Rimpianto Di Un Mondo Passato

"Testo scritto per il contest 2021 organizzato da dreamer_Gio"
Tema: America.

Vi era un tempo in cui adoravo la primavera, la mia stagione prediletta; dove l'alba pareva il risveglio da un lungo sonno ristoratore.

Gli uccellini volavano tra i forti e rigogliosi rami, con l'accenno delle prime foglioline, alla ricerca del posto ideale per la costruzione del nido e, in seguito, diffondevano il loro canto affidandolo al vento affinché giungesse alle orecchie di una possibile compagna.

I fiori emergevano, timidi e imperterriti, dal terreno, aprendo i propri petali delicati al mondo, lasciandosi esplorare dalle api e altri insetti.

L'erba verde smeraldina ondeggiava insieme alla brezza in una danza sempre nuova e speciale, in una perfetta sincronia.

Ma, ciò che più amavo di quel periodo: era l'arrivo delle tribù nomadi, le quali stanziavano nella prateria non molto distante dalla mia dimora, posta accanto a un meraviglioso fiume dalle acque cristalline e, da lì, la mia vista spaziava oltre a esso, oltre la prateria fino ai monti a Ovest.

Amavo quel periodo che mi permetteva di far nuove conoscenze, mi deliziavo con le risate cristalline dei bambini seguiti dai pigri e ripetuti avvertimenti delle madri, non molto distanti intente a lavare i panni.
Oh, quanto erano carini quei piccini sulle gambette ancora instabili, decisi a imitare i più grandi nelle corse e nei tuffi; non poche le cadute seguite da pianti disperati e, subito, le madri arrivavano con un sorriso bonario pronte a verificare i danni e rassicurare il figlio in lacrime.

Benché amassi quel periodo, e tanta la gioia che essa mi portava, vi era sempre una punta di malinconia.

Avrei voluto unirmi ai giochi, correre, saltare, tuffarmi nell'acqua fresca nel tentativo di prendere uno degli abitanti del fiume, lesti e sguscanti. Però, la mia condizione non me lo permetteva, costretta all'immobilità totale dalla nascita; crescevo, sì, ma molto lentamente e in modo differente rispetto ai membri delle tribù.

Per tal ragione ai loro occhi ero invisibile, così, mi limitavo a scacciare il sogno di poter essere al loro fianco, di correre e ridere come una bambina; mi limitavo a bearmi della loro gioia e farla mia, mi inebriavo delle loro risate giocose e tal volta delle piccole scaramucce.

Le tribù rispettavano la mia razza, i miei simili; non esitavamo mai a condividere con i popoli di passaggio i frutti della terra, ed essi non peccavano mai di ingordigia, prendevano solo ciò di cui avevano bisogno e nella quantità necessaria. Lo stesso valeva per la cacciagione, non abbattevano mai i cuccioli o le mamme e, mai, più di quanto avessero bisogno.

Le giornate si susseguivano così per tutta la primavera e l'estate, vedevo le uova degli uccelli schiudersi e i piccoli invocare a gran voce il cibo. I più piccoli della tribù avevano ormai imparato a reggersi con sicurezza sulle gambine, le risate scandivano le mie giornate.

A spezzare quell'amata monotonia fu l'arrivo di altre persone: così bizzarre nei loro strani abiti blu notte con una fila di stelle dorate in verticale al centro del busto, così diversi dai vestiti di cuoio delle tribù. Persino la chioma tenevano nascosta quasi si vergognassero del colore così differente da quello nero corvo dei miei amici, ancora oggi mi chiedo perché non lascessero la brezza scorrere tra la chioma così carina proprio per la diversità.

Persino la pelle aveva una tonalità differente, non era scura come la nostra, ma, nemmeno candida come la neve d'inverno.

Oh! I cavalli! Avvezza a vedere esemplari dal manto pezzato, il vederli dal mantello interamente dorato o leggermente più scuro mi aveva distratta dalla conversazione in atto... Finché grida di odio e rabbia, seguito dal frastuono generato da strani utensili che reggevano con forza tra le mani, mi ridestarono dalla mia contemplazione per aprirmi gli occhi su uno scenario di morte che mai avrei immaginato di vedere.

I vecchi, che in un giorno più afoso del solito, avevano seguito le donne e i bambini al fiume, fronteggiarono i nuovi arrivati per concedere una speranza alle proprie figlie e nipoti.

Nulla poterono contro quegli strani oggetti, simili a piccoli rami privi di corteccia, neri lucidi come ali di corvo baciati dal sole; assordanti nel loro canto di morte.

Li vidi cadere uno dopo l'altro, gli occhi, poco prima ridenti nel veder giocare i piccoli nell'acqua, ora vitrei e vacui su un mondo che mai più vedranno.

La mia menomazione fu la mia salvezza, lasciarono in pace me e la mia razza inoltrandosi nella prateria, non dovetti attendere molto per udire altri versi di morte e, poco tempo più tardi, il fiume trasportò il corpo martoriato di un fanciullo; il sangue, che scorreva dalle ferite, veniva diluito dall'acqua come se essa volesse cancellare quell'atrocità, ma io l'avrei ricordata per sempre... .

Persi la cognizione del tempo, apatica e incredula dello spettacolo a cui avevo assistito, ghermita tra le braccia spinose del dolore e del rimorso. Non avevo potuto far nulla per impedire tale orrore.

Il sole, sembrava indifferente al sangue versato, continuava la sua salita e discesa come se nulla fosse mai accaduto.

Come unica compagnia mi erano rimasti i corpi dei vecchi non distanti dalla riva, lasciati alla mercé delle belve, dei corvi e delle intemperie.

