XXIV

«Quindi te ne vai? Molli tutto?»

Io non le rispondo, ma Hailey non mi lascia in pace. Dopo un'ora comincia a darmi sui nervi. Vorrei dirle di andare al diavolo, ma non voglio commettere un altro errore e continuo a stare zitto. Le ho detto solo che me ne andavo, senza specificare altro. Non voglio che qualcuno pensi che non ce la faccio più.

«E... lo spettacolo di fine anno?» sbotta. «Avevamo deciso insieme di andarci.»

«Puoi sempre andare con Colin o Bekah, è uguale.»

«No. Non è uguale. Perché te ne vai, è successo qualcosa?» mi domanda lei, girando la testa per fissarmi.

Ruoto gli occhi, palesemente irritato. Le sue domande sono senza filtro e mi annoiano. Non le voglio rispondere perché sono cose mie. Mie e di nessun altro. Henry mi ha mandato a scuola oggi solo per svuotare l'armadietto. Questa mattina ha già inviato una mail alla preside per annunciare il mio trasferimento. È già tutto pronto.

«Parlami!» strilla, dandomi uno schiaffo in viso.

Mi allontano, ma non le parlo. Ficco un libro di non so quale materia dentro lo zaino. Molte cose nel mio armadietto le butterò.

Hailey mi insulta e se ne va, senza degnarmi più di un'altra parola. La guardo andarsene via, sbattendo le sue scarpette rosse a terra con furia. Non si guarda indietro.

Sbuffo. Alcuni mi guardano, ma non mi parlano. Logan non si fa vivo. Forse non c'è, ma ne dubito: Logan è venuto a scuola anche quando, durante un nostro litigio, gli ho tirato un libro in testa. Mi sta evitando.

Prendo dal mio armadietto la foto di me e Logan al parco, con le facce buffe e il gelato mezzo sciolto in mano. Non saremo mai più felici così. La strappo.

«Quindi quando Logan mi ha detto che era finita intendeva in quel senso.»

Non voglio parlare con Nick. Dice cose troppo ovvie e non voglio più assecondarlo.

«Mi stai ascoltando?» esclama.

Lui mi afferra una spalla e mi fa voltare. Gli tiro un pugno e lo insulto, dicendogli di lasciarmi stare. Lui mi guarda basito. Gli do una spinta. Ancora niente. Che ha da guardare? Mi irrita.

«È finita, Nick. È solo finito tutto» ringhio.

«E Logan?»

«Cosa ti ha detto lui?»

«Che è finita. Credevo intendesse altro, ma forse intendeva veramente tra voi due. È andata male dai suoi?»

Scuoto la testa. «È andata male con mio fratello.»

«Glielo hai detto?»

«No, ci ha scoperto. È stato peggio.»

Lui fatica a parlare. «E per questo te ne vai?»

Mi mordo con forza un labbro, mettendomi lo zaino sulle spalle. «Sì... No. Non lo so. Anche se voglio restare, comunque non potrei. È Henry che decide e non posso andare via di casa e basta. È convinto che lasciare la Formey mi farà bene e non lo biasimo. Per lui sono un caso da curare.»

Alza un sopracciglio. «Perché?»

Non so cosa dirgli. Nemmeno io lo so. Faccio spallucce. Mi volto e vado via.

Il martedì successivo Henry torna a casa con una "bella" notizia: ha trovato un buon appartamento in un'altra zona della città, più a sud, e mi ha mostrato un paio di foto. Ho subito pensato a un polizesco della TV e se ci avessero ucciso qualcuno, lì dentro, ma non ho detto niente. Il prezzo è ragionevole, ma la casa non mi piace. Ci saranno presto nuovi cambiamenti.

Lo stesso giorno in cui Henry torna a casa portando il contratto d'affitto e imballato degli scatoloni, comincia a piovere a dirotto, tanto che ho da credere che qualcuno abbia per errore scaricato un enorme barile pieno d'acqua sulla città. A tratti piove così forte che non riesco a vedere l'edificio di fronte casa.

Di notte cominciano gli incubi. Il peggiore è quello dove Logan non sa chi sono.

Mi sveglio quasi sempre urlando. Poi piango. Henry corre da me e mi abbraccia.

Mi dimenticheranno tutti. Io lì non sarò mai esistito. Hailey smetterà di chiedermi spiegazioni. Colin smetterà i suoi continui messaggi e Nick i suoi commenti. Mi rendo conto che non voglio.

