1. Gioco o non gioco?

Prisca sorseggia nervosamente il suo cappuccino scuro, seduta proprio di fronte a me. A quanto pare ci siamo entrambe svegliate presto, ed entrambe abbiamo preferito venire a fare colazione, piuttosto che rimanere in camera a rigirarci nel letto. O magari lei si è rigirata nel letto per qualche ora, prima che il sole facesse capolino. Per sfortuna, stavolta non siamo capitate in stanza insieme. È stata la CT a stabilire chi avrebbe dormito con chi, e noi ci siamo dovute adeguare per forza di cose. Non mi lamento: Bice è una compagna di camera discreta. E con "discreta" intendo che non c'è mai: sono più le notti che passa nella stanza di non-so-chi che nella nostra.

«Mi sento pronta» dice Prisca a un tratto.

«Per la partita?» le chiedo di rimando, imburrando una fetta di pane.

«Per tutto. Sento che potrei spaccare il mondo, anche se non sono nemmeno le sette di mattina.»

«Ecco, questo magari è un problema. Cerca di rimanere sveglia fino a questa sera.»

«Per te è facile, tu non giochi!»

«Grazie, eh.»

Addento la fetta di pane burro e marmellata, guardando il vuoto. Non c'era affatto bisogno che lei rimarcasse che stasera sarò in panchina e non basta il sapore dolce delle more a farmi sentire meglio. Se non gioco, significa che non ho fatto abbastanza in allenamento. E odio solo il pensiero di non aver dato il massimo; ciò che mi fa stare ancora peggio è la consapevolezza che io più di così non potevo fare.

Prisca poggia il gomito sul tavolo e incastona la testa fra le dita, con i capelli biondi che riflettono la luce chiara che entra dalle vetrate intorno a noi. Alza lo sguardo verso di me, i suoi occhi azzurrini brillano, anche se è dispiaciuta. «Scusa, ci

«Scialla, Prì

Scrollo le spalle. Anche se il nostro è sempre stato un rapporto diretto, a volte Prisca non si rende conto quando è che supera il limite. Prima fa il danno e poi si fa perdonare.

«Hai sentito, la zia, no? Con la Nuova Zelanda serve Anastasia, per come giocano loro, visto che la mettono molto sul palleggio...»

«Così mi fai passare per una che non ha tecnica.»

«No, ma tu vai meglio contro le squadre più intense. Ti ricordi la partita contro il Milan? Ecco, lì sei andata alla grandissima...»

«Dovevi proprio tirare fuori il Milan?» sbuffo, contrariata.

Anche se lei parla sempre volentieri di quei novanta minuti, io continuo a sognare quello che è successo dopo il fischio dell'arbitro. I supplementari, in cui eravamo sulle ginocchia, sia noi che loro, e i rigori...

Bevo il mio cappuccino, più simile a un latte macchiato, cercando di allontanare il ricordo. Ma non ci riesco.

Il vento che mi soffia sul viso, il sudore che mi appiccica la maglia alla pelle... e lo scivolone al momento del mio rigore, quello decisivo. La corsa delle milaniste in segno di esultanza, la Coppa Italia sollevata grazie a un mio errore... Se avessi piantato bene il piede per terra, se fossi rimasta in equilibrio... forse avremmo potuto vincere noi. È stata solo colpa mia.

«Hai fatto tu il gol del pareggio, giusto?» insiste Prisca. «Tu, eh! Non io, non Nicoletta, non Giorgia... tu. Tu, Seré. D'accordo, non sei un'attaccante e non ti interessa neanche esserlo, ma quel gol l'hai fatto te. Te, t'aricordo

Scrollo le spalle. Può dire quello che vuole, non cambia il risultato finale di quella partita. Milan sei Roma cinque ai calci di rigore. Ma lei non va oltre il novantesimo, mentre io mi rifiuto di ricordare cosa è successo prima dei supplementari.

E mi fa incazzare, perché Prisca è competitiva tanto quanto me e mi secca che non capisca il fatto che io odio perdere. Che fosse solo aver perso una partita, poi! La sconfitta, in questo caso, pesa tutta su di me. Anzi, sulla mia gamba che ha ceduto al momento sbagliato.

