0. Prologo
"Revenge is like a ghost: it takes over every man it touches. Its thirst cannot be quenched, until the last man standing has fallen".
~ Vladimir Makarov ~
Azerbaigian - 2011
L'aria era rovente e pesante.
Una goccia di sudore gli solcò la guancia, mischiandosi al sangue che fuoriusciva a rilento dal taglio che aveva appena subito. Al-Asad deglutì rumorosamente muovendo piano le mani legate dietro la schiena - aveva ormai perso quasi del tutto il senso del tatto - e guardò negli occhi l'uomo che torreggiava su di lui.
Il soldato aveva un cipiglio severo, lo sguardo deciso e tagliente quasi quanto la lama del coltello che stava riponendo nella propria custodia. Il Capitano John Price era furioso: durante l'assalto di Riad erano morti più di trentamila marine, bruciati in un istante dalla forza distruttrice di una bomba nucleare. Quando i suoi occhi avevano visto la nube innalzarsi al cielo si era sentito completamente perso e impotente. Grazie alla soffiata del loro informatore erano riusciti a catturare il pezzo di merda che ora stava interrogando alla vecchia maniera. Doveva conoscere ogni dettaglio, ogni sfaccettatura di quanto fosse successo.
Khaled Al-Asad era un uomo sulla cinquantina, dalla carnagione olivastra e probabilmente non aveva fatto nulla di buono nella vita. L'inglese ricordava perfettamente la prima volta che era emerso nelle notizie di cronaca dei mass media globali e tutto il mondo lo aveva osservato con il fiato sospeso mentre rovesciava il governo saudita con un colpo di Stato, giustiziando il legittimo Presidente in diretta televisiva.
Con uno scatto fulmineo gli diede un pugno in faccia e lo guardò compiaciuto mentre sputava sangue e saliva. Sapeva fosse stato lui a far detonare l'ordigno. "Perché lo hai fatto? Dove hai ottenuto la bomba?" chiese atono, trattenendo a stento la rabbia che gli ribolliva nelle vene. Non ricevette alcuna risposta. "Da chi!? Dammi un nome, voglio il suo nome!" urlò. Lo colpì come una furia allo stomaco, facendolo boccheggiare in cerca di aria.
Era chiaro che l'arabo non avrebbe rivelato le informazioni tanto facilmente. Per lealtà nei confronti del suo mandante, forse? O perché ne era terrorizzato?
"Signore, è il suo telefono". Gaz, il soldato che era rimasto in disparte fino a quel momento, richiamò la sua attenzione e gli lanciò il cellulare di Al-Asad. Lo prese al volo e rispose subitamente. Price ascoltò l'interlocutore in silenzio per una manciata di secondi, fino a che non gettò con rabbia il telefono contro la parete più vicina. Si volse di scatto e, estratta la pistola dalla fondina, sparò all'arabo.
Era diventato inutile, non avrebbe mai parlato. Ora era sicuro che fosse vera la sua seconda ipotesi. Aveva riconosciuto immediatamente quella voce, avendo ascoltato le svariate intercettazioni telefoniche almeno un migliaio di volte.
Una sensazione strisciante e del tutto inaspettata gli ottenebrò i sensi, facendogli scordare per un momento di dove si trovasse. Rabbrividì, nonostante il clima torrido.
"Chi era, Signore?" chiese Gaz, aggrottando la fronte.
"Zakhaev... Imran Zakhaev". Pronunciare il suo nome fu come ricevere una pugnalata al cuore. Quell'uomo il leader del Partito Ultranazionalista russo, la causa della guerra civile e, data la telefonata ricevuta, l'ideatore del piano che aveva portato la morte di tutti quei soldati.
Credeva di averlo ucciso quindici anni prima.
Aveva fallito e in un istante venne risucchiato dai ricordi.
Nell'inverno del 1996, la città abbandonata di Pryp'jat' risuonava degli pneumatici delle auto degli ultranazionalisti. Si erano riuniti nella piazza principale dove si ergeva il palazzo più alto della cittadina: quattro jeep si erano fermate al centro, vicino a un uomo.
Price guardò alla propria destra, osservando il suo superiore che scrutava silenzioso la situazione con il binocolo.
