Heroin
A differenza di Ikerne Flores, Espen Valke era arrivato a New York circondato da tutti gli agi possibili. Studente di un college di prestigio, nonostante si fosse ritirato dagli studi, aveva ricevuto, ancora per qualche mese, assegni mensili che gli avevano garantito una vita più che dignitosa nella zona più esterna di Brooklyn. Assegni mensili che i suoi genitori avevano smesso di mandare quando i documenti di Espen Valke erano stati ritrovati per strada, poco lontano dalla scena di un omicidio - morto o assassino, Espen non era più la persona con cui i suoi genitori potevano, o forse volevano, avere a che fare.
Privo di documenti, e ora privo di soldi, Espen aveva vagato per mesi prima di trovare una sistemazione apparentemente decorosa, a casa di una donna messicana dal sorriso buono che non chiedeva molto in cambio di una stanza da letto se non una mano in cucina. Lia, si faceva chiamare, ed Espen era rimasto da lei per tre o quattro settimane.
La buona influenza di Lia, che si era offerta di anticipare i soldi per la denuncia dei documenti smarriti, non era stata abbastanza per un ragazzo che stava perdendo di vista i suoi obiettivi, se poi ne aveva mai avuti. Era facile che Espen tornasse a casa ricoperto di sangue perché vincitore di una rissa, di sangue e fango perché perdente, accadeva sempre più spesso che rientrasse con il naso sporco di polvere bianca.
Lia non sapeva come comportarsi a riguardo - si era occupata di ragazzini danneggiati, prima, ma mai arrivati a quel livello. Non che lei lo sapesse. Il modo in cui Espen si comportava come fosse tutto normale la spaventava più ancora degli atti - vandalici, suicidi, li avrebbe definiti - in sé. Quando ne aveva parlato con suo figlio, lui non aveva avuto risposta se non un altro nome a Lia ben noto.
La donna aveva esitato - mettere insieme due randagi sicuramente non era assicurazione di successo. Ma era un tentativo come un altro, e non aveva niente da perdere.
Espen era chiuso in bagno, ormai da una ventina di minuti, quando la randagia adocchiata da Lia si era presentata dalla messicana. Aveva i capelli più corti di quanto la donna non ricordasse, le guance più scavate, gli occhi più accesi, ma non di una luce gradevole, bensì della luce allarmata della bestia selvatica davanti i fari di una macchina. Tutto nella postura della giovane riportava all'allarme, alla cautela, alla preparazione di una fuga prossima.
"Ti vedo bene", aveva scherzato la donna, staccando dai capelli della giovane quello che sembrava un parassita ma, in grazia di Dio, si era rivelato solo un calcinaccio.
"Non cincischiare, Lia", se era lì, era per la promessa di un pasto caldo, e di un posto dove passare la notte, Lia lo sapeva, non per farle un favore, non per occuparsi di un'anima persa. Ogni traccia di empatia era scivolata via dall'anima di quella ragazza il giorno in cui aveva lasciato casa e aveva cominciato a vagabondare, la saliva alla bocca mentre cercava cibo, le unghie pronte a graffiare per proteggere un panino, un punto assolato, una fonte di calore. O forse quell'empatia era solo ben nascosta, difesa dallo scudo di indifferenza che la ragazzina indossava. Lia lo sperava. "Dov'è il caso perso?"
Non c'era più spazio per baci sulle guance, scherzi e pizzicotti. Quella non era più la bambina che conosceva. "In bagno. Se riesci a farti aprire".
Espen Valke era stato bravo a nascondere almeno quel segreto, almeno fino a quel momento. Sapeva quanta poteva permettersene, ogni quanto. Non c'era bisogno che Lia si preoccupasse, che Julian cercasse per tutta la casa le scorte e le siringhe. Espen sapeva il fatto suo.
Stava mordendo il laccio improvvisato, nel tentativo di tirarlo e stringere la presa abbastanza da portare in superficie la vena, così da non sbagliare la mira. Non amava bucarsi, non proprio, ma la sensazione di piacere che veniva dopo era - non esagerava - l'unica cosa che lo portava a trascinarsi avanti giorno dopo giorno.
Che altri motivi aveva, d'altronde? Con la carta di identità e il passaporto aveva perso, così credeva, ogni possibilità di identificazione. Non avrebbero voluto un drogato senza nome a casa, immaginiamoci al college. E quella non era vita. Pesare sulla vita di un angelo e suo figlio in cambio di un aiuto in cucina non era vita. Anche perché Espen non sapeva cucinare.
