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Quando andiamo a un party di ferragosto e facciamo vedere quanto siamo chicas malas

Giovedì 12 agosto 2010

«Oh, la stronza e la troia.»

Mirko s'era evidentemente scocciato per quella buca di San Lorenzo, e così ci aveva battezzate la prima volta che ci aveva incrociate, qualche sera dopo, mentre lui presidiava un posto diverso da quello in cui si era fatto beccare.

Non so se facesse ancora quell'attività. C'erano voci contrastanti: chi diceva che avesse smesso, chi diceva che avesse ripreso, chi diceva che i suoi "superiori" gli avevano promesso una punizione fisica memorabile per essere stato quello che li aveva fatti arrestare.

«Vivi sereno Mirko. A stronzaggine hai parecchio da insegnarci» lo aveva subito stoppato Cate.

«A troiaggine invece siete già all'università» aveva replicato, sorridendo alla sua stessa battuta.

«Non ci andava di uscire con quel casino, abbiamo preso una tisana e siamo andate a nanna. Non ci credi?»

«No. Le donne e le bugie vanno di pari passo.»

Era compiaciutissimo delle sue battute velenose che diceva con voce ferma e sguardo penetrante.

«Hai ragione. La verità è che siamo chicas malas, e stiamo solo con i pusher che non si fanno beccare. Ciao amore» aveva replicato Cate, girando il culo e cambiando strada.

Mamma mia, come aveva colpito nel segno! Io mi ero girata per un ultimo sguardo al mio disagio vivente, poi mi ero rituffata con lei nella mia estate. Vedevo in lei una inquietudine come se non fossero mai abbastanza le cose che faceva. A San Lorenzo la tisana in realtà era stata una sfilza di shottini bevuti nella terrazza di un appartamento a Milano Marittima, in cui la stessa Cate aveva prematuramente vomitato.

Non credo che quelle calendule ora stiano tanto bene, ma vabbè dai, meglio così, discretamente, che in mezzo a Viale Matteotti come certi altri.

Sabato 14 agosto 2010

Fino alla rottura con Willy, non ero stata molto presente nella vita di Cate quell'estate, ma lei mi aveva riabbracciata senza fare troppi commenti sulla mia parentesi sentimentale ed eravamo ripartite quasi come se nulla fosse. Tuttavia non ci avevo messo molto a capire che c'era un nuovo amico tra noi: l'alcol, che era un buon lenitivo per tutti i tormenti interni e le inquietudini che lei aveva. Non partiva con l'idea di bere, ma ci finiva dentro un po' alla volta, mentre io rimanevo a margine, vigile e con nessunissima voglia di perdere il controllo e trovarmi a dover chiedere a amiche e conoscenti come si era svolto l'ultimo capitolo di "Modi fantasiosi con cui Chiara si guadagna l'appellativo con la T".

Ovviamente lei, in lacrime, quando aveva lampi di pensiero razionale, si scusava mille volte. A volte manco si capiva bene a cosa fossero riferite le scuse: per le cose strong che diceva o faceva, tirandomi in mezzo a faccende che, con il senno di poi, erano persino troppo grandi per i nostri quattordici anni, oppure per l'alcol stesso, oppure ancora per i suoi problemi più profondi che originavano il suo stesso atteggiamento da chica mala e di cui lucidamente se ne vergognava.

A volte chiudeva tutto con un "Sto incasinata, lo so" e ripartiva. Era impossibile starle dietro.

Sabato 14, avevamo saputo dalla Bea che ci sarebbe stato un party in spiaggia per ferragosto, organizzato dal figlio di un bagnino nel suo stabilimento. Aveva sentito parlare di questa festa da vari conoscenti e pareva dover essere una delle migliori del circuito di feste che si vedevano lungo la Riviera di Cervia per la notte di Ferragosto.

«Ma che musica danno?» le aveva chiesto la Cate.

«Ma veramente ti frega della musica? C'è il bar e ci sono i tipi manzi. Punto.»

E così, ci eravamo sistemate veramente da assalto ai maschi, nel bagno "di servizio" della Bea che mi aveva anche prestato un suo tubino che secondo me usava in seconda media, e mi stringeva ovunque. Mentre mi preparavo con le altre due, avevo guardato nello specchio la mia figura riflessa pensando "messa così sembro una diciottenne con una quarta di seno". La Cate aveva i capelli fatti dal pomeriggio, quando aveva rotto le palle a qualsiasi salone della provincia pur di farsi dare un appuntamento, e un pushup di quelli progettati dalla NASA che le facevano le tette grosse come quelle vere della Bea.

«Ma che ci hai messo, i gavettoni dentro?» l'avevo perculata. La Bea si era rovesciata dal ridere e la diretta interessata aveva mostrato il medio e aveva detto che se non le crescevano nel giro di un'anno, avrebbe chiesto una mastoplastica per il compleanno dei sedici.

«Comunque se la musica fa cagare me ne vado prima» aveva aggiunto, per cambiare argomento.

La Bea aveva appuntamento con un gruppetto e, in pratica, ci aveva un po' mollate. A me era presa un po' di ansia perché in fondo non era così chiaro che ci facessero entrare.

"Figurati se non ci fanno entrare" mi aveva ripetuto la Cate duecento volte.

«Non puoi entrare, tu» le aveva detto un buttafuori più grosso dell'armadio che avevo in camera.

«Ma io sono con lei!» aveva pigolato la Cate, spingendomi davanti.

«Te sei scema, Cate!» le avevo sibilato, mentre praticamente sbattevo contro la montagna con l'auricolare.