Il giorno dopo siamo già pronti a partire. Molte delle nostre vecchie cose le abbiamo semplicemente gettate via, come vecchie riviste o quadri ingombranti, tant'è che è bastato un solo camion per il trasloco, tralasciando la macchina di mio fratello piena. Andiamo alla nostra nuova casa. Mi fa più schifo di quella prima. Mi sforzo di mentire, ma non ci riesco e dico la verità. Prendo poi le mie cose le porto nell'unica camera disponibile per me. È piccola. Sento già l'ansia crescere.

Dico che vado a prendermi una boccata d'aria, ma prendo come me, di nascosto, l'arco di Logan, infilandolo dentro una grossa busta della spazzatura. Sono costretto a prendere due autobus prima di potermi avvicinare abbastanza all'appartamento di Logan e so che, dopo la fermata, dovrò camminare per quasi venti minuti prima di arrivarci. Piove. Non ho l'ombrello.

Poso l'arco e le frecce accanto alla porta di Logan e scrivo velocemente un biglietto.

Mi tolgo la piastrina. Era la prova che Logan mi amava e che gli appartenevo, ma ora non ha più senso tenerla. Per un secondo medito sul gettarla nel bidone, ma ci ripenso un attimo dopo. Non potrei farlo. Guardo la L incisa sul metallo. Ficco in tasca la piastrina, suono il campanello e vado via.

Logan apre la porta, guardandosi intorno. Forse stava dormendo, perché si stropiccia gli occhi e sbadiglia. Si guarda intorno. Fa per chiudere la porta, trova le sue cose per terra e comincia a guardarsi intorno furiosamente. Non trova nessuno. Abbassa le spalle. Prende il bigliettino infilato con cura nel fodero dell'arco e lo legge.

"Scusa se ti ho fatto stare male per tutto questo tempo, Logan.

Scusa per aver sbagliato e scusa perché so che una parte di me ancora ti ama,

ma adesso è finita davvero. Addio. R"

Logan legge quelle piccole righe e si passa una mano tra i capelli. Eleanore va da lui e legge anche lei quel pezzo di carta mezzo bagnato. Fa freddo, piove, ma Logan corre sotto l'acquazzone per cercarmi. Io sto dietro ad un cassonetto, tra la puzza e l'umido ad insultarmi. Lo vedo andare via di nuovo da me. Nella direzione sbagliata.

Il primo aggettivo che mi viene in mente per descrivere la Norbert High School é "normale". Non vedo armadietti colorati, quadri o varie altre cose che mi fanno presumere che questa scuola mi piacerà. Anche gli studenti sono "normali". So che nessuno mi verrà a salutare o vorrà fare amicizia come ha fatto Hailey il mio primo giorno, quando ero solo.

La segretaria mi da gli orari delle mie nuove lezioni e mi dice di fare in fretta, perché anche se vengo da una scuola privata questo liceo non è certo da meno e altre stupidaggini simili.

Penso che andrò a suicidarmi.

Marino e sto da solo il primo giorno di scuola. Non so che fare. Logan fumava quando era stressato. Una volta l'ho visto fumarsi venti sigarette in un giorno perché era torchiato da estenuanti esami e partite nello stesso periodo. Mi diceva che si rilassava, così facendo. Non gli ho mai creduto.

Provando, dal mio primo giorno di scuola a ora, ho cominciato a fumare un pacchetto al giorno.

Il giorno dopo, ancora, faccio una cosa stupida: mi tingo veramente i capelli di blu. Non so perché l'ho fatto, sinceramente, ma appena ho trovato una mia vecchia foto di halloween con i capelli azzurri mi è salita un'improvvisa voglia di averceli di quel colore. Così ho preso gli ultimi soldi che mi rimanevano e ci ho pagato la tinta.

Henry appena mi ha visto tornare a casa in queste condizioni ha dato letteralmente di matto. Ha provato a mandar via la tinta, credendo fosse finta, con l'acqua, ma è permanente e io ne sono fiero. Quando gliel'ho detto si è arrabbiato ancora di più. Dato che in questo momento non può alterarsi più di tanto, si è dovuto calmare. Mi ha detto che io non sono così, che lui non si merita di essere ferito in questo modo e che è colpa mia se mi faccio trascinare.

Il punto è questo: non mi ha trascinato nessuno a fare una stupidaggine simile. È a me stesso che andava di farlo e l'ho fatto, e basta. Io non ho più amici. Non posso essere "trascinato". Che sciocchezza.

A me questi capelli azzurri piacciono. Mi sento me stesso.