"Credo di averlo visto. Aspetta il mio segnale" sussurrò l'altro.
Seguendo le indicazioni spostò lievemente il fucile di precisione e, guardando nell'oculare, individuò in un attimo il volto di Imran Zakhaev. Era un uomo sulla sessantina, pelato e il pizzetto ormai ingrigito dal tempo.
Aveva premuto il grilletto in quell'istante, ma lo aveva perso di vista durante la sparatoria iniziata dai russi. Ricordava bene la fuga disperata da quel luogo dimenticato da Dio, la paura di essere catturato o ucciso.
Era stato tutto inutile.
Russia - 2011
Viktor guidava con attenzione su una stradina accidentata immersa nella foresta, dirigendosi alla cittadina rurale lì vicino controllata dai suoi uomini del Partito Ultranazionalista.
Suo padre Imran si era nascosto in una casa sicura sapendo che i SAS e i marine erano sulle sue tracce: rimanere divisi era perentorio.
Si grattò il sopracciglio destro nel momento in cui scorse in lontananza il posto di blocco e la torre di guardia improvvisata, costruita poco tempo prima. Era ormai a pochi metri di distanza, quando una pioggia di proiettili cadde sulla sua auto blindata nel vano tentativo di fermarlo.
Imprecò a denti stretti e girò il volante in direzione dell'impalcatura sopraelevata: doveva eliminare il vantaggio dei tiratori che gli sparavano dall'alto. L'impatto fu violento e guardò la torre crollare ignorando il fastidioso fischio nelle orecchie. Scese dal veicolo a fatica e controllò gli impostori al posto di blocco usando la macchina come copertura. Corse addentrandosi nel bosco, cercando di raggiungere la città senza farsi colpire e sentì i proiettili volare vicino a sé, centrando i tronchi degli alberi e distruggendone la corteccia. Si volse a guardare alle sue spalle e sparò un paio di colpi in direzione dei suoi inseguitori. Raggiunse la strada principale e si avviò con il cuore in gola verso la piazza centrale.
Si sentiva braccato, come un preda che scappa dal proprio predatore. Era una lepre impaurita che fuggiva da cani rabbiosi che abbaiavano piombo.
Il Sergente MacTavish digrignò i denti mentre guardava Viktor Zakhaev imboccare il bosco. Si volse cercando con gli occhi il soldato che era con lui sulla torre, accertandosi delle sue condizioni. Si alzarono entrambi e corsero verso la cittadina ignorando il dolore al fianco che si faceva più forte a ogni respiro e a ogni falcata.
Il figlio di Imran Zakhaev non poteva sfuggirgli o avrebbe perso l'unica occasione per conoscere la posizione del leader del Partito Ultranazionalista.
Accelerò il passo con al seguito gli altri uomini della SAS. Lo vide raggiungere il tetto di un edificio in mattoni, salendo le scale antincendio. MacTavish si guardò alle spalle e fece segno agli altri di circondare il condominio.
Viktor osservò con orrore oltre il muro di protezione del tetto: era fottuto.
"Sei in trappola!" urlò uno dei soldati, tenendosi una mano sul costato.
Il russo abbassò lo sguardo sulla pistola che impugnava con forza, fino a rendere bianche le nocche. Deglutì rumorosamente, mentre il sudore della fronte si faceva strada sulle tempie pulsanti.
Doveva farlo. Doveva sacrificarsi per non tradire suo padre.
Si puntò l'arma alla testa e un colpo riverberò per qualche secondo mentre il suo cadavere crollava a terra scomposto.
~
Imran strinse la mano destra a pugno fino a incidere la carne con le unghie. La notizia della morte del proprio primogenito gli era giunta inaspettata come un fulmine a ciel sereno. Una morsa d'acciaio gli avviluppò il cuore e la sensazione di costrizione gli fece mancare il fiato per una manciata di secondi. Alzò lo sguardo e si ricompose nel vedere la figlia Aleksandra, appoggiata con la schiena allo stipite della porta.
I lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle in una cascata dolce e sinuosa, incorniciandole il viso tirato dallo stress e dalla preoccupazione. Una ruga profonda le solcava la fronte, facendola sembrare più vecchia di quel che era in realtà e un paio di occhiaie scure sottolineavano con durezza la stanchezza della donna.
