2. "Fatela giocare"
"Tu sei una femmina, non puoi giocare con noi!"
Sorrido, in piedi tra Prisca e Carlotta. Chissà se quel ragazzino bastardo adesso ha realizzato un qualche suo sogno. Chissà se si ricorda di quella femmina che non ha fatto giocare, al campetto dietro la chiesa di San Felice, non so più quanti anni fa... Chissà se gli prende un accidente, al vedere dove sono.
La bambina davanti a me si gira e mi sorride.
«Dopo segni, vero?» mi chiede, innocente.
«Ci provo» le dico. Che altro dovrei rispondere a una bambina?
La banda inizia a suonare l'inno neozelandese, e io mi guardo intorno. Non devo neanche fare troppa fatica per trovarli, perché sono lì: mia madre, mio padre e mio fratello. Vedo anche i genitori di Prisca e quelli di Marta saliti da Bari.
Vedo i loro visi, che sembrano a un passo da me e lo so, non so come ma lo so, lo so che anche loro, tra tutte le ragazze schierate in ordine, stanno guardando proprio me.
«Dai, pronte!» sento incitare Simona dalla panchina, abbracciata a Bice ed Eleonora che le sono ai lati. L'altro inno è finito e ora tocca al nostro.
Poporopopopopopò... Non saprei dire quale sia lo strumento iniziale, ma sento le note vibrare attraverso il mio corpo, come se fossi io a essere suonata. Forse un po' suonata lo sono davvero.
Sorrido, in balìa di qualcosa di incomunicabile. Come si esprime a parole l'adrenalina che mi scorre nel sangue, che mi fa guardare gli spalti carica di energia, che mi fa sentire viva?
E iniziamo a cantare, un po' stonate, un po' cercando di andare a ritmo con la musica, un po' seguendo il pubblico, che va ancora per conto proprio.
Chiudo gli occhi, sentendo mie quelle parole. Certo, Mameli quando le ha scritte non pensava a una partita di calcio, né tantomeno a un evento di portata mondiale come sono le Olimpiadi...
Mi scorrono davanti le immagini di una vita, i bimbi del campo da calcio a Centocelle, che ho guardato giocare per qualche giorno, prima di decidermi a chiedere se potevo anche io. Il bambino che mi caccia via, le mie lacrime di rabbia contro quel ragazzino che avrei preso a schiaffi se non fosse intervenuto un papà...
"Fatela giocare con voi."
Sento la mano di Prisca sulla mia spalla, come a volermi dire che lei è qui, che è con me... che ci sarà fino alla fine.
Il provino fatto per la Lazio, che mi ha scartata, e poi quello con la Roma, perché papà era convinto che fosse meglio provare subito con le squadre più importanti. Quando mi hanno presa, ho iniziato a saltellare per casa, perché non me lo aspettavo. Anche se io non ho mai tifato per la Roma.
E poi c'è stata la prima volta al campo di allenamento, dove la squadra di bambini di cui facevo parte aveva anche dei maschi, proprio come quando giocavo nel mio quartiere. Non dimenticherò mai quella ragazzina bionda seduta sul prato sintetico, quasi annoiata dai convenevoli dell'allenatore che ci dava il benvenuto. Quella ragazzina che, una volta preso il pallone, non ha esitato a saltare tutti gli altri come birilli. Quando me la sono trovata di fronte, ho capito subito che stava per fare una ruleta e le ho tolto la palla dai piedi, pur rischiando di colpirle le gambe. Eravamo senza protezione, se l'avessi presa le avrei fatto molto male.
"Sei la prima che riesce a fermarmi" aveva detto alla fine del primissimo allenamento.
Da quel momento, Prisca è sempre stata al mio fianco. Così come siamo adesso, anche se non siamo le sole, qui, con ottantamila persone sugli spalti e le delegazioni intere di Italia e Nuova Zelanda, più gli arbitri.
Forse noi siamo ancora le due ragazzine che a sei anni volevano giocare con i maschi, per far vedere di essere brave almeno quanto loro. Anzi, di più.
L'Italia chiamò, sì!
Il grido finale di tutto lo stadio mi riscuote. Aspettiamo che le neozelandesi vengano a stringerci la mano. Guardo i loro volti tesi, concentrati, e penso che loro non si aspettavano affatto di vedermi qui, e si staranno chiedendo se con me invece di Anastasia sarà più facile contrastare il nostro centrocampo.
Se, cor cavolo.
Dovranno passare sul mio cadavere.
Scambio un'occhiata con Marisa Cicero. La regista stringe l'elastico dei capelli, concentrata.
«Daje regà.»
Non è un urlo, né un altro grido di incitamento, ma la voce di Prisca così calma mi fa pensare solo a una cosa: ha già studiato le avversarie e ha scorto nei loro gesti del prepartita qualcosa che le infonde fiducia. Si guarda intorno, aggiustando il cerchietto nero che usa durante le partite, poi mi si avvicina. «Io vado verso fuori, tu buttati dentro, perché poi Alessia rientra per coprirti.»
Annuisco, mentre Elena va a prendere posto in mezzo alla difesa.
«Palla a noi» riesco a distinguere dal suo labiale, mentre parla a Carlotta.
Guardo l'arbitro dare la palla a Prisca e Marta, mentre Federica si tiene più larga sull'esterno, verso destra. Ho il cuore in gola. Non dipende da come sono messe le ragazze intorno a me, né dalle maglie bianche di fronte a noi, che ci stanno per venire incontro.
L'arbitro ha il fischietto in bocca. Una volta dato il via, non si torna indietro, l'Olimpiade inizia.