Il giorno dopo arriva una chiamata da parte della mia nuova preside della scuola, informando mio fratello che non mi sono fatto vivo il giorno prima e nemmeno il secondo. Attendeva mie notizie. Questo ha costretto Henry ad accompagnarmi di persona fin dentro la scuola, ordinandomi di stare qui. Ha consegnato di persona i moduli per il trasferimento e per le assenze, scusandosi al posto mio.

«Vai in classe ora, a casa ne riparliamo» mi dice. Non mi muovo. «Senti, stammi bene a sentire, questo comportamento non ti aiuterà di certo, mi hai capito? Non torneremo in quell'appartamento, non tornerai alla Formey, quindi mettiti l'anima in pace e prova a finire l'anno decentemente, questa volta, senza alti e bassi.»

Alla fine mi presento in classe, anche se con controvoglia, porgendo finalmente il foglio d'iscrizione al mio nuovo professore, un tipo basso e tarchiato. Lui dà una veloce occhiata al foglio.

«Questo è di due giorni fa.»

«Sono stato male» rispondo a tono. «Non mi crede?»

Dei ragazzi ridono. Noto che non c'è nessuno, oltre a me, ad avere i capelli blu.

Il professore stringe i denti ed esce, forse per assicurarsi che il biglietto sia davvero autentico. Questo lo rende, secondo me, la persona più stupida dell'universo: quale ragazzo si presenterebbe con un modulo di trasferimento falso, giusto per fare qualcosa?

Mentre quel tipo è fuori, poso lo zaino e do un'occhiata in giro, facendo una smorfia. Banchi graffiati, muri spogli e facce vuote. Nulla di interessante. I ragazzi più arditi mi guardano, quasi con sfida, gli altri appena do loro uno sguardo abbassano la testa immediatamente.

«Sei nuovo?» domanda una ragazza dai capelli ramati, quasi marroni.

Annuisco, senza dire niente.

«Quanti anni hai?»

«Quindici.»

«Da dove vieni?» domanda ancora e io sbuffo.

Penso di non risponderle, ma invece lo faccio. «Dalla Formey.»

Lei apre la bocca e sbatte gli occhi, insieme a metà del resto della classe. Ovviamente, penso fiero tra me e me, chi non è accettato dalla Formey finisce qui, in questa discarica orrenda e ora ci sono anche io, anche se obbligato. Qui si prendono i futuri riciclati.

«Ti hanno cacciato?»

«No.»

«Perché sei qui?»

Alzo una spalla.

A questo punto, un'altra ragazza da una pacca all'altra, scuotendo la testa. «Dai, Meredith, stai zitta. Si vede che non vuole parlare, fatti i fatti tuoi.»

Si vede che ha capito, questa, ridacchio.

«Io scommetto che ti hanno cacciato.»

Mi volto mugugnando. A parlare è stato un ragazzo dai capelli neri, ispidi. Porta una maglia di un gruppo rock di due taglie più grande di lui. Non ha niente di speciale a parte due piercing al labbro che non mi piacciono e mille orecchini al lobo sinistro.

«Non mi hanno cacciato» affermo.

«No?»

«No.»

«E allora perché sei qui?» domanda con boria, vedendo se riesce a farmi arrabbiare.

Io sono già arrabbiato. Alzo gli occhi. «Divergenze sociali. Non piacevano i miei capelli.»

Il professore in quel momento rientra in aula e dallo sbuffo di alcuni studenti so che la pacchia deve essere finita anche per loro. La sua materia intuisco da solo che non mi piacerà.

«Bene, Reibley, la preside ha detto che è tutto in regola. Dovevi arrivare lunedì, come mai oggi?»

«Stavo male, l'ho già detto» chiarisco un'altra volta.

«Vedo che ti sei rimesso» palesa.

«Perfettamente.»

Lui mi spedisce seduto accanto alla ragazza, Meredith, che è stata l'unica ad alzare la mano quando il professore ha domandato chi volesse condividere il banco con me, almeno per oggi dato che non ci sono posti liberi a sedere. Trovo una sedia e mi piazzo lì, a fissare la lavagna. Capisco che la materia che quel professore – un certo Thompson – insegna è biologia e io, dopo quell'esame che ho superato con tanta difficoltà alla Formey, so già di averne abbastanza. Non tiro fuori nemmeno il quaderno. I libri sono tutti a casa, ancora imballati.

Scrosto del legno da un banco con le unghie, giocherellando con i miei capelli quando il prof mi richiama, dicendo che non sono attento. Non gli presto attenzione. A quel punto so di essere già nella sua lista nera top-ten perché comincia a dire che anche se ero in una scuola di alto livello non tollererà i miei comportamenti menefreghisti ancora un minuto di più, che la preside è stata deferente dato che sa del mio trasferimento di casa e di scuola, ma lui no. Comprendo che Henry deve aver spiegato gli ultimi avvenimenti alla dirigente. Devo farne atto: Henry non sa tenere la bocca chiusa.

