Primo giorno di medie
Dove iniziamo le scuole medie e iniziano i problemi
perchè le medie sono la quintessenza dei problemi
Lunedì 17 settembre 2007
«Hanno aperto la porta dell'asilo» aveva detto un tizio dall'andatura di un mammuth ferito, che era passato di fianco a Cate mentre fuori dalla porta aspettavamo di essere chiamate dentro per il primo giorno di scuola.
Buongiorno ragazze, vi eravate dimenticate come ci si sente a essere le più piccole di tutto l'istituto, eh?
Benvenute in una scuola piena di gente più grande di voi.
Ah, dimenticavo: che vi tratterà solo in base all'aspetto che avete.
Vi suona da già sentito?
Sì, non vale la pena girarci tanto attorno: le primarie erano scuole del sentimento, dove l'amicizia legava le anime, più che i corpi. Se il nostro legame a tre non si fosse cementato alle elementari, dubito che si sarebbe potuto formare durante quei tre anni di cambiamenti tumultuosi, dove l'involucro era diventato centrale ed era stato più facile matcharsi i vestiti che le personalità.
A proposito di involucro: Caterina non era arrivata al primo giorno splendidamente abbronzata come al solito. Anzi, a quanto pare, aveva preferito una estate prevalentemente all'ombra, evitando molti dei pomeriggi in piscina sia nella loro personale di casa, sia in quelle che la madre frequentava in zona assieme alle amiche di medesimo rango.
Fisicamente aveva delle fattezze ancora da bambina e non aveva accenni di forme. Sarebbe stata la ginnasta perfetta, se avesse fatto ginnastica: minuta e flessuosa ma energica. La madre però non era una patita dello sport, anche perchè la figlia è sempre stata magra come un chiodo, maledizione a lei e al suo metabolismo. Caterina aveva smesso anche di seguire le lezioni estive di tennis, con un maestro più magro di lei e terribilmente incartapecorito nei suoi settant'anni, e che comunque faceva un po' controvoglia. Lei avrebbe voluto fare pattinaggio, ma di piste sul ghiaccio nemmeno l'ombra, e le squadre a rotelle non erano nei paraggi o comunque lei non era in grado di trovarle. E poi la madre era rimasta orripilata dalla storia della Kerrigan e della Harding, e qualche volta si era svegliata dopo aver sognato la figlia con un ginocchio spaccato e sanguinante.
Questo me l'ha raccontato la Cate ma non so se sia vero.
In inverno suonava il pianoforte e sembrava già destinata a ricoprire tale ruolo anche nel coro della chiesa. Più di quello non faceva.
O per lo meno questa era l'idea che aveva sua madre delle attività extrascolastiche che avrebbe dovuto sostenere sua figlia per diventare una ragazza il più possibile a modo.
Quel «Hanno aperto la porta dell'asilo» aveva messo in chiaro che, nel posto dove stavamo arrivando, Caterina non era una ragazza a modo, era solo una forma di vita inferiore perchè ancora non sviluppata a dovere.
Matilde aveva a sua volta un corpo un po' acerbo, ma era pure piuttosto rotondetta. La nonna non le faceva mancare nulla in tema di gelati: ne aveva un freezer ingombro. E lei non diceva mai di no.
Quel freezer era la tomba dei dietologi, ma in generale la cucina della nonna di Matilde lo era: da quel luogo uscivano pirofile di cotolette, parmigiane, otri pieni di ragù bisunto, verdura fritta in pastella, vitello tonnato e barattoli di giardiniera sott'olio.
Le rotondità, per fortuna, non avevano fatto sentire la mia prima amica a disagio, per lo meno fino all'estate appena trascorsa, quando la madre non aveva iniziato a dirle, in maniera calma ma piuttosto persistente, che forse avrebbe dovuto smetterla con tutti quei gelati.
Matilde peraltro stava per affrontare le medie ancora totalmente immersa nel suo mondo. Ancora, senza batter ciglio, si metteva pressoché le stesse cose di quando andava in quinta elementare, completamente incurante dello step che stavamo affrontando. Mancava giusto la maglietta dei Pokemon (che, a dirla tutta, aveva).
Con questo non dico che fosse una sfigatella, perché in fondo erano decine e decine quelle messe come lei, in quel cortile dove c'erano a dir poco cinquecento ragazzi. E forse in fondo in fondo stava meglio lei di noi, lei che non dava importanza all'estetica. Ma a ben vedere non dava importanza a un bel nulla che non fosse il suo universo personale e la nostra amicizia.
