e comunicò via radio il via libera all'ingaggio: tutti e quattro gli elicotteri riversarono una pioggia di proiettili sulla torre più vicina.
Sanderson imbracciò il proprio fucile a colpo singolo con binocolo e, seguendo gli ordini del Capitano, iniziò a bersagliare i soldati sulla cinta muraria. Vide alcune scie biancastre lasciate dagli RPG e sperò con tutto se stesso che il loro pilota fosse degno di quel nome.
“Spostiamoci più avanti… Vedo quattro tango sulla prossima torre!” urlò MacTavish rivolgendosi al pilota, il quale eseguì prontamente gli ordini.
Un fischio assordante precedette una fiammata rossastra e la deflagrazione dell’esplosione fece crollare parte della torre indicata. Uno dei caccia che aveva bersagliato la contraerea una manciata di minuti prima, volò sopra le loro teste a velocità sostenuta, sfiorandoli.
Diversi allarmi risuonarono con insistenza dalla cabina di pilotaggio e l'elicottero perse quota per qualche secondo.
“Tenetevi forte! Shepherd, qui Capitano MacTavish. Ordinate ai caccia di cessare immediatamente il fuoco! C’è mancato davvero poco!”. Normalmente, non si sarebbe mai permesso di dare un ordine ad un suo superiore, ma per qualche istante aveva creduto che la sua morte fosse maledettamente vicina.
“Cercherò di farvi guadagnare un po’ di tempo. A questo punto, un prigioniero in un Gulag non vale molto per la Marina”. Il tono di Shepherd era piatto, privo di qualsiasi inflessione che potesse svelare i suoi pensieri.
Sanderson corrugò la fronte: quella missione aveva come scopo il recupero del prigioniero 627 e la Marina aveva dato immediatamente il proprio supporto… e ora volevano mandare tutto a puttane? Non aveva alcun senso.
“Dannati americani… pensavo fossero i ‘buoni'!”. Il commento sputato con rabbia da Ghost costrinse Sanderson a mordersi il labbro inferiore per trattenere un sorriso. In effetti, nessuno di loro era americano: lui e Riley erano inglesi, mentre MacTavish era orgogliosamente scozzese.
“Ghost, basta con le chiacchiere. Tieniti pronto” lo redarguì il Capitano.
“Signorsì, Signore” replicò Riley, con tono stizzito.
Oltrepassando la cinta muraria del gulag, poterono vedere che all'interno era una vera e propria base militare: un'antenna per le comunicazioni si innalzava verso il cielo e al centro vi era uno spiazzo per il decollo e l'atterraggio degli elicotteri. Erano certi che all'interno del castello ci fosse ben altro.
L'elicottero proseguì verso lo spiazzo adibito all’atterraggio e non appena fu possibile, scesero velocemente dal velivolo. Si allontanarono di corsa dalla piazzola e nascondendosi dietro a delle jeep parcheggiate, risposero al fuoco nemico.
I russi li stavano bersagliando da una torre di guardia e da diversi caseggiati costruiti recentemente, probabilmente negli anni ’90.
Uno degli elicotteri che li aveva condotti fino a lì, riversò una pioggia di proiettili sui soldati nemici, distruggendo qualsiasi cosa mirasse.
“Ah! Ora gli facciamo il culo!”. Sentendo quell'esclamazione, Sanderson rivolse uno sguardo eloquente a Ghost, il quale lo aveva affiancato pochi secondi prima.
Scuotendo la testa lentamente, Roach riportò la propria attenzione sui soldati russi a qualche decina di metri da lui. Imbracciò il proprio fucile d'assalto, riponendo quello con oculare sulla propria schiena e passò al lanciagranate: avrebbe potuto bersagliare senza problemi i soldati che si nascondevano ai piani superiori delle abitazioni.
Seguito da MacTavish e Ghost, Sanderson si avviò verso i caseggiati, oltrepassando la prima linea di fuoco.
