Dove vi spiego un po' alcune cose, prima di andare sul concreto
2001
«Chiara! Lascia stare quel gatto!» urlava mia mamma, ogni volta che mi vedeva avvicinarmi ai gatti, specialmente se questi lasciavano fare.
Se non lo facevano erano problemi, in effetti. Arrivavo a casa con le mani e le braccia graffiate. Una volta un gatto mi ha pure regalato un paio di segni in faccia: sono tornata a casa che parevo Naruto.
Mia madre mi diceva continuamente di lasciarli stare, anzi, lo urlava, perché ha sempre urlato molto. Ma io non resistevo. Dovevo accarezzarli, dovevo affondare le mani nel loro pelo.
Abitavo in un condominio di quattro piani non particolarmente recente. Gli abitanti del palazzo erano vecchi e io, cheffortuna!, ero l'unica giovane, per non dire giovanissima. Non c'erano altre bambine. Mi sarei accontentata anche di bambini maschi, se ce ne fossero stati. Purtroppo attorno a me c'era un deserto d'infanzia.
Ma poi i vicini avevano comprato un gatto. Uh che meraviglia di micione peloso! Credo che sia stato il mio primo amore! Peloso, con quegli occhi magnetici, con cui guardava tutti come dall'alto in basso.
Sembra che io stia parlando di un daddy, invece era un gatto. Nei pomeriggi primaverili, quando il sole iniziava a farsi caldo sul balconcino striminzito di casa dei miei, lo convincevo con qualcosa da mangiare e me lo tenevo in grembo accarezzandolo per tempi infiniti.
Lui si insinuava tra i vasi, con il suo pelo che si comprimeva fino a dare l'impressione che quel corpo non avesse struttura, arrivava nei pressi della sgangherata sdraio che orientavo verso la luce. Io arrotolavo le maniche e il fondo della maglietta e lo facevo salire in grembo lasciando che quella meraviglia mi sfiorasse l'epidermide della pancia.
Il sole sulla pelle, le fusa del gatto sull'ombelico nudo, affondavo mie mani in quella nuvola morbida e calda, con i calzini che si accarezzavano a vicenda.
Forse ancora più delle estati, passate raramente al mare nonostante vi abitassi vicino, ho i ricordi più nitidi proprio degli ultimi mesi primaverili fatti di mici pelosi e calzini, in un affastellarsi di esperienze che riguardavano la mia pelle e il mio tatto: il sole, i gatti, le foglie carnose delle piante risvegliatesi dall'inverno, la sensazione di fresco che provavo sotto la pianta dei piedi quando incontravo il pavimento rimasto in ombra.
Ma poi giocoforza ho dovuto iniziare le relazioni con gli esseri umani perché il gatto dei vicini aveva avuto un problemino con il pitbull del tizio in fondo alla strada. E non era il Pitbull che fa i duetti, era quello che se gli finivi tra le zanne, ecco, ciao ciao.
Miao miao.
2002
La mia prima amica, conosciuta al centro estivo, è stata Matilde. Abitava in una casa a schiera a non più di centocinquanta metri dal mio condominio. Secondo me era bella, mentre io odiavo i miei ciglioni e il mio naso talmente a punta che ci potevi incidere i tronchi degli alberi del centro estivo.
Odiavo il centro estivo per quasi tutto quello che ci succedeva dentro. Odiavo fare tutte quelle attività all'aperto che permettevano ai maschi di prenderti in giro se non correvi velocissima o se non schivavi la palla avvelenata. Odiavo quando qualcuno arrivava con in mano un animale morto e già mezzo mummificato per schifarti o spaventarti. Odiavo l'odore di mensa che c'era nel salone dove mangiavamo e che era il contrario degli odori che io associavo al cibo.
Eppure, il centro estivo aveva un momento che me lo faceva adorare: il riposino pomeridiano. Quelle bestie di maschi diventavano innocui o per lo meno non potevano nuocermi direttamente. Ma, soprattutto, io e Matilde avvicinavamo impercettibilmente le due brandine, senza che nemmeno le suore se ne accorgessero. Era un gesto senza il minimo valore pratico, ma era la nostra trasgressione, era il nostro rito che ci faceva sentire meglio. Poi ci coricavamo, lei allungava la mano, io allungavo la mia e nel calore di una stanza in piena penombra, incredibile ma vero, riuscivamo a dormire.