Quando era stato il nostro turno di abbandonare i genitori e avviarci per i corridoi, ammetto di aver avuto un po' di ansia a percorrere quel luogo così diverso da una scuola elementare dove alle pareti c'erano anatroccoli e orme di manine fatte con la pittura.
Mentre salivamo le scale, iniziavo a rendermi conto dei miei compagni, bufali rumorosi che in confronto Colombini era un lord inglese.
Ovviamente, c'era stata una accelerazione negli ultimi metri da parte di diversi maschi che avevano l'intenzione di evitare i posti davanti. Debordati in aula, avevano occupato tutta l'ultima fila, ridacchiando come idioti. Noi sei ex compagni delle elementari avevamo preso posto nell'ala destra di una classe già calda perchè completamente esposta a sud, con Emma e Matilde davanti a me e Cate, e dietro di noi i Promessi Sposi, come li chiamava Matilde, ovvero Noemi e Lorenzo.
Dietro ancora, in ultima fila, avevamo due maschi che avevano iniziato immediatamente a fare gli idioti, specialmente quello sul lato interno che cercava di richiamare l'attenzione della tipa alla mia sinistra, tal Martina, come si poteva dedurre dal nome riportato sulle etichette che ornavano tutte le penne e le matite.
«Mi shenti Shartini?! Mi shenti?!?!» continuava a tormentarla, strascicando la "s".
Lei esasperata, aveva risposto «Oh Diobbò ma la finisci?!» e avevo capito perché la sfottevano: Martina, che di cognome faceva Sartini, era una ragazzina carina e anche curata, ma aveva un terribile accento romagnolo, che in una frase si era sprigionato in tutta la sua potenza.
I due maschi alle mie spalle avevano riso come pazzi, dimostrando tutta la loro empatia.
Quando la prima professoressa che avevamo incontrato aveva fatto l'appello, avevo dato un nome a quei due: Sansone Gabriele e Circe Tommaso, due cognomi epici per due epici idioti. Gabriele era piuttosto alto, abbronzatissimo e moro, di lui spiccavano due cose: la calligrafia terrificante che rendeva qualsiasi cosa scrivesse illeggibile, e le caviglie, che erano spesse come una mia coscia. Tommaso era più o meno dello stesso colore di pelle, ma in testa aveva una splendida matassa di capelli castani dai riflessi biondi.
Che probabilmente occupavano anche tutto l'interno del cranio, perché Tommaso semplicemente non collegava il cervello: parlava a vanvera oppure con slogan della pubblicità. La cosa che gli riusciva meglio era imitare non so quale commentatore sportivo che urlava «Sciabolatamorbida!»
All'intervallo era entrato un gruppetto di quattro o cinque: erano quattro ragazzi e una ragazza che si erano precipitati a salutare la nostra insegnante di italiano al grido di «Prof quest'anno mi boccia, vero?»
Si erano scambiati qualche battuta leggera e poi uno dei ragazzi aveva aggiunto «Ma quest'anno le hanno dato una classe dell'asilo?» guardandoci con aria un po' sprezzante.
La tipa invece era andata dritta da un nostro compagno, Rinald, e lo aveva abbracciato e sbaciucchiato.
«Prof, questo è mio fratello Rinald! Lo deve trattare bene, mi raccomando! Altrimenti lo dico alla mafia albanese» aveva esclamato tutta sorridendo, per poi fare il segno dello sgozzamento.
Rinald si era evidentemente imbarazzato per la frase della sorella, cucciolino. Era una ragazzo un po' anonimo, magrissimo, con la voce un po' nasale e gli occhiali con la montatura spessa.
Lei aveva riso rumorosamente e poi era uscita assieme agli altri che chiaramente le guardavano il sedere.
Io, beh, con il fisico non avevo un rapporto veramente problematico. Certo, ero pur sempre una che iniziava la prima media. Ma da quel momento, e per diverse settimane a seguire, avevo sognato di avere il fisico della sorella di Rinald, dai capelli nerissimi raccolti in treccine, dagli orecchini enormi a cerchio.
Cosa ho imparato il primo giorno delle medie: a volte basta una esse detta male per passare tre anni d'inferno.
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