I

Fu a settembre che affittai quell'appartamento fatiscente, giù a Torino, assieme a tre miei amici.

Il cielo cominciava a tingersi del consueto lividore tipico d'inizio autunno e le strade bagnate sospiravano l'olezzo umido dell'asfalto e delle foglie marce che lo tappezzavano come lembi variopinti di colori aranciati.

Non amavo Torino: troppe persone, troppo rumore e troppe immagini finivano per mescolarmisi nella mente aggrovigliandosi come i fasci di cavi di uno dei tanti computer dell'aula informatica a scuola. Era una città affollata, sporca, piena... a tal punto ricolma di pubblicità, manifesti e voci da svuotare chiunque vi abitasse, da provarlo e privarlo interiormente fino a prosciugargli irrimediabilmente qualsiasi speranza o desiderio fortuitamente nati nella sua mente a scapito del grigiore intellettuale della città. Una città così ti beveva l'anima come si fa con un cocktail, diceva scherzando Renzo, uno dei miei compagni d'appartamento. Ti lasciava vuoto, senza scopo né speranze per riempirti col suo sudiciume.

Ricordo ancora quando incontrai Renzo, anni fa, rientrando a casa da scuola.
Frequentavo la terza media in una scuola sul litorale ligure e, mentre stavo per varcare la soglia del cancello con le spalle appesantite dai libri allora tanto odiati, avevo sentito una voce chiamarmi alle spalle.
Il suo motorino non avrei saputo ripararlo, gli dissi; cercando una scusa per rientrare a casa e tagliare ogni possibile ponte di comunicazione con quello sconosciuto tanto più grosso di me, che guidava la moto. All'epoca avrà avuto una quindicina d'anni, contro i miei quasi quattordici, ma a quell'età un anno marcava una differenza spaventosa ai miei occhi, un limite tanto alto quanto insormontabile. Poi lui, era un estraneo.
Non ricordo ancora quanto tempo passò affinché mi convincesse di seguirlo al più vicino benzinaio, a due kilometri da casa mia. Quella sera tornai tardi a casa e dovetti subirmi i rimproveri di mia madre, ma mi ero fatto un amico, io che prima ero sempre stato tanto - a veduta della maggioranza - solo.

Il destino ha strade tutte sue, vie che solo lui conosce e intreccia a suo piacimento, come uno di quei cesti di vimini tanto complicati che intrecciavano giù al paese le vecchie attorno al campanile della chiesetta.
Chissà come, il destino mi aveva portato fino a qui, a Torino. Il 'chissà come' era da attribuirsi all'università che avevo scelto di frequentare; scrivere era ciò che io sapevo fare, e forse lo si nota dai quaderni che scrivo ora, a distanza di tanti anni. Non consideravo la scrittura una mia passione, o una sorta di scelta di vita. Piuttosto scrivere era per me un processo inevitabile, la strada a senso unico che la mia vita aveva imboccato; non era né un lavoro né un impegno, di fatto io scrivevo per vivere così come un passero trilla perché gli viene naturale: bene o male che fosse quella era un'altra storia, ma io continuavo a scrivere e così avevo cominciato a farmi un'idea su dove e cosa studiare. Lettere sarebbe stata l'università giusta per me, mi dissi.

Renzo non l'avevo mai conosciuto davvero, mi dicevo spesso. Quelle passeggiate lungo il litorale, le chiacchierate con le sue amiche, i baci rubati e le esperienze condivise... Nulla mi avevano svelato veramente di lui gli anni passati assieme, le superiori e le innumerevoli avventure che due giovani come noi potevamo vivere assieme. Eppure Renzo avrebbe segnato, con una sola singola e folle sua azione il resto della mia vita.

Che dire amici, volete che prosegua la scrittura? Come detto, queste righe sono frutto di un ispirazione non meditata e non scelta e, anche se mi impegnassi, non potrei garantirvi la buona continuazione della storia.
Ditemi comunque la vostra!

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