Per una come me, affascinata dal tatto, quella mano stretta in quel luogo ostile, era a dir poco fantastico.
Matilde e io saremmo state in classe assieme alle elementari. Lo avevamo scoperto quando sua madre, zelantissima, era riuscita a trovare tutti i numeri delle mamme delle future compagne, e le aveva contattate una per una presentandosi e dicendo che avrebbe fatto volentierissimo la rappresentante.
Ricordo che mia madre aveva detto che era pazza. Aveva detto qualcosa tipo «Ma chi è 'sta mezza pazza?». Sì, giusto, non una pazza intera, solo una mezza pazza. Ma al di là di questo, a me Matilde piaceva, e poi aveva una casa più bella della mia. Eppure stavamo da me un sacco di tempo, soprattutto in quell'autunno, nei giorni più miti. Io tenevo l'unico peluche che avevo sulla pancia e lei parlava di storie fantastiche da vivere quando saremmo diventate grandi.
Se andavamo da lei, passavamo interi pomeriggi con altre storie fantastiche, in quel caso fatte sul serio, con tutti i pupazzi che teneva sulle mensole che trasformavamo negli abitanti del nostro villaggio magico.
Matilde, a differenza di me, aveva una fantasia sterminata. Le storie che riusciva a creare duravano tutto il pomeriggio, e non era infrequente che il giorno dopo, prima di entrare a scuola, mi narrasse come aveva continuato a giocare, tanto che era una di quelle che doveva essere chiamata mille volte prima di presentarsi a tavola. Staccarla dal ribollire della sua creatività era a dir poco complicato.
Già all'epoca, aveva assegnato una specie di "carattere" a ogni suo pupazzo. I cinque coniglietti Cipsy, Pipsy, Lipsy, Mipsy e Tipsy, che non ho mai capito chi fosse chi, erano giocherelloni ma litigavano spesso tra di loro. I due ricci Ago e Spino erano un po' silenziosi e molto laboriosi, di solito dirigevano i progetti di costruzione, erano aiutati dai due scoiattoli Cip e Ciop che non erano quelli della Disney ma che lei diceva fossero chiacchieroni. Le due foche bianche e l'orso bianco erano la comunità artica, stavano per i fatti loro e intervenivano solo per dire che i ghiacci si stavano sciogliendo e occorreva trattare meglio il pianeta. I due delfini e l'orca erano molto amichevoli e si offrivano sempre di portare chiunque a dorso ovunque volessero andare, anche in montagna. L'asinello grigio chiaro era il lavoratore brontolone costretto a portare in giro le cose che servivano a costruire. Snoopy, da buon Snoopy, scriveva poesie.
2004
La seconda amica del cuore che avevo incontrato era stata Caterina Portanova. In realtà eravamo in classe assieme già in prima elementare, ma non avevo da subito legato con lei. Mi sembrava una di quelle con la puzza sotto il naso, che prima ti diceva cosa le aveva comprato la mamma e poi ti salutava e ti chiedeva come stavi.
Io ero un po' nel mio mondo, lo so. Se mi guardo indietro vedo una bambina un po' così, non rapidissima nella risposta, per così dire. E Matilde, con la sua fantasia perennemente accesa, non era certo l'ideale per farmi stare con i piedi attaccati a terra. La Cate e io non ci pigliavamo molto.
Giulio Colombini era uno dei compagni più insopportabili, se non il più insopportabile, aveva un modo troppo fisico di giocare e, soprattutto con le bambine, assolutamente sproporzionato. Non era infrequente che qualche bambina si presentasse alla maestra dopo essere stata strattonata o spinta, e la maestra, con il caffè in mano, rispondeva qualcosa tipo «Dopo lo sgrido. È che Giulio ha questo modo per dirti che ti vuole bene.»