"Cos'è successo?" chiese lei, timorosa della risposta.
"Viktor... è morto" disse semplicemente, guardandola abbassare lo sguardo.
Aleksandra fece un passo indietro e si allontanò dall'uscio dello studio del padre. Aveva bisogno di rimanere sola per metabolizzare la notizia.
Viktor e lei erano fratelli gemelli. Avevano condiviso tutto, tranne il lavoro a capo del Partito Ultranazionalista. Era stata comunque addestrata al pari del fratello, ma non aveva mai potuto mettere in pratica l'insegnamento ricevuto.
Percepì una presenza ingombrante alle proprie spalle e, voltandosi di scatto, incontrò gli occhi glaciali del protégé di suo padre: Vladimir Makarov.
Si maledì mentalmente per non averlo sentito arrivare.
Diede un'occhiata veloce alla porta che conduceva alla stanza dove aveva lasciato suo padre e gli passò accanto. "Vi lascio soli" sussurrò. Non ricevette alcun tipo di risposta, ma poté percepire lo sguardo di lui sulla schiena finché non sparì dalla sua vista.
~
MacTavish non poteva credere alle proprie orecchie. Guardò nel vuoto davanti a sé prima di imprecare ad alta voce, facendosi sentire dal soldato al suo fianco.
"Che succede, Soap?" chiese l'altro, chiamandolo con il suo soprannome.
"Imran Zakhaev ci ha imposto un ultimatum... O le truppe americane e britanniche lasciano la Russia in breve tempo o causerà una rappresaglia nucleare" replicò, scuro in volto. Aveva fallito la propria missione e non solo non aveva alcuna informazione sul leader ultranazionalista, ma la morte del suo obbiettivo aveva causato un peggioramento catastrofico della situazione già di per sé fragile e ora l'ombra di un olocausto nucleare si allungava verso gli Stati Uniti.
"Ha definito quanto vale il suo 'breve tempo'?" domandò di rimando, disegnando delle virgolette immaginarie nell'aria.
Scosse la testa lievemente. "Possiamo fare una sola cosa: irrompere nella base missilistica sui Monti Altay" affermò poi MacTavish.
"E allora andiamo. Cosa stiamo aspettando?". MacTavish si volse di scatto nella direzione di quella voce e un mezzo sorriso apparve sulle sue labbra nel guardare l'uomo che gli si parava davanti: il Capitano John Price.
Ricordava che quando era stato assegnato a lui non era stato accettato di buon grado a causa del suo soprannome particolare - Soap - finché il Capitano non ne aveva compreso il significato: MacTavish era impeccabile nella pulizia - così la chiamavano - delle scene del crimine che mai la polizia o altri enti avrebbero dovuto conoscere.
Dopo pochi attimi, vennero raggiunti da un secondo soldato, Gaz: l'ombra di Price. Pur essendo il sottoposto dell'altro, non si risparmiava con le battutine e i battibecchi non mancavano mai. Il suo volto, lungo e magro, era incorniciato da una leggera barba dello stesso color nocciola degli occhi dallo sguardo penetrante e attento.
La squadra si era finalmente riunita.
Dopo poco meno di un'ora di viaggio in jeep, giunsero nelle vicinanze della base missilistica.
La neve rada, ormai quasi del tutto sciolta con l'arrivo della primavera, scricchiolava lievemente sotto gli stivali militari.
"Attenzione, elicotteri nemici". La voce di Gaz gracchiò negli auricolari di tutti.
Si buttarono a terra tra le sterpaglie, sperando che la mimetica delle uniformi funzionasse alla perfezione.
Entrambi gli elicotteri passarono sopra le loro teste a velocità sostenuta, senza rallentare. Probabilmente non si erano accorti della loro presenza.
Si rialzarono e MacTavish si avvicinò al traliccio dell'alta tensione più vicino. Seguendo le istruzioni di Price, piazzò velocemente del C4.
"Fallo, Soap" ordinò Price, appena furono tutti a distanza di sicurezza.
Con un botto, il pilone oscillò per un attimo, fino a che non crollò del tutto facendo tremare la terra e sollevando un polverone.