Io sbuffo.

«Se continui con questo comportamento rischi già una bella ammonizione, se non la sospensione, ragazzo» mi minaccia lui e io mi animo.

«Sospendermi? Davvero?» Il mio tono è quasi speranzoso.

Meredith mi lancia una gomitata sulle costole, facendomi boccheggiare e anche se è una ragazza, è abbastanza forte da farmi tossire e mangiare il resto della frase. Io rimango zitto, stringendomi nelle spalle. Appena il professore si gira di nuovo, a spiegare le basilari differenze tra le varie rocce presenti sulla Terra, lei mi porge un foglio. Ci picchietta sopra. Allungo il collo e leggo:

"Non ti conviene fare così lo sbruffone. Patrick l'hanno bocciato così facendo."

Ma chi cazzo è Patrick? La guardo. Aggiunge:

"Perché non diventiamo amici?"

La guardo storto, lei e il suo stupido quaderno.

«Ti dai troppe confidenze per essere un'estranea» le dico, sperando di essere stato abbastanza freddo e maleducato dal farle ritirare la sua proposta.

Nuovi amici non è il genere di medicina che voglio ora.

«Sono la figlia della preside» spiega divertita. «Ha detto che devo esserti amica e aiutarti ad ambientarti.»

«E tu immagino le vai dietro, a tua madre.»

Lei si morde un labbro. «A volte. In questo caso sì. Perché sei qui?»

«Non so nemmeno come ti chiami» paleso innervosito.

Lei sbatte gli occhi, sorpresa. «Io sono Meredith Campbell. Ora vuoi dirmi il perché, Reginald?»

Alzo gli occhi, improvvisamente contrario del fatto stesso che abbia già memorizzato il mio nome.

«L'ho già detto. Divergenze sociali.»

«Bulli?» Scuoto la testa. «Voti?» È lontana.

«Mi piaceva un ragazzo. A mio fratello non andava bene. Mi ha fatto trasferire per questo» ammetto d'un fiato, piano, sperando che nessun altro abbia sentito.

Non voglio passare per il frocio della classe, ma nell'altro senso non mi interessa che qualcuno lo venga a sapere. La gente può fare ciò che vuole quando non mi rompe le palle.

Lei mi guarda. Non parla. Inizia a scarabocchiare in un foglio. Disegna due ragazze mano nella mano con dei cuori vicino, nello stesso modo due ragazzi e un maschio e una femmina. Cambia penna e con un gel glitterato dipinge cuori e stelline. Prendo in mano il foglio e lo strappo, facendo girare alcuni ragazzi dalla mia parte. Non li bado.

Meredith mi osserva in silenzio. «Tutto qui?»

Non ho capito se è stupida, sincera o vuole solo prendermi in giro.

«Perché?»

Non risponde, facendo spallucce. Glielo ridomando.

«Non vedo il problema sulla questione.»

«Mio fratello sì.»

«L'amore è sempre amore, no?»

«No, su questo sbagli, Meredith. C'è l'amore etero e l'amore tra gay, non sono uguali perché ognuno ha i suoi modi di viverlo, di farlo e di portarlo avanti. Ma a me andava bene così, anche se gli altri mi gettavano merda addosso. Stavo bene con il ragazzo che amavo, stavo bene nella mia scuola, avevo amici fantastici. Ora non ho più nulla. Mi sento come se stessi per impazzire da un momento all'altro» faccio stanco.

Lei si sistema sulla sedia. «Allora dovresti andare sulla Luna, si dice che quando gli umani perdano qualcosa in questo mondo la ritrovino lì.»

Io non so che dirle. Come ci vado sulla Luna?

A ricreazione tutti mi guardano storto per i miei capelli, ma ancora mi piace stare sotto i riflettori.

Alle macchinette prendo una semplice merendina confezionata con il ripieno di cioccolato e passo i successivi dieci minuti a trovare un posto al riparo da sguardi indiscreti. Improvvisamente mi pento di aver saltato i due giorni prima, ma solo perché avrei avuto più tempo per cercare un angolino tutto mio dove starmene finalmente in pace.