Bella spiegazione di merda: mi mena per dirmi che mi vuole bene.
'Sta storia era andata avanti qualche mese fino a quando, più o meno a metà della terza elementare, Giulio si era messo a fare il pagliaccio attorno alla Cate, l'aveva presa in giro chiamandola Principessa sul Pisello, e lei si era scagliata con una foga da picchiatrice di strada che mi aveva scaldato il cuore. A me lui stava proprio antipatico con quel suo continuo parlare di calcio, calcio, calcio, come se esistesse solo quello in tutto il mondo. E quando qualcuno provava a dire qualcosa a riguardo, lui attaccava con il pippotto che suo padre allenava non so bene quale squadra quindi lui, probabilmente per irraggiamento, era un grande esperto di calcio.
Ovviamente i genitori della Cate erano stati convocati per quattro chiacchiere e per far presente che forse il comportamento da street fighter della figlia era da attenzionare.
Così come il fatto che pareva conoscesse alcune parole colorite da bar di paese.
«Caterina, non si picchiano i compagni» avevo detto, «ma sei stata mitica a picchiare Giulio. Lui se lo meritava.»
E così la Cate, paladina blasfema di tutte le bambine malmenate come espressione di amore, era diventata automaticamente una mia grande amica del cuore, e immediatamente dopo era diventata anche amica di Matilde. Assieme progettavamo complicatissimi piani per distruggere il campionato di calcio e sostituirlo con corse al galoppo di unicorni.
Ma era stato piuttosto complicato invitare la Cate a casa mia. Probabilmente, per i suoi genitori, noi non eravamo il rango giusto. Era stato utilissimo il rapporto che si era costruito tra sua madre e quella della Maty, dato il comune interesse per l'attività della parrocchia. Era stata probabilmente quella connessione a decidere per il placet alla nostra presenza al suo compleanno.
«Mamma ha detto che posso invitarvi al compleanno, ci venite, vero?» ci aveva chiesto una settimana prima.
E noi a sperticarci di sì, iniziando a pensare a un regalo degno per una ragazza che aveva già tutto. Poi ci era piovuto un suggerimento direttamente da Mamma Portanova, che aveva consigliato una catenina.
Che fantasia.
Sebbene a marzo non avessimo potuto usare la piscina del giardino, la casa ci era bastata. Avevamo visto la sua enorme camera con tutto quello che c'era dentro e ci eravamo finite a giocare agli unicorni magici che combattono i perfidi alieni colombini, che vogliono trasformare la terra in un immenso campo di calcio.
Soggetto di Matilde Castelli, ovviamente.
Matilde non era gelosa di questa nuova amica semplicemente perchè era uno splendido animo semplice che, nella sua mente, trovava tutto quello che le serviva quando le amiche facevano altro. Era capitato un numero infinito di volte che Caterina mi cercasse per giocare a qualcosa, Matilde nel frattempo tirava fuori qualcos'altro dalla sua mente come un teatro di marionette fatto con due matite e un foglio di carta, e noi, che avevamo molta meno fantasia, nel giro di pochi minuti tornavamo da lei chiedendole di partecipare.
2005
La natura aveva mostrato i suoi progetti su di me con un po' di ritardo, ma alla fine c'era riuscita: la bambina che all'asilo e al centro estivo veniva perculata dai maschi per la sua imbranataggine, in quarta elementare aveva lasciato il posto a una tizia scattante e agile. Nessuno mi batteva a nascondino, a strega comanda colore e tutti gli altri giochi dove c'era da correre di qua e di là. Ero brava pure a rubabandiera. Ma dentro di me, senza dare troppo nell'occhio, delle volte, mi imponevo di rallentare, di fare una finta in meno, di distrarmi.
E, oh! Mi acchiappavano. E sentivo le mani che mi stringevano, e lo adoravo. Sentivo dire che i maschi erano "fisici" ma anche a me piaceva essere "fisica". Non mi potevo considerare un maschiaccio, perché non lo sono mai stata e guai ad alimentare il clichè della turbolenta che poi diventa la figa del circondario.