"Charlie 6, il traliccio è stato abbattuto. La corrente è saltata" comunicò Price alla squadra di marine non lontana da loro con cui stavano collaborando.
"Ricevuto, Bravo 6. Stiamo per irrompere nel perimetro, passo".
Price e MacTavish si avvicinarono alla grata perimetrale e, ora che non era più elettrificata, l'inglese poté utilizzare l'azoto liquido per indebolirne la struttura metallica.
Con un paio di strattoni la grata cedette di colpo, creando un'apertura verso la foresta di conifere che circondava la base missilistica.
Il vento soffiò con più forza, trasportando gli aghi degli abeti che fiancheggiavano il sentiero.
MacTavish alzò lo sguardo al cielo non appena sentì le pale di un paio di elicotteri falciare l'aria sopra le loro teste: i velivoli di prima erano stati richiamati alla base.
Le mura perimetrali erano in cemento armato rinforzato, ma la squadra Charlie 6 era riuscita a crearvi una breccia.
Avanzarono e si ricongiunsero con gli altri soldati, facendosi largo con i lanciagranate tra gli uomini di Zakhaev.
In quella zona vi erano solamente vecchi magazzini abbandonati: erano ancora ben lontani dall'obbiettivo finale.
Un elicottero si fermò sopra le loro teste e decine di ultranazionalisti si calarono con lunghe corde nere che oscillavano al vento.
Il rumore assordante dei proiettili e il fragore delle granate riecheggiarono tra le mura diroccate dei magazzini, creando un sottofondo quasi ipnotico.
Appena ne ebbero l'occasione, superarono l'ultimo edificio fatiscente e imboccarono una strada sterrata con profondi solchi lasciati da diversi furgoni e pick-up.
Procedettero uno dietro l'altro, pronti a qualsiasi evenienza.
"Bravo 6, qui Sniper Team 2. Stiamo uscendo dal limite del bosco verso sud".
Gli uomini della SAS videro un movimento tra l'erba alta, ma la voce perentoria di Price li bloccò: "Non sparate. È una delle squadre di tiratori scelti".
Poco dopo due soldati con le proprie ghillie e armati di fucile di precisione sbucarono dal bosco.
"Felice di vedere che ce l'avete fatta. Vi copriremo le spalle una volta superato il perim-". Il cecchino si bloccò non appena la terra iniziò a tremare. Un intenso bagliore illuminò l'orizzonte alla fine del sentiero e una nuvola bianca si sollevò oltre la cima degli alberi. "Cosa diavolo è quello!?" Continuò, con il terrore nella voce.
"Delta One X-Ray, un missile è appena stato lanciato".
MacTavish riuscì a udire la voce di Price solo grazie agli auricolari mentre comunicava con la base di Comando.
"Ripeto un missil-" continuò, prima di bloccarsi e stringere i denti per non imprecare.
"Cazzo, eccone un altro!" gridò Gaz, guardando con gli occhi spalancati i due razzi che guadagnavano quota velocemente.
"Delta One X-Ray, abbiamo due ordigni in volo! Passo" urlò l'inglese mentre correva seguito dai suoi commilitoni.
La risposta del Comando non si fece attendere: "Ricevuto. I nostri satelliti li stanno tracciando. Entrate nella base missilistica e fate irruzione al centro di controllo: stiamo lavorando per ottenere i codici di disattivazione dal Governo Russo. Passo e chiudo".
Il cuore di MacTavish perse un battito, per poi seguire un ritmo incalzante e irregolare. Una stretta illusoria gli bloccò il fiato in gola e, nonostante l'aria fresca sul viso, la fronte gli si imperlò di sudore. Con un paio di respiri profondi riuscì a calmare le contrazioni furiose del miocardio: le sue mani non potevano tremare.
Superata anche la seconda recinzione, si diressero correndo senza sosta verso la base ormai vicina.
"Bravo 6, Sniper Team 2 in posizione, passo". Prima di superare il secondo perimetro le due squadre si erano divise e i cecchini si erano diretti verso la posizione sopraelevata più vicina, da cui avrebbero controllato la situazione e offerto supporto agli uomini della SAS.