Per fortuna intravedo da lontano Marta Colachini, la centravanti della Juve, che si guarda intorno spaesata, come se avesse bisogno di individuare qualcuno. Eppure, a quest'ora, siamo davvero in pochi. Agito la mano per attirarla qui, almeno Prisca la smetterà di fare qualsiasi cosa per tirarmi su di morale. Non voglio essere confortata, voglio solo che arrivino le nove e mezza per essere al campo di Tor di Quinto per la rifinitura, prima della partita di stasera. E poco mi importa essere in panchina, ora come ora. Voglio far vedere alla zia che, nonostante tutto, io ci sono e do sempre il massimo.

«Buongiorno» biascica lei, con la voce mezza impastata per il sonno, dopo essersi seduta al mio fianco.

«'Giorno» le rispondo con la bocca piena.

«Ho incontrato un tipo...» inizia a dire Marta, assonnata. Una ciocca castana le sfugge dal cerchietto e lei se la porta dietro l'orecchio con uno sbuffo. Ma visto che i capelli continuano ad andare per i fatti loro, si sfila il cerchietto e scuote la testa all'indietro.

Prisca si stiracchia, mostrando il tatuaggio sul braccio con quel Fino alla fine che indica chiaramente il suo tifo calcistico. Anche se lei dice a tutti che riguarda le persone a cui tiene, ma a me non può nascondere la verità. «Insomma, hai incontrato uno. E...?»

«Mi ha chiesto se il discorso di Fiumani è venerdì o giovedì» ride Marta.

«Annamo bbene» commenta Prisca. «Sul pezzo, questo qui.»

Certo che non ricordarsi quando il presidente del Coni parlerà a tutti gli atleti non è normale...

La nuova arrivata non aggiunge nulla, si limita a una scrollata di spalle, prima di sorseggiare la tazza con il tè caldo. «No, raga, ho sbagliato... ho preso quello alla pesca!»

«Vuoi fare cambio?» chiede un ragazzo dal tavolo vicino. Non era seduto, dev'essere appena arrivato.

«Oh, ciao» lo saluta Marta sorridendo. «Hai quello al limone?»

Con la coda dell'occhio mi sembra di vederla arrossire... possibile?

«Sì, sì, ma bevo entrambi» risponde lui. «Così ti eviti di tornare indietro mentre stai ancora dormendo!»

Prisca scoppia a ridere. Che stronza, di certo ha notato l'imbarazzo di Marta! «Ti prego, siediti con noi» lo invita. Se la conosco bene, non esiterà a combinarne una delle sue.

«Con piacere!» risponde il tipo, con un altro sorriso. Si sistema il ciuffo biondiccio con una mano, prima di afferrare il vassoio e di posarlo sul nostro tavolo. Prende posto al fianco della scema, proprio di fronte a Marta, con cui subito scambia la tazza di tè.

Lo scruto con attenzione, cercando di ricordare se l'ho visto altrove, o se questa è la prima volta che riesco a parlare con lui. Uno che non supera il metro e settanta me lo ricorderei... Scorro la lista mentale di tutti quelli con cui sono capitata al tavolo durante i giorni precedenti all'Olimpiade e mi rispondo che no, questo qui non l'ho ancora conosciuto. Rivolge un bel sorriso anche a me e Prisca e gli rispondo con un cenno del capo, addentando un altro morso di pane. Sia santificato colui che ha inventato la marmellata di more.

Il tipo guarda Marta, quasi scrutandola assorto con degli occhioni dolci, ma capisco subito che si tratta di una sua caratteristica fisica e non di un'infatuazione per l'attaccante. Lo spio di sottecchi, cercando di fare mente locale e ricordare chi diavolo sia. Escluderei innanzitutto gli sport in cui bisogna essere prestanti fisicamente, per il semplice motivo che questo qui non è grande e grosso; neanche il libero della pallavolo, perché so perfettamente chi è, con tutte le partite che ho visto. Conoscendo Prisca, prima o poi gli farà il terzo grado durante la colazione: devo solo aspettare per scoprirlo.

Non so chi sia stato il genio che ha suggerito che gli atleti dei vari sport dovessero avere un contatto diretto, magari mischiandosi assieme in occasioni conviviali come questa, ma devo dire che l'idea non è male: invece di seguirci soltanto sui social o di vederci gareggiare da lontano, abbiamo modo più diretto di confrontarci. Ne parlavo giusto ieri a cena con una velista...