Butto fuori un profondo respiro.
Prisca tocca il primo pallone della partita, e lo fa verso Marisa. Avanzo di qualche passo, studiando il piazzamento delle ragazze e quello delle neozelandesi. La Mari mi passa la palla e io scarico su Alessia senza neanche guardare: ho sentito il suono della sua corsa; so che è già lì, pronta a ricevere il passaggio.
Alessia galoppa verso la bandierina, Prisca si avvicina a lei, e io capisco di dovermi inserire in area.
La Ryan, la centrocampista con cui avrò a che fare per tutta la partita, mi insegue coprendo il buco che le sue compagne di squadra avevano lasciato scoperto, ma il filtrante di Alessia passa lo stesso.
«Sere!»
Non ci penso un secondo, perché la voce di Marta mi dà un segnale chiaro, che afferro al volo: lascio scorrere la palla tra le mie gambe.
Mi volto, e vedo la centravanti tirare, ma colpire le gambe della Cox, il difensore che la marcava. La palla finisce tra i piedi delle neozelandesi e allora solo un pensiero mi martella nella testa: correre indietro e andare a difendere.
Hannah Davies sta avanzando, mentre le sue compagne di squadra la seguono e noi cerchiamo di disporci in modo ordinato sul campo.
«Giada, lì! Spine! Spine, torna indietro!»
Le indicazioni della zia, ora per Federica Spinetti, mi rimbombano nella testa, anche se io sono lontana dalle panchine. Tra tutte le voci che risuonano nell'Olimpico, solo alla sua è permesso arrivare alle mie orecchie; anche se lei fosse negli spogliatoi e io nella fila più alta di spalti.
Corro a marcare stretta la Ryan, che dice qualcosa. Forse sta chiamando il passaggio alla compagna di squadra, ma non ne ho idea: mi sembra che parlino in codice.
Ma la Davies scambia con Christina Lewis, e la triangolazione la porta proprio davanti a Giulia.
Rimango ferma, pregando tutti i santi del paradiso. Il nostro portiere rimane in piedi e quando l'attaccante tira di piatto, per metterla nell'angolino basso, lei si allunga per prendere il pallone che però le sfugge.
Ci pensa Alessia a recuperare e a mettere in calcio d'angolo. Non posso neanche tirare un sospiro di sollievo, perché una delle neozelandesi corre subito per battere.
Noi ci disponiamo in due file parallele, per marcare a zona, anche se ho paura che per loro potrebbe essere facile saltarci. Guardo la Ryan, ma con un occhio alla palla che la Harris ferma sulla lunetta. Fisso la sfera come ipnotizzata, la vedo partire e involarsi. Mi scavalca, altissima.
Mi volto e vedo che Giada l'ha presa di testa, indirizzandola in avanti verso Prisca. Non ho il tempo di scattare: la palla finisce tra i piedi della Ryan, che tira verso la porta.
Sento delle esultanze ovattate, ma non sono delle nostre avversarie: è il pubblico italiano sugli spalti.
Giulia è a terra accartocciata, stringendo il pallone tra le mani e il petto, come un fagotto da nascondere.
Butto fuori un sospiro, mentre vedo Elena avvicinarsi al portiere e darle un buffetto sulla spalla.
Pochi secondi dopo la palla è tra i piedi di Marisa, che la lancia sull'esterno a Federica. Avanzo di qualche passo, scorgendo Alessia già pronta al raddoppio, anche se ora stanno giocando dall'altra parte del campo. Prisca si avvicina alla giocatrice della Fiorentina, come indicandole di puntare Liza Fisher, che le sta di fronte.
Ma io so, come sa anche Federica Spinetti, che quel segnale sta per un'altra cosa.
Fa una finta, come per nascondere il pallone alla neozelandese, con la Lewis che la sta raddoppiando, ma poi lo passa di tacco a Prisca, un metro alle sue spalle.
Il dieci avanza di un metro, poi tira a giro, verso il secondo palo.
Le ho visto fare gol così una marea di volte: il tempo sembra fermarsi mentre la palla sorvola le difese avversarie che, pur provando a prendere il pallone di testa, non ci riescono. In genere finisce sotto al sette, senza che il portiere avversario possa fare nulla.
Infatti vedo la Jones osservare imbambolata la traiettoria. Neanche ci prova, a saltare in alto: sa che sarebbe inutile.
Ma la palla prende in pieno la traversa e il suono che fa sembra colpirmi al petto. Mi scuote, come se avessi ricevuto una pallonata allo stomaco che mi impedisce di respirare.
Sento gli spettatori trattenere il fiato, come se già fossero pronti a esultare. Potrei quasi vederli portarsi le mani alla testa, infilando le dita tra i capelli.
Qualche voce indistinta arriva alle mie orecchie, ma subito dopo parte il coro "Italia Italia!". Capiscono anche loro che possiamo mettere in difficoltà le fortissime neozelandesi, e che ce la stiamo giocando alla pari.
Guardo Prisca, che invece sta scrutando il terreno, come se ci fosse una zolla non al suo posto. Non so come interpretarlo: non è da lei cercare delle scuse; ma forse sta solo raccogliendo la concentrazione necessaria per tirare meglio la prossima volta.
E meglio significa una cosa sola.
*Angolino autrice*
Questo è il mio primissimo esperimento con uno sport di squadra e non sono mai sicura di come me la sia cavata! È stato semplice seguire le azioni o sono stata troppo tecnica?
Ps. Se il capitolo vi è piaciuto, supportatemi con una stellina🌟
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