"Ricevuto. Tienici aggiornati, passo e chiudo" replicò Price, deciso.
Avanzarono di poco, prima di imbattersi in altri uomini armati del Partito Ultranazionalista.
"Qui Sniper Team 2. Avete alcuni ostili e carri leggeri provenienti da nord. Vi consiglio l'uso di esplosivo o di cercare armi pesanti, passo".
MacTavish si sporse lievemente, guardando oltre il container dove si era nascosto. Dovette ritirarsi subito per non essere investito dai colpi degli ultranazionalisti, ma per fortuna era riuscito a vedere la posizione del carro leggero identificato dai cecchini.
Prese i fumogeni ancor prima che Price lo ordinasse e, sapendo dove fosse il corazzato, ne lanciò uno senza guardare.
Ora doveva solo avvicinarsi per piazzare il C4. Più facile a dirsi che farsi, pensò mentre teneva sotto controllo il proprio respiro.
Corse verso il limitare della recinzione usando gli altri container come copertura. Si volse di scatto e puntò l'arma davanti a sé pronto a sparare, ma non vi era nessuno. Attraversò velocemente la cortina di fumo e trovò dopo pochi passi il suo obbiettivo. Sistemò l'esplosivo sul carro leggero con movimenti precisi e meccanici e si allontanò di corsa, tornando alla posizione iniziale.
Controllò che non ci fossero soldati della SAS nelle vicinanze e azionò il detonatore.
Il fragore dell'esplosione fece persino vibrare il metallo del container che stava usando come copertura. Si massaggiò le orecchie per eliminare il fastidioso fischio che gli trapassava il cranio da parte a parte, ma non sprecò altro tempo.
Giunsero finalmente all'ultima recinzione, superandola senza problemi con la sega circolare.
All'orizzonte, le montagne innevate erano ancora in parte nascoste dalla nuvola di fumo biancastro lasciata dal combustibile dei missili.
Soap serrò la mascella con forza: un altro carro leggero si stava dirigendo verso di loro. Coperto dal Capitano e nascosto dalla nube di fumo, si avvicinò al corazzato e piazzò velocemente dell'esplosivo. Con un gesto del braccio, spronò Price ad allontanarsi insieme a lui e l'inglese gli fece segno di fare detonare il C4 con il capo, coperto dal suo immancabile cappello da pescatore beige, non appena fu a distanza di sicurezza.
In seguito all'esplosione, l'aria tremò appena e Price si avvicinò alle grate per raggiungere la base sotterranea.
"Bravo 6, qui Squadra 3. Ci stiamo avvicinando da nord-ovest, passo".
In quel momento un elicottero sorvolò sopra le loro teste e, trovata una buona posizione, vi scesero gli uomini del Team 3.
"Ricevuto, Squadra 3. Ci incontreremo al limitare nord vicino ai pozzetti per le prese d'aria. Dateci qualche secondo per tagliare le grate, passo e chiudo" comunicò Price.
Il rumore assordante delle seghe circolari si unì a quello delle pale dell'elicottero che falciavano l'aria a qualche decina di metri di distanza.
Tagliata la grata d'accesso, il clangore del metallo giuse alle loro orecchie pochi secondi dopo e senza perdere tempo si calarono velocemente nel tunnel avvolto nell'oscurità. Raggiunsero il fondo con un tonfo sordo e accendendo le pile attaccate ai propri fucili illuminarono la via.
Si addentrarono uno in fila all'altro nei condotti di areazione - abbastanza alti per permettere loro di non accovacciarsi - e Price, che guidava in testa al gruppo, lasciò a terra un paio di torce fosforescenti a ogni svolta per rischiarare la strada da intraprendere.
Il silenzio era quasi assordante. MacTavish era certo che chiunque avrebbe potuto sentire il battito accelerato del suo cuore che gli rimbombava furiosamente nelle orecchie.
Price si fermò di colpo davanti a lui e, il più silenziosamente possibile, rimosse una piccola grata che dava su un'area deserta della base. Con un balzo, atterrarono sul pavimento in piastrelle biancastre: erano dentro.
Si addentrarono nei corridoi illuminati appena dalle luci di emergenza, pronti a rispondere al fuoco nemico se necessario.