«Allora, vediamo se mi ricordo...» dice il ragazzo. «Con te ci siamo visti poco fa.»

Marta annuisce, con un altro sorriso. Ah, quindi era lui che non si ricordava quando è il discorso di Fiumani?

«E voi due... allora, ieri sera avete giocato insieme ai biliardini contro due ragazzi dell'under ventitré. E li avete anche stracciati. Direi calcio, sembravate molto in confidenza.»

«Vero, li abbiamo battuti tanto a poco» concorda Prisca soddisfatta. Ci tiene sempre a vincere, anche se è solo al biliardino.

Io mi limito ad annuire, con un sorriso nervoso. Si vedeva che eravamo in confidenza? Sono settimane che io e Lorenzo cerchiamo di non dare nell'occhio e un perfetto sconosciuto si è accorto che c'è... confidenza?

«Comunque, tu chi saresti?» gli chiede Prisca, ridacchiando. Si trova a suo agio con tutti, ma come fa? Le basta che si trovi un modo per ridere e farebbe amicizia con chiunque!

«Andrea Comini» risponde prontamente quello. «Tuffi.»

«Ah, sei tu!» esclama la mia compagna di squadra. «Ti seguo anche su Instagram, pensa te!»

«È il sonno!» scherza quell'Andrea.

Continuano a chiacchierare, mentre la mia attenzione è catturata da quanto accade intorno a noi. Sulle pareti campeggiano le immagini di grandi sportivi sui podi olimpici, mentre noi siamo tutti in attesa di fare del nostro meglio; e magari di emularli. La mensa si sta iniziando a riempire e devo allungare il collo in cerca di Lorenzo. Non so come, ma devo parlargli, devo assolutamente dirgli che forse ci stiamo esponendo troppo. Non posso mandargli un messaggio, correrei il rischio che lo veda qualcun altro: ma parlargli a voce è anche troppo rischioso... che diavolo dovrei fare?

Purtroppo, almeno per il momento, ho le mani legate.

Guardo Prisca ridere e scherzare, insieme a Marta e ad Andrea. Almeno lei non sente più la tensione per la partita di stasera.

***

Siamo nel tunnel che porta al campo dello Stadio Olimpico. Sognavo di giocarci da quando ne ho memoria; e anche se sto solo per fare il riscaldamento con le panchinare, l'emozione è comunque forte.

Guardo Prisca, che cerca di non ascoltare il casino che viene da fuori: le chiacchiere degli spalti, amplificate, rimbombano fin qui.

«Daje, ragazze!» urla Elena, il nostro capitano, battendo le mani.

Noialtre rispondiamo con qualche altro grido di carica. Le vedo, hanno gli occhi di chi sta anche per arare il campo, pur di fare una bella partita. Le neozelandesi sono toste, ma noi abbiamo il cuore da mettere su quel rettangolo verde. Noi abbiamo il pubblico, i parenti sugli spalti che hanno comprato i biglietti da mesi in attesa di questa partita, gli amici che hanno fatto di tutto per esserci... E siamo pronte: ci siamo preparate per settimane per essere qui tutte insieme, abbiamo fatto gruppo già nel cammino che ci ha portate prima ai Mondiali e poi agli Europei.

E, ora, le Olimpiadi in casa.

Siamo in disordine, mischiate tra panchinare e titolari. Tutte insieme per farci forza, per caricarci per quello che molto probabilmente è l'evento più importante della nostra carriera sportiva. Più di una finale di Champions League, più del Mondiale che abbiamo giocato da outsider. Più di tutto. Le gambe, ora, non possono tremare.

«Dai, andiamo!» ci incita l'allenatrice della nazionale, che noi giocatrici chiamiamo zia quando parliamo tra di noi. Non ho idea di chi le abbia dato questo soprannome, ma è perfetto per lei.

E, allora, noi usciamo tutte insieme, con un boato ad accoglierci. Lo stadio non è strapieno, ma penso che qualcuno stia ancora facendo la fila fuori dai tornelli: Prisca ieri mi ha mandato un articolo di giornale che dava il tutto esaurito. Non ci credevo nemmeno quando lo leggevo, perché fare il pienone qui è un sogno, a cui di sicuro ha contribuito la magia delle Olimpiadi e l'entusiasmo di tante tifose che sono dalla nostra parte.