Svoltarono a sinistra e videro davanti a loro l'entrata per i piani sotterranei: era un'apertura circolare nel cemento, con cancelli in ferro battuto. Scesero le scale che li avrebbero portati ai piani inferiori e la voce decisa e sicura di MacTavish rimbombò appena tra le pareti del tunnel: “Ci siamo! Entriamo, prendiamo il prigioniero 627 e ce ne andiamo subito!”.
“Più facile a dirsi che a farsi…” bofonchiò Ghost, guadagnandosi un'occhiataccia da parte del Capitano.
Sanderson sospirò lievemente: avevano ragione entrambi. Era una missione ardua, ma dovevano fare in fretta o la Marina avrebbe fatto saltare in aria tutto quanto.
Imboccarono un corridoio illuminato fiocamente da delle lampade al neon e affiancato da un paio di prigioni vuote. Spararono qualche colpo contro i pochi soldati rimasti e continuarono la loro avanzata.
“Ecco la sala comandi! Possiamo sfruttarla per trovare il prigioniero” esclamò Ghost, indicando davanti a sé, verso la fine del corridoio.
Raggiunsero la sala di controllo e Ghost appoggiò il proprio fucile al muro, per poi sedersi davanti ad un paio di computer. Si scrocchiò le dita e si rivolse a MacTavish: “Accederò al sistema per cercare il nostro uomo, ma ci vorrà un po’ di tempo!”.
“Ricevuto! Roach, tocca a noi andare” replicò il Capitano, facendo segno a Sanderson di seguirlo.
Imboccarono delle scale e scesero ancora più in profondità, raggiungendo il piano inferiore dove diversi soldati russi li stavano attendendo.
Mentre rispondevano al fuoco nemico, nascondendosi dietro a delle casse contenenti materiale medico davanti a diverse prigioni, la voce profonda di Ghost gracchiò nei loro auricolari: “Molto bene, sono collegato. Ora vi seguirò tramite le telecamere della sorveglianza”.
“Ricevuto. Hai individuato la posizione del prigioniero 627?” replicò MacTavish.
“Negativo”.
“Cerca ancora!” rispose il Capitano, prima di rivolgersi a Sanderson e agli altri soldati che li avevano affiancati: “Occhi aperti: il prigioniero potrebbe essere in una di queste celle!”.
Il piano in cui si trovavano era un anello: sul lato esterno si aprivano le celle, mentre da quello interno era possibile vedere i piani sottostanti, costruiti con una struttura identica.
Giunsero al primo cancello che impediva loro di proseguire e mentre Sanderson sparava ai soldati più avanti, MacTavish si rimise in contatto con Riley: “Ghost, siamo bloccati da una porta di sicurezza, aprila!”.
“Ci provo! Questa ferraglia è vecchia di un secolo!”.
Il cancello davanti a loro emise un forte rumore metallico e si aprì velocemente, permettendo loro di avanzare.
Controllarono le prigioni che si affacciavano su quella porzione di corridoio, ma erano completamente vuote, se non per qualche materasso lercio e diverse strisce di sangue rappreso.
“Ghost, dimmi qualcosa. Queste celle sono deserte!” esclamò MacTavish, innervosito dalla situazione: avevano i minuti contati.
“L’ho trovato! Il prigioniero 627 è stato trasferito nell'ala est. Attraversate l'armeria al centro: è la strada più veloce” replicò Riley, dando un pizzico di speranza ai presenti.
“Ricevuto! Squadra, dirigetevi verso l'armeria” e senza farselo ripetere, Sanderson svoltò a sinistra, scendendo le scale velocemente ed emettendo tonfi metallici regolari.
Si fermò a guardare la vasta gamma di armi che aveva a disposizione e mentre osservava con interesse un paio di fucili d’assalto, venne raggiunto da MacTavish: “Hai visto qualcosa di interessante?” chiese, sollevando un sopracciglio con fare ammiccante, come se lo avesse trovato al bar mentre filtrava con qualcuno. Ma lui non era il tipo da flirt, aveva una sola persona nei propri pensieri: Thomas.