"Capitano Price, qui base di Comando. Stiamo per inviarvi i codici necessari per la disattivazione dei missili in volo. Avete quindici minuti prima che raggiungano la costa orientale degli Stati Uniti. Passo".
"Ricevuto, passo e chiudo" rispose Price, facendo segno a MacTavish di proseguire.
Imboccarono un corridoio illuminato da luci rosse lampeggianti e un fastidioso allarme riecheggiò tra le pareti.
Dopo un paio di minuti giunsero in quella che sembrava essere la cucina della base e proseguirono attraversandone l'uscio, entrando nella mensa. Nascondendosi dietro ai banconi, MacTavish diede un'occhiata veloce alla stanza: nella penombra poteva scorgere delle barricate improvvisate con i tavoli da pranzo. Sentì alcuno proiettili crepitare sopra la sua testa e, con l'aiuto di Price, riuscì ad abbandonare la sua posizione.
Scavalcarono velocemente le barricate e passarono oltre, sparando a chiunque gli si parasse davanti.
Quel luogo sembrava un labirinto e il continuo risuonare degli allarmi non era d'aiuto: avevano avuto poco tempo per studiare la planimetria.
Scesero velocemente delle scale e proseguirono in quello che doveva essere il magazzino. Le loro ombre si mossero insieme ai lampeggianti rossi, unica illuminazione della stanza oltre alle loro torce.
Price guardò l'orologio che portava al polso e odiò con tutto se stesso il moto inesorabile delle lancette: erano già passati quattro minuti.
Si fermarono a riprendere fiato per qualche secondo, mentre ascoltavano un messaggio in russo trasmesso dagli altoparlanti.
"Signore, cosa stanno dicendo?" Chiese MacTavish, volgendo l'attenzione sull'inglese a un paio di metri da lui.
"Hanno iniziato il conto alla rovescia: Zakhaev vuole lanciare i missili rimasti" replicò Price, alzandosi di scatto.
Con la spiegazione del Capitano, comprese che la voce agli altoparlanti stesse contando i secondi rimanenti al prossimo lancio. Si guardò attorno e un brivido di terrore gli percorse la schiena: erano nel condotto che a breve si sarebbe riempito di fumo rovente.
"Muoversi, muoversi!" Urlò istintivamente e, nel momento in cui la voce agli altoparlanti tacque, una luce accecante apparve alle loro spalle.
Soap sorpassò l'uscio per ultimo e, mentre la nuvola ardente lo stava per raggiungere, Price chiuse la porta a tenuta stagna con un tonfo metallico.
I due si scambiarono un'occhiata e, con un cenno del capo, focalizzarono nuovamente la loro attenzione sulla strada da intraprendere.
Proseguirono per qualche metro, fino a trovare un'enorme porta blindata sormontata dall'ennesimo lampeggiante rosso.
"Capitano Price, qui Gaz. Sala di sorveglianza sotto controllo. Rapporto sulla situazione, passo". Loro e Gaz si erano separati nel momento in cui erano scesi nei condotti di areazione.
"Squadra 2, qui Capitano Price. Siamo in posizione. Aprite la porta della sala comandi, passo".
"Ricevuto, passo".
Udirono il clangore del metallo, segno che la porta era stata azionata, ma l'uscio si aprì con lentezza esasperante, di centimetro in centimetro.
"Cazzo, Gaz! Non riesci ad aprirla più velocemente?" sbraitò Price, innervosito.
"No, Signore... ma può provare a spingere, se la fa sentire meglio".
"Che stronzo..." commentò a denti stretti mentre abbassava lo sguardo sull'orologio: avevano solo pochi minuti.
MacTavish guardò attraverso la fessura che piano piano si faceva più larga e scorse altri uomini armati. Appena l'apertura fu abbastanza ampia, lanciò un paio di fumogeni per poter entrare. Seguito da tutti gli altri, oltrepassò l'uscio accovacciato e sparò agli uomini di Zakhaev che fu in grado di vedere.
"Squadra 3, rapporto sulla situazione, passo". La voce di Price lo raggiunse con un crepitio attraverso gli auricolari.