In mancanza d'altro, l'unico posto che trovo è un piccolo spiazzo a vicolo cieco dietro la scuola, vicino al vecchio capanno per gli attrezzi, chiuso con un lucchetto più grande del mio pugno. Mi siedo e mangio piano la mia merenda, cercando di non pensare. Purtroppo penso ancora a Logan e ai miei vecchi amici: probabilmente adesso starei mangiando tra le braccia calde di Logan, fuori, stesi sotto un albero, con Hailey che mi parla di Shane e Colin e Nick che si scambiano opinioni su canzoni che solo loro due conoscono.

Sono solo. Mi manca il respiro di Logan sul mio orecchio e la sua voce pacata dietro di me.

Per calmarmi, fumo una sigaretta, anche se non potrei. Sono all'aperto, non si sentirà la puzza.

Sono quasi a metà della mia cicca quando un fruscio mi fa scattare in piedi. Da dietro un cespuglio esce un gatto con un occhio mozzo. Mi fissa, studiandomi e poi miagola. Mi ricordo della gatta di Logan e so che le macchie sulla peluria sono le stesse di – Mrs. Purr, Puke? Come si chiamava il gatto di Logan?

Provo ad avvicinarmi, ma l'animale fa un salto e fugge, tornando nel suo cespuglio. Mi metto a carponi e provo ad inviduare il collare sul suo collo, inutilmente. Deve essere un randagio, anche vedendo l'occhio che manca.

Mi allontano, prendendo un vaso posto vicino all'ingresso e portandolo nel mio angolino privato, lì lo svuoto e lo pulisco con l'acqua, dopodiché ce ne verso un po' e lascio la ciotola a metà della distanza tra me e quell'animale. Deve capire che non voglio fargli del male.

Il gatto non si muove, così indietreggio, andandomi a sedere al muretto e continuando a mangiucchiare la mia merenda. Dopo pochi secondi il gatto torna fuori, fissandomi. Non mi muovo. Il felino scatta, correndo verso l'acqua e bevendo a grandi boccate. Sazio, si placa e miagola ancora. Gli lancio un pezzo della mia merenda, ma la annusa e non la vuole.

«Che c'è, sei pure un buongustaio?» domando, ma il gatto non pare mi abbia capito.

La palla di peli comincia a fare piano le fusa, venendomi vicino e sedendosi a pochi metri da me. Lo guardo. È veramente brutto.

Il gatto soffia prima che io me ne renda conto e tre individui vengono verso di me.

«Ehi, sei quello di prima!»

La voce la riconosco. È il mio compagno di classe con cui ho quasi litigato. Mi metto una mano sopra gli occhi e metto a fuoco la sua immagine. Mi fissa, così mi alzo e mi spazzolo i vestiti. Il tipo non è più alto di me, anzi, direi che siamo della stessa altezza, ma i piercing sulla sua faccia lo rendono più maturo, anche se io ho i capelli più colorati.

Io non parlo e lui stringe i denti.

«Che ci fai qui tutto solo?» Alzo una spalla. «Pali con quel cazzo di gatto monco? Fa davvero schifo.» Fa un passo e l'animale, preso di soppiatto, scappa per difesa. «Io sono Patrick Gallanger. Meredith mi ha detto di te.»

Mi allunga la mano. Non la stringo. Non mi importa abbastanza.

«Non sei molto chiacchierone, vero?» sogghigna e nel suo tono c'è un pizzico di presa in giro. «Preferisci parlare con i gatti piuttosto che con degli umani?»

«In questo caso sì, direi che preferisco un gatto monco» gli rispondo, andando via.

Lui mi da una spinta da dietro e io cado a terra, facendomi male al ginocchio. Mi rialzo subito, agitato.

«Oh, ora ti importa?» canticchia e i suoi amici ridono. «Volevo fare amicizia, io» palesa.

«Non mi interessano gli amici» chiarisco.

«Capisco. Eri un tipo carino.»

Avvampo, stringendo le dita. Non voglio che mi parli. Non voglio che mi guardi. Non mi piace.

«Senti, marmocchio, la prossima volta che decidi di prendere per il culo qualcuno, almeno prima pensa se questo non può picchiarti, hai capito?»

Gli do un pugno. A lui, a quei capelli neri che somigliano tanto a quelli di Logan, scuri quando l'oblio dell'universo. Anche i suoi occhi sono verdi, ma hanno delle piccole pagliuzze azzurre e dorate che Logan non possedeva. Gli tiro un altro pugno sotto l'occhio, come se nello stesso tempo colpissi anche Logan.

Non doveva andare a finire così.

Patrick reagisce, non è più forte di me o robusto, ma mi spinge e ce le diamo di santa ragione fino a quando la preside non riesce una volta per tutte a dividerci.

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