Non so dire con esattezza quanto tempo dopo rividi quei Distruttori, così li chiamavo; non indossavano più abiti simili al cielo notturno, ma non erano nemmeno vestiti di cuoio.

Cavalcavano con destrezza i propri cavalli incitandoli ad andare incontro a una mandria di bufali, che da poco sostavano nella prateria, concedendo alla madri una pausa, per dare alla luce i propri piccoli, prima di riprendere il cammino.

Gli umani erano di tutt'altra idea, da lì non avrebbero potuto solcare nuove praterie.

Riudii quel canto di morte assordante gridato al cielo, seguito da grida di incitamento e giubilo. Compresi subito che non si sarebbero limitati a pochi esemplari, ma nemmeno potei immaginare l'orrore che da lì a breve sarei stata spettatrice.

Tentai di gridare per avvisare i bufali del pericolo imminente, ma la mia lingua è sconosciuta a quelle povere creature. Una dopo l'altra caddero a terra, tutte, nemmeno i cuccioli vennero risparmiati.

Il terreno si tinse di rosso scarlatto e il sole parve affrettare la sua discesa come se non potesse tollerare oltre quella vista, ma, l'astro adora dominare la volta celeste e giocare con le nubi, perciò il mattino seguente fu lì a illuminare l'arrivo di strane creature di legno con nel grembo altri Distruttori, donne e bambini.

Gli uomini si affaccendavano a macellare, le donne conciavano le pelli e sistemavano il cibo, mentre i piccoli, come ogni cucciolo di ogni specie, giocavano felici, ma lo facevano come se tutta quella morte fosse motivo di festa.

Quanto dolore e malinconia, quanta rabbia e odio provai, sentimenti che crebbero quando se ne andarono lasciandosi alla spalle i corpi dei bufali, la maggioranza, intonsi. Perché tanta crudeltà? Non potevano prendere solo ciò che serviva per sfamare la famiglia? Come facevano le tribù, non eccedevano mai, e non uccidevano mai se non per necessità, rispettavano e amavano tutto della natura, dalla fauna alla flora, dall'acqua al cielo.

Quando credetti di aver visto tutto, di non poter provare altro dolore, che nient'altro poteva farmi stare peggio, essi tornarono a dimostrarmi quanto mi sbagliavano e, questa volta, tornarono per noi.

Uccisero i più vecchi e i più saggi per far spazio alle proprie dimore, ci sottrassero la terra per farne pascoli e campi. Più gente arrivava più miei simili perivano, più terra si prendevano e, alla fine, anche il dolce nettare del fiume ci venne strappato per indirizzarlo verso i campi.

Per anni, così tanti da averne perso il conto, ho visto quelle creature proliferare, le loro case farsi più alte, puntare il cielo come a voler appropriarsi del sole e delle stelle.

Smisero di amare la terra ricoprendola con una strana roccia piatta e scura, io, immobile impossibilita a oppormi alla perdita dei miei amici e famigliari: fui circondata.

Non potevo fuggire, il cibo sempre più scarso, l'acqua un miraggio... nemmeno la pioggia autunnale riusciva a dissetarmi, troppo strana, tossica come l'aria che ogni dì diventa più pesante rendendo respirare un'impresa.

Il sole non scalda più, quando si mostra brucia e le stagioni non sono più le stesse: c'è caldo quando dovrebbe esserci freddo, c'è freddo quando dovrebbe esserci caldo.

Sono stanca di queste creature che vagano su una terra che affermano loro e per cui hanno ucciso altri simili, stanca di vederli spargere sangue o di ridurre gente dalla pelle più scura in schiavitù.

Quando credo di aver visto tutto, accade qualcosa che mi fa ricredere.
Costoro sono avidi, bramavano la terra e l'hanno avuta, bramavano il potere e l'hanno avuto, bramavano il "progresso" - anche se non so cosa sia - e l'hanno avuto. Sono esseri avidi con gli occhi puntati costantemente verso ciò che non hanno e, così facendo, non si rendono conto di quel che posseggono ora, non si accorgono che sta lentamente e inesorabilmente scivolando via dalle mani.

Madre Natura è stanca di veder la terra bagnata di sangue o contaminata con strane sostanze che causano la morte di fauna e flora, stanca di vedere il cielo, un tempo limpido e puro, velato costantemente da una patina grigiastra; è arrabbiata, poiché il bel mondo che aveva creato con tanta fatica, i paesaggi e le creature che li popolavano, li stanno distruggendo.

Un rumore famigliare che sa di morte mi ridesta dal passato: abbasso lo sguardo e lo vedo, mi osserva indifferente, con sempre la chioma protetta, con quella lama rotante stretta tra le mani.

Dicono da giorni che sono pericolosa.

Sì, ho perduto la mia fanciullezza, ma voi mi avete impedito di crescere forte e sana, mi avete strappato il cibo, l'acqua, costringendomi a invecchiare debole e fragile, rendendomi vulnerabile e facile preda di funghi parassiti, tarli e insetti dannosi, mi avete strappato la speranza di poter raggiungere la mia età massima.

Ora, nella mia immobilità, sono un pericolo, perché per la prima volta posso "muovermi".

Da un momento o l'altro posso cadere su di voi o sulle vostre preziose case. I miei arti rigidi, immobili e forti, che per qualche tempo ho odiato, non mi assicurano più la stabilità di un tempo e rimpiango di averli disprezzati anche solo per un secondo, ma, giunti a questo punto, con ciò che ho veduto, perché vivere ancora in questa terra? Che io chiamo casa, ma loro: America, la terra delle opportunità.

N. Parole : 1738

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