"Squadra 3 in posizione sul lato sud-est della sala comandi. Rimaniamo in attesa. Siete dietro al muro? Passo".
"Affermativo. Prepararsi all'irruzione, chiudo" replicò il Capitano, prima di rivolgersi a MacTavish. "Soap, piazza gli esplosivi, vai!".
Eseguendo quanto gli era stato ordinato, si avvicinò di corsa al muro che andava abbattuto e vi sistemò velocemente il C4 che gli era rimasto. Appena fu a distanza di sicurezza lo fece detonare, creando un foro piuttosto largo nella parete.
Oltrepassarono il buco, cercando di non respirare la polvere che si era sollevata e spararono agli ultranazionalisti che li stavano aspettando.
Usarono come riparo i banconi con i computer utilizzati per le fasi di lancio dei missili e appena la via fu libera, MacTavish si diresse alla console di controllo digitando con dita frenetiche i codici forniti dal governo russo.
"Bravo 6, tutte le testate nucleari sono state disattivate in volo".
Sentendo la buona notizia dalla base di Comando, Soap tirò un sospiro di sollievo e il peso che gli aveva schiacciato il cuore fino a quel momento si alleviò.
"Capitano Price, qui Gaz dalla sala di sorveglianza. Imran Zakhaev si sta dando alla fuga. Vi mando le coordinate del deposito veicoli, passo".
"Ricevuto. Ci vediamo lì, passo e chiudo" disse via radio, prima di rivolgersi agli altri soldati. "Tutti dietro di me, andiamo!"
"A tutte le squadre, qui Base di Comando. Abbandonate subito la zona. Rilevate molte unità nemiche convergenti verso la vostra posizione. Chiudo".
Accelerarono il passo udendo quelle parole: dovevano uscire dalla base al più presto.
MacTavish sentì delle voci provenienti dal fondo del corridoio davanti a loro: "Abbiamo compagnia! Rinforzi nemici in avvicinamento".
Risposero al fuoco, avanzando lentamente fino a che non trovarono l'ascensore che li avrebbe portati in superficie.
"Qui Gaz. Siamo al deposito veicoli e sotto fuoco nemico! Dove diavolo siete, ragazzi?".
"Siamo in ascensore, stiamo arrivando. Attendete".
"Beh, vi conviene muovere il culo! Altrimenti sarete costretti a partecipare al mio funerale! Chiudo".
Ascoltando quelle parole, Price scosse lievemente la testa e un sorriso divertito appena accennato gli distese le labbra sottili.
"Sa, Signore... ho proprio una gran voglia di ammazzare quel Zakhaev" affermò il soldato che era rimasto con loro.
"Beh, mettiti in fila... sempre se non ci trovi prima lui" replicò Price, uscendo dall'ascensore per primo.
Dopo aver sbaragliato i pochi ultranazionalisti rimasti, salirono insieme a Gaz sul primo pick-up che riuscirono a trovare.
Dopo neanche un minuto, si ritrovarono braccati da altri veicoli nemici, ma mirando agli pneumatici o al guidatore evitarono che si avvicinassero troppo.
In quel momento, il rumore delle pale di un elicottero raggiunse le loro orecchie.
MacTavish imprecò a denti stretti e prese velocemente tra le mani l'RPG appoggiato sul fondo del pick-up.
Aveva un solo colpo, un'unica possibilità.
Prese la mira e, trattenendo il fiato, sparò in direzione dell'elicottero che presto avrebbe aperto il fuoco su di loro.
La deflagrazione fu devastante.
Il rottame in fiamme precipitò in pochi istanti proprio davanti a loro, sul ponte che attraversava il fiume che scrosciava con forza al centro della valle.
Price sterzò di scatto, ma data l'alta velocità il pick-up si ribaltò lanciando a terra coloro che si trovavano sul retro.
La testa, il petto e le gambe gli parevano un ammasso indistinto di dolore. Non riusciva a percepire con chiarezza il proprio corpo sovraccaricato dall'attività dei neuroni. MacTavish socchiuse gli occhi e vide davanti a sé il volto di Gaz. Lo scuoteva nel tentativo di fargli riprendere conoscenza e capì che gli stava dicendo qualcosa, ma Soap non sentiva altro che un fastidioso fischio nelle orecchie.