Ma avevo fatto la parte: gli occhi dolci, il seno sparato in fuori, la bocca a cuoricino proprio sotto al suo mento squadratissimo, avevo buttato lì un «Siamo in classe assieme, seconda liceo, a Ravenna! Ma non ci credi? So tutte le declinazioni latine: Rosa rosae rosarum rosarium

«Va bene!» aveva sospirato il tizio, e così eravamo riuscite in maniera un po' arrabattata a entrare.

Cate e Chiara, Chicas Malas di altissimo livello e maestre dell'improvvisazione!

La festa, con musica a tutto volume, luci colorate appese tra le palme forse finte forse no, abbinate a un'atmosfera da Riviera eccitata, ci aveva dato alla testa in fretta, lei in particolare.

La sua strategia era semplice: muoversi con sicurezza, salutare con disinvoltura chiunque incrociasse il nostro sguardo, come se conoscessero già tutti, possibilmente giocando con la lingua sulla cannuccia. «Dai vai a prendere da bere» mi aveva ordinato, a tal proposito.

«Ma perché io?!»

«Perchè a te li danno!» aveva risposto.

«Perchè, cosa vuoi?» subodorando la fregatura.

«Prendi dei Breezer! Con la cannuccia! Solo te puoi andarci.»

Onesta, e piena di autocritica. Il problema è che a quel punto la questione "alcol ai minori" ricadeva sulle mie spalle e io non ero nemmeno così convinta di volere quella roba di cui mi bastavano due sorsi a sera. Giuro.

E infatti, arrivata al banco, il tipo mi aveva squadrata in un modo che mi aveva tanto ricordato certi sguardi che ci avevano rifilato il primo giorno delle medie, quando ci avevano chiesto se venivamo direttamente dall'asilo.

Ammetto di aver titubato, e anche abbastanza. Mi ero fatta passare davanti un paio di persone fingendo di guardare dentro la borsetta e alla fine un terzetto di ragazzi aveva capito l'inghippo e uno dei tre mi aveva detto ridacchiando «Quasi diciotto?»

«Eh, quasi» avevo detto, non sapendo se ridere o scappare.

«E che devi chiedere?»

«Due Breezer» avevo risposto, quasi vergognandomi. Avrei voluto aggiungere "Che a me fanno cagare, quindi non sfottetemi, per favore".

«Ti fai dei problemi per due Breezer? Quelli li danno anche alle feste delle medie» aveva ridacchiato, forse senza rendersi ben conto che in effetti io le medie le avevo finite non più tardi di due mesi prima.

«Dai, dammi una consumazione» mi aveva detto, e io avevo eseguito, fiduciosa.

Lui si era girato verso il barista, ci aveva scambiato qualche parola e con un tagliandino mi aveva messo in mano due Breezer. A quel punto mi ero resa conto che non c'erano le cannucce. Ma al solo pensare di chiedere "mi prendi anche due cannucce", mi sarei sotterrata viva. Quindi avevo ringraziato vivamente.

«Manco un bacio?» aveva chiesto.

E io glielo avevo soffiato allontanandomi, mentre lui sorrideva con una punta di ironia dicendo «'ste ragazzine son proprio stronze.»

Mentre io risolvevo i problemi di beveraggio. Cate, sempre più gasata, si era lanciata subito in pista. A forza di darsi da fare, non aveva tardato a attaccare bottone con un tipo abbronzato e piuttosto in forma, che sfoggiava una ridicola collana di conchiglie, non molto diverse da quelle che vendono le bambine nelle bancarelline improvvisate sul retro degli stabilimenti balneari.

Dopo qualche minuto di conversazione e qualche ballo ravvicinato, Cate si era spostata agilmente su un altro ragazzo dicendomi semplicemente «Questo pensa troppo alla palestra» ma tempo sette minuti di orologio e aveva piantato pure il secondo per trascinarmi al bagno con un sorriso complice.

«Momento photobitch» aveva esordito, costringendomi a un set fotografico davanti allo specchio del bagno, immortalando i nostri vestiti (e non solo) su Instagram e lamentandosi della musica e di quanto poco la divertissero i tipi lì attorno.

«Ma non lo finisci?» mi aveva poi detto, prendendo la mia bottiglia e scolandola in zero secondi nonostante le mie deboli proteste.

Poi, ormai visibilmente alticcia, si era arrampicata su una piattaforma vicino alla pista da ballo, che faceva da cubo, trascinandomi con lei. Vedevo un sacco di occhi addosso, soprattutto dalle parti del bordo inferiore del tubino. Era la prima volta che montavo su quei cosi e quasi avevo soggezione. Ma non avevo fatto in tempo a prendere dimestichezza con il ballo sotto gli occhi di tutti che lei si era spostata vicino alla consolle, aveva confabulato con il deejay facendosi consegnare il microfono, poi aveva alzato il braccio, scuotendo i capelli e gridando a pieni polmoni "Domani pomeriggio pool party da Cate!"

L'annuncio aveva provocato un misto di risate e applausi tra la folla, qualche «Escile!» e «Daccela!». Io, tra il divertito e il preoccupato, giuro che avevo cercato di riportarla con i piedi per terra:

«Cate, ma sul serio vuoi dare una festa a casa tua in piscina?!».

Ma Cate, nel suo stato euforico, aveva risposto con un sorriso spavaldo «Tanto mica sono a casa, i miei!»

La serata si era chiusa con lei in un bagno, con la testa tra le ginocchia, che pensava a quanto fosse stata ridicola la scena sul cubo, e io che cercavo di rincuorarla e dirle che quelle cose chi è che non le ha fatte, certe cazzate durano l'arco di una nottata e il giorno dopo non se lo sarebbe ricordato più nessuno.

Il giorno dopo, Cate si era svegliata con una decina di messaggi sul telefono: "Ehi, a che ora il pool party?"

Cosa ho imparato fino al 14 agosto: certe dichiarazioni vanno ponderate meglio con il proprio staff.

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