Sono figa ma non ero turbolenta, per chiarire.
E poi finitela con 'sta storia del maschiaccio e della femminuccia, mamma mia!
Dicevo che comunque nei giochi atletici me la cavavo un sacco bene. Ero l'incubo di Colombini che battevo in qualsiasi gara di corsa. Povero Giulio, magari l'ho costretto a una vita da incel per quelle gare di corsa. Chissà che fine ha fatto.
Io e la Cate ci facevamo valere, Matilde ci costruiva meravigliosi mondi incantati in cui muoverci e il nostro trio era solido e splendido.
Quando giocavamo a qualcosa di fantasy però, i ruoli erano sempre ben definiti: Cate faceva la malvagia perché così si sentiva autorizzata a dire tutte le parolacce che conosceva, io facevo l'eroina incapace ma dotata di qualsiasi potere magico possibile e immaginabile e la Maty faceva la strega narratrice che peraltro disseminava la storia di assurdi tranelli e personaggi secondari fatti di pupazzi vestiti con quello che trovava nei cassetti.
Non so se già all'epoca mi fossi resa conto che Matilde non riusciva a non modificare la realtà attorno a sé, quando stava giocando: per lei era impossibile prendere un pupazzo e giocarci, doveva per lo meno mettergli un mantello, o una cintura, o una spada. Era così, e non è ancora cambiata.
Nulla comunque è mai stato più bello, in quegli anni, delle notti estive passate dalla Cate a dormire in un unico enorme letto, strette noi tre, mentre Matilde raccontava a ruota libera storie legate a stelle che manco si chiamavano come diceva lei.
Perché per quanto questa storia sia fatta di quattro elementi, tre ci sono sempre stati, e questo è un fatto imprescindibile dalla nostra vicenda. Eravamo tre, eravamo una cosa bellissima e, su questo non mi nascondo, era grazie al carattere di Matilde se tutto questo poteva avvenire.
E poi, era lei che ci snocciolava tutti i terzetti più importanti della letteratura e non solo.
«La frase latina, Omne trium perfectum: tutto ciò che arriva a tre è perfetto, tipo i tre orsi, i tre piccoli porcellini, le tre scimmie sagge. Cenerentola e le due sorellastre, Harry, Hermione e Ron in Harry Potter, Violet, Klaus e Sunny in Una serie di sfortunati eventi, Batman, Robin e Alfred in Batman, Sherlock, Lupin e Irene Adler»
«Le 'Barbie'. Regina, Gretchen e Karen» aggiungeva Cate.
«Si brava! E poi tipo gli slogan: Ieri oggi domani, Just do it, Liscia, gassata o Ferrarelle?, Crudo o cotto? Granbiscotto»
«Altissima Purissima Levissima» detta con la erre dura tedesca.
«E sasso carta forbici. E i tre colori primari, i tre desideri del genio, la Trinità!» si infervorava Matilde.
Veniva da una famiglia piuttosto credente, che era un argomento che non mi competeva. Ogni domenica era irraggiungibile dalle dieci e mezza a mezzogiorno per i preparativi della messa e il suo svolgimento, e quando avevamo iniziato il catechismo, lei era la più entusiasta di andarci.
La prima fanfiction che aveva realizzato, non proprio scritto, era su Gesù. Giuro non sono blasfema. Un pomeriggio a casa di Caterina aveva disegnato un volto di Gesù stilizzato su un foglio di carta, lo aveva ritagliato e appoggiato sul muso di un peluche, e questo lo aveva avvolto in un asciugamano azzurro, mandandolo in giro per la casa a redimere gli altri pupazzi che si erano comportati male.
2006
A me catechismo non faceva impazzire, ma dietro alla siepe che delimitava il campetto da calcio, verso metà aprile, avevo fatto la mia prima esperienza legata alla sessualità, con Riccardo Tommaselli.
Ah, Riccardo, era sveglio un sacco per la sua età. Lo avevo capito quando aveva mollato il gruppetto di Colombini scegliendo di giocare con noi a pallavolo e imparando anche a memoria la sigla di Mila e Shiro.