Non aveva parlato con nessuno del proprio orientamento sessuale, neppure con i suoi genitori e… nemmeno con Thomas. Le uniche conversazioni che aveva avuto con lui riguardavano le sue ordinazioni, dato che l'altro lavorava come cameriere. Lo aveva incontrato per la prima volta due anni prima, nel bar in cui ora soleva andare per incontrarlo appena ne aveva la possibilità. Aveva studiato a lungo i suoi tratti duri e decisi, le guance glabre e gli occhi a mandorla, del colore del cioccolato fondente. Aveva origini vietnamite, ma essendo nato nel Regno Unito, i genitori avevano preferito dargli un nome prettamente inglese.
Sanderson scosse lievemente la testa, ritornando con la mente al presente.
“Cattive notizie: rilevo tre… no, quattro squadre nemiche in convergenza verso la vostra posizione”. Le parole di Ghost li raggelò sul posto per qualche secondo, ma si mossero subitamente verso il cancello di sicurezza successivo.
“Merda! Hanno bloccato la porta con il protocollo di sicurezza. Dovrò aggirarlo”.
Sanderson imprecò a denti stretti. "Troppo tardi! Sono già qui” e nel momento stesso in cui MacTavish pronunciò quelle parole, una pioggia di proiettili si abbatté su di loro.
“Roach, prendi uno scudo antisommossa. Ci servirà maggiore copertura!”. Sanderson eseguì l’ordine prontamente e sentì il forte rumore dei proiettili contro il proprio scudo, costringendo a cambiare posizione per una maggior copertura e rafforzò la presa delle proprie mani.
“Ghost! Apri quella cazzo di porta!” sbraitò MacTavish, urlando come un forsennato.
Erano circondati e bersagliati da diversi punti: l'armeria era al centro esatto degli anelli su cui si aprivano i vari piani e, a posteriori, entrarvici non era stata un'ottima idea.
“Ci sono quasi! Sto passando per il circuito ausiliario…”. Il tono di Ghost era concitato e l'ansia che percepivano nella sua voce faceva eco alla loro.
Finalmente, dopo secondi interminabili, la porta di sicurezza si aprì, lasciando loro una via di fuga.
MacTavish spronò il Sergente a seguirlo e oltrepassarono il cancello, raggiungendo così il lato opposto del piano.
Utilizzando ripari improvvisati, si fecero strada lungo il corridoio circolare rispondendo al fuoco nemico.
“Qui Ghost. Vi consiglio di passare per i piani inferiori calandovi da quella finestra”.
“Ricevuto! Roach, seguimi!” esclamò MacTavish, facendogli un cenno con la testa.
Individuarono la finestra a cui Ghost si era riferito e, utilizzando le corde robuste del proprio equipaggiamento, si calarono per raggiungere il piano inferiore.
Quando raggiunsero il fondo, la voce di Riley gracchiò nei loro auricolari: “Nessun segnale dalla cella di isolamento. La sezione deve essere senza corrente”.
Sanderson si volse verso il corridoio che avrebbero dovuto imboccare e, effettivamente, notò che era avvolto nell’oscurità.
“Ricevuto. Squadra, passate ai visori notturni”.
Fortunatamente quel piano era identico ai precedenti e, con la visibilità data dal visore, riuscirono ad avanzare senza grossi problemi.
Spararono senza sosta ai soldati russi che erano rimasti in zona e controllarono ogni singola cella: erano vuote.
La deflagrazione di un’esplosione fece tremare la terra e un ronzio fastidioso si fece strada nelle orecchie di Sanderson, il quale guidava il gruppo formato da MacTavish e da un paio di soldati.
Accortosi che erano giunti all'inizio di un tunnel fornito di corrente elettrica, si tolse il visore notturno e guardò la fioca luce delle lampade al neon appese al soffitto.
“Shepherd, cosa diavolo era? Dica alla Marina di cessare il fuoco!”. Sanderson non aveva mai visto il Capitano così adirato.