So che i miei genitori e mio fratello ci sono, che hanno preso i biglietti in tribuna, vicini al campo, insieme non solo alla famiglia di Prisca ma anche a quelle delle altre, perché è quello che hanno fatto nelle altre grandi partite della nazionale. Figuriamoci se si perdono l'Olimpiade in casa!

Mi guardo intorno, spaesata. L'azzurro campeggia sugli spalti, con il tricolore che sventola ovunque. Ero già stata qui sul campo, ma solo per vedere la Roma maschile... Ma mai per giocare. Mai con il pensiero di ottantamila persone che potrebbero vedere me, se dovessi entrare nel secondo tempo.

Faccio qualche esercizio di riscaldamento in coppia con Simona, l'attaccante dai capelli blu, prima di andare a sederci in panchina. Stiamo ancora camminando sulla pista di atletica che circonda il campo, quando lei vede i genitori nei posti più in basso della tribuna e li saluta con un cenno della mano. Ci avviciniamo insieme, anche se io in realtà sto cercando di capire se i miei familiari sono già qui.

Non riusciamo ad avvicinarci a loro neanche per ricevere il solito incoraggiamento che i parenti riservano alle panchinare nel caso in cui dovessero entrare. Alice, la più piccola del gruppo azzurro, salta in piedi con i capelli neri che, raccolti in una coda ordinata, oscillano a ogni suo movimento. Strizza gli occhi per guardare in mezzo al campo, e poi sputa fuori un'imprecazione.

«Ma che cazzo!»

«Che è successo?» le chiede Simona.

In risposta, Alice indica con il mento il prato verde alle nostre spalle e noi ci voltiamo.
Una delle ragazze a terra, e qualcuno dello staff medico sta valutando le sue condizioni. La mia visuale è coperta e non riesco a capire di chi si tratta.

«Ci mancava solo questa... Ma che sfiga!» commento.

«Villa, sei pronta?»

La voce della zia mi riscuote dai pensieri, peggio di una doccia fredda dopo un allenamento sotto il sole di agosto. Mi sta guardando con gli occhi grigi che mi stanno scannerizzando, come se capisse che ora non riesco a spiccicare parola e che le serviranno altri segnali per capire se sono pronta o meno.

«Dai, vai con le altre» mi incoraggia, con un cenno del capo verso le mie compagne di squadra. «Anastasia non ce la fa.»

«Mi devo riscaldare?»

La coach annuisce e mi stringe a sé proprio come, appunto, farebbe una zia. «Mi raccomando, loro giocano con la linea di difesa alta, quindi prova a infilarti seguendo i movimenti di Prisca e Marta.»

«Ok» dico, ma non so che senso abbia. Ancora non ho realizzato che sta succedendo.

«Fai il culo a tutte!» urla Simona alle mie spalle, strappandomi un sorriso.

Non rispondo, ma corro dalle altre, che mi accolgono come se giocare con me o Anastasia non facesse alcuna differenza e che noi siamo qui per mostrare a tutti di che pasta siamo fatte e che non importa chi parte titolare.

«Dajje, Villaaaaa!» grida infatti Prisca, non appena mi avvicino al gruppo delle titolari, ancora alle prese con il riscaldamento senza palla. Batte le mani un paio di volte, in modo che possa scorgere la linea scura del suo tatuaggio. Fino alla fine.

«Dai, Sere!»

«Forza, Sere!»

Anche le altre mi incoraggiano, con le voci che si fondono tra loro. Sorrido appena, imbambolata, prima di fare mente locale. Ora devo solo ascoltare le indicazioni di Alessio, il collaboratore della zia che si occupa del nostro riscaldamento.

Sono pronta.

*Angolino autrice*
Finalmente questa storia approda anche su wattpad... Non vi nascondo che sono un po' agitata, perché tengo molto anche a questa storia e non so se sarà in grado di catturare quanto hanno fatto Fiamma&co., ma spero che possa piacervi!

Ricordatevi di lasciare una stellina se il capitolo vi è piaciuto!

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