Quando si trattava di acchiapparella, mi puntava continuamente. Ormai mi ero abituata alle sue mani addosso e quando mi aveva portata verso la siepe c'ero pure andata allegramente. Pensavo volesse abbracciarmi senza che tutti dicessero «Riccardo Ama Chiara!» che magari era pure vero ma che lui non sopportava sentir dire agli altri.
Invece semplicemente mi aveva chiesto se potevo fargli vedere la vagina e in cambio mi aveva fatto vedere orgogliosamente il suo pisello. Niente di che, quel robino all'ingiù con una piccola vena viola che lo attraversava in diagonale. I maschi veramente facevano la pipì da quel coso? Che magari sgocciolava come i rubinetti a scuola. Bleah.
Lui invece nel guardarmela aveva detto «Mh, ok» sorridendo.
Fine.
Era stato meglio quando aveva detto «Ci baciamo?» e lo avevo baciato, per lo meno mi aveva toccata sul fianco. Io non mi ero ancora nemmeno tirata su le mutandine. Vabbè era caldo.
Baciarsi era il secondo step, secondo il suo manuale, dopo essersi visti i genitali. il terzo era dichiararsi fidanzati.
Lui diceva che eravamo fidanzati, io no. A me piaceva Mirkino Matkovic, perché aveva l'accento dell'est e io adoravo sentirlo parlare in una lingua che non conoscevo. A me faceva un sacco strano che qualcuno sapesse parlare in due lingue. Mi facevano lo stesso effetto pure i miei nonni che parlavano sia italiano che dialetto.
Comunque Riccardo si arrabbiava se io negavo quello che lui era convinto esistesse, diceva che se due si baciavano allora erano fidanzati per sempre e per sfidanzarsi dovevano essere d'accordo tutti e due, e lui non era d'accordo.
La Cate lo aveva minacciato di morte, ma lui non si era molto scomposto. Intanto io avevo iniziato a essere molto triste perchè Mirkino si era messo con una tipa della sua classe solo perchè era anche lei originaria delle sue parti.
Alla fine era venuta in mio soccorso Matilde.
«Gesù credo che non voglia che due si vedano le cose lì sotto prima del matrimonio, secondo me se lo dici con sua mamma, si arrabbia.»
E così avevo minacciato che se non era d'accordo a sfidanzarsi, avrei detto a sua madre dello scambio visuale tra i nostri organi sessuali. E lui aveva acconsentito a sfidanzarci.
E io avevo detto a Matilde che sarebbe diventata la mia consulente matrimoniale. Ma lei mi aveva risposto che non avrebbe potuto, perché doveva allevare unicorni per selezionarne una varietà arcobaleno.
A proposito di consulenza matrimoniale, non ho parlato della mia famiglia, perché in realtà fin verso la fine delle elementari non è che ci fosse molto da dire: papà lavorava, mamma lavorava, i nonni si alternavano a badarmi. Io non so se fosse per indole o per i sopravvenuti impegni lavorativi, ma ho sempre avuto l'impressione che i miei genitori mi dedicassero un tempo stanco.
Mi spiego: non è che non mi dedicassero tempo, perchè se potevano, mi stavano vicino, mi spronavano ed erano contentissimi che io recitassi loro le poesie di natale e cose del genere. Ma erano persone stanche, persone che arrivavano a sera arrancando.
Spesso, una volta diventata più grande, mi sono chiesta cosa fosse successo per trasformare due sposini in un padre e una madre che trattenevano gli sbadigli mentre finivo di fare i compiti la sera se non c'era stato modo di terminare durante il pomeriggio. In verità non ho trovato risposte, se non che avessero valutato male l'impatto di una figlia sull'economia domestica.
Questo non perché vedessi in loro scarso amore, ma perché questo amore era perennemente velato da un senso di fatica.
Cosa ho imparato alle elementari: in buona sostanza due cose.
1) che i bambini che ti menano non ti vogliono bene
2) che guardarsi i genitali a nove anni non è divertente come guardarseli a quattordici.
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