“La Marina non ha molta voglia di discutere, adesso. Rimanete in attesa”. La voce del Generale era calma, quasi piatta, nonostante la situazione fosse delle peggiori.
Corsero a perdifiato e Sanderson raggiunse per primo la fine del tunnel, dove si apriva un secondo corridoio.
“Bravo 6, per ora la Marina ha cessato il fuoco. Vi terrò informati. Passo e chiudo”. Sanderson corrugò la fronte e vide l'ombra di un dubbio anche negli occhi del Capitano: la Marina aveva eseguito gli ordini di Shepherd con velocità impressionante, considerato che il Generale avesse detto loro che non volevano collaborare. Quindi… perché mai non avevano cessato il fuoco sin dall'inizio, quando ancora si trovavano all'esterno della fortezza?
Giunsero nella zona adibita alla manutenzione delle caldaie che riscaldavano gli ambienti della fortezza quel tanto che bastava per non morire assiderati.
“Qui Ghost. Le vecchie docce sono circa nove metri più avanti, sulla vostra sinistra. Dovrete fare breccia nel muro per poter entrare”.
“Roach, piazza dell'esplosivo sulla parete… useremo una scorciatoia!” affermò MacTavish, rimanendo qualche metro più indietro.
Sanderson fece come gli era stato ordinato e al momento della deflagrazione, si buttò nella breccia. Vide un soldato russo venir scagliato via con forza dall’esplosione e senza perdere tempo, sparò ai nemici che riuscì ad individuare.
Seguito da MacTavish e dagli altri soldati, attraversò le vecchie docce non più utilizzate. La stanza era abbracciata da alte mura in cemento scuro e lungo le mura laterali si apriva un ballatoio, utilizzato probabilmente dalle guardie della prigione.
Avanzarono velocemente, fino a che diversi russi si arrabbiarono in posizione di difesa con scudi antisommossa.
“Non attaccateli frontalmente! Spostatevi rapidamente e sparate ai fianchi!” urlò il Capitano, facendo segno agli altri di imitarlo, mentre si spostava sul lato destro della stanza.
Sanderson si spostò sul lato sinistro e passò al lanciagranate: i russi non avrebbero avuto scampo.
“Dobbiamo buttarci in quel buco nel pavimento, dall’altra parte delle docce. Seguitemi!”. La voce di MacTavish sovrastò per poco il rumore assordante delle armi e, senza indugio, Roach si accodò al Capitano.
Si lanciarono nella voragine e giunsero nei vecchi tunnel dove acqua putrida scrosciava indisturbata.
“Ghost, siamo nelle gallerie sotterranee. Direzione sud, sud-ovest”.
“Ok, continuate a seguire la galleria”.
“Dimmi qualcosa in più, Ghost. Non voglio essere qui quando la Marina ricomincerà a bersagliare il gulag”. MacTavish non aveva tutti i torti: non dovevano preoccuparsi solamente dei russi, ma persino dei propri alleati.
“Andate avanti. Ci siete quasi. Dovete fare breccia nel muro alla vostra sinistra, alla fine della galleria. Rilevo due fonti di calore: una dovrebbe essere il prigioniero 627”.
MacTavish e Sanderson svoltarono a destra e videro che erano giunti al limitare del tunnel sotterraneo. Seguendo le istruzioni di Ghost, si prepararono per fare irruzione, sfondando la parete sulla sinistra.
La deflagrazione controllata dell'esplosivo che aveva piazzato creò una notevole apertura nel muro e ciò che videro riuscì a sorprenderli per un attimo: il prigioniero stava strangolando con delle catene il soldato russo incaricato della sua sorveglianza.
Sanderson sparò un paio di colpi al soldato e si concesse qualche secondo per osservare 627.
Avrebbe riconosciuto quel volto persino in mezzo alla folla: sopracciglia folte, baffi ingrigiti dal tempo e sguardo beffardo e deciso.
“C-capitano Price?”.
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