Lo osservò irrigidirsi per un attimo, prima di crollare a terra a peso morto. I suoi occhi vitrei lo guardarono senza vederlo, mentre sotto la sua testa iniziava a formarsi una piccola pozza di sangue e materia grigia.
Urlò il suo nome, ma non riuscì a udire la sua stessa voce.
Dall'altra parte del pick-up rovesciato vi era Imran Zakhaev, circondato dai suoi uomini fidati.
Il leader del Partito Ultranazionalista aveva assistito alla distruzione dell'elicottero e al loro incidente dietro di sé e aveva deciso di mettere fine alla sua fuga. Non poteva perdere un'occasione del genere. Doveva assolutamente uccidere coloro che avevano causato la morte del figlio. Superato l'elicottero in fiamme, aveva sparato al primo soldato che aveva visto senza esitazioni.
Ora mancavano gli altri.
La manica sinistra della sua giacca sventolò vuota al vento, facendogli ricordare gli eventi di quindici anni prima. La rabbia lo investì con forza mentre si avvicinava lentamente al pick-up, affiancato dalle sue guardie del corpo.
MacTavish guardò alla sua sinistra: Price stava uscendo dalla cabina del camioncino tenendosi una mano sul fianco. Probabilmente aveva un paio di costole rotte.
Il Capitano sfilò la sua M1911 dalla fondina e la lanciò con le ultime forze rimaste verso di lui, facendola strisciare sull'asfalto.
MacTavish prese la pistola tra le mani e, riprendendo parte del controllo di se stesso, si sporse lievemente oltre la copertura che gli forniva il pick-up e mirò alla testa di Zakhaev.
Saturo di adrenalina, vide tutto a rallentatore con l'udito ancora ovattato dalla confusione che regnava nella sua mente.
Guardò Zakhaev cadere a terra, raggiunto poco dopo dai suoi uomini ora privi di vita.
Si sdraiò sul cemento lasciando la presa sulla pistola e alzò lo sguardo verso il cielo terso, in attesa di essere recuperato da quell'Inferno.
~
Alexandra si sistemò più comodamente sul divano, alzando gli occhi dal libro che tentava invano di leggere: Vladimir marciava avanti e indietro nel corridoio come una furia.
Suo padre Imran se ne era andato ormai da un'ora insieme alle sue guardie del corpo, eccetto Makarov che era stato lasciato nella casa sicura per la sicurezza della figlia.
La radio attaccata al giubbotto antiproiettile di lui iniziò a gracchiare e Alexandra sentì i suoi passi allontanarsi dal salotto prima di udire la sua risposta.
Si sedette, appoggiando il libro sul tavolino di cristallo e sperò con tutta se stessa che fossero buone notizie, ma il tono di Vladimir dall'altra parte del muro prometteva l'esatto opposto.
Alzò lo sguardo su di lui non appena varcò l'uscio della stanza. Fissò per qualche secondo quegli occhi glaciali di colore diverso, per poi sentire le sue parole e riabbassare lo sguardo sul pavimento.
"Mi dispiace". Era stato sincero, dopotutto gli dispiaceva davvero. Imran Zakhaev era stato il suo mentore per moltissimi anni e si fidava ciecamente di lui.
Si passò una mano tra i capelli neri prima di sfilare la pistola dalla fondina e porgerla, tenendola per la canna, ad Alexandra seduta di fronte a lui.
"La sai usare, no?" chiese con un sorriso storto sulle labbra, conoscendo già la risposta.
Gli era capitato di vederla allenarsi nei combattimenti ravvicinati con le guardie del corpo di suo padre: sapeva bene di cosa fosse capace.
Ricordava che un giorno lo aveva addirittura sfidato.
Un lampo di fastidio le attraversò gli occhi cerulei. "Per chi mi hai presa?" Afferrò con decisione la pistola che le stava porgendo e si alzò di scatto dal divano, pronta a ciò che il futuro aveva in serbo per lei. Era senza dubbio addolorata per la morte di Viktor e di suo padre, ma era finalmente giunto il momento di uscire dall'ombra di suo fratello e Imran non poteva in alcun modo impedirglielo.
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