Imprecò, strattonando il laccio che si sciolse anziché stringersi attorno al braccio. "Da-"
Sentì un botto, e per un attimo, tutto quello che vide fu la delusione sul viso di Lia. Solo dopo i suoi occhi stanchi misero a fuoco quello che inizialmente aveva pensato essere Julian, ma no, Julian non era così basso, e sicuramente non indossava calze a rette sotto i jeans più strappati che Espen avesse mai visto. E più sporchi. Era fango, quello?
"Dai subito a me la siringa, e nessuno di noi due si farà male nei ventitré secondi a venire", lo sguardo di Ikerne Flores era di ghiaccio nonostante Espen non avesse mai visto occhi di un colore più simile a quello della Nutella. "Dal ventiquattresimo secondo in poi, non prometto nulla".
Espen sbatté le palpebre. Lia era svanita, ma era certo di aver sentito un singhiozzo da parte sua. Si sentiva in colpa, in parte. Sembrava non essere in grado di causare altro che dolore, con le sue stupide scelte, eppure continuava a pensare Lia non avesse voce in capitolo. Lia non era sua madre. Lia lo aveva accolto, gli aveva dato delle regole da rispettare, e lui lo aveva fatto. Erano pari. Non dovevano niente l'uno all'altra.
Prima che se ne rendesse conto, Ikerne Flores era seduta davanti a lui, e non solo - gli aveva anche tolto di mano la siringa, la cui punta era, ora, troppo vicina alla sua gola.
"Non sono mai stata brava con i numeri in inglese. Per quanto mi riguarda, twenty-three viene subito dopo five. E five seconds sono passati prima che tu lasciassi la presa su questa mierda", le labbra della ragazza erano gonfie, livide a lato. O aveva preso parte a una rissa, e non ne era uscita vincitrice nel senso vero e proprio del termine, o aveva un partner particolarmente violento a letto. "Visto che non hai problemi a iniettarti con questa roba, che ne diresti se te ne iniettassi una dose in gola? Para la ciencia, claro, niente di personale".
Espen si era limitato a deglutire, nella speranza che la punta della siringa fosse ancora lontana dalla sua pelle.
"Oppure...", Ikerne si rigirò la siringa tra le dita, prima di staccare l'ago, premere lo stantuffo per riversare il contenuto biancastro sul pavimento. "Puoi venire via con me".
"Lia mi sta sfrattando?", chiese Espen, guardando con orrore l'eroina sul pavimento. Non ricordava quanto gli era costata, ma cazzo, se non voleva che se la iniettasse, Ikerne poteva almeno permettergli di tenerla. Per rivenderla. Per rivenderla, ovviamente.
"No. Sono io che ti sto tirando fuori da una situazione di merda", la messicana si era alzata, aveva calpestato l'eroina perché ad Espen non venisse in mente di sniffarla dal pavimento, e ora gli tendeva la mano. "Non che la situazione in cui ti porterò sia tanto più brillante, sia chiaro, sono un cane randagio, non la fata madrina. Ma forse avrai un po' di voglia di vivere in più, lì. E droghe a volontà, e alcool quasi quanto ne vuoi. Non eroina, però. Perché se vedrò buchi sulle tue braccia, o polveri sospette sui tuoi vestiti, ti bucherò i polmoni così che il tuo cadavere non galleggi nell'Hudson".
Era terrorizzato. Non lo avrebbe ammesso, non davanti a una ragazza che ora gli tendeva la mano ma era perfettamente in grado di ucciderlo - ne era certo -, ma Espen Valke era terrorizzato. La stretta di Ikerne Flores attorno al suo polso nel farlo alzare in piedi era un biglietto di sola andata per l'Inferno.
"Cosa dici, Valke? Preferisci essere un cadavere che cammina, o un cane?"
Erano bastati dieci minuti per mettere assieme tutti i possedimenti di Espen - tre cambi di pantaloni, due camicie, un giubbotto per l'inverno, due pacchetti di sigarette, qualche dose di quella che a Ikerne sembrava ice. Avrebbe dovuto ricontrollare, ma quello era il momento di lasciare casa di Lia, non di mettere le mani addosso ad Espen.
Prima di uscire, con una mano premuta contro la schiena dell'adolescente riottoso, Ikerne aveva sorriso a Lia, e quel sorriso le aveva scaldato il petto con la speranza, l'aveva ammorbidita così che accogliesse senza remore la bugia che la ragazzina avrebbe pronunciato con disarmante facilità. "Oh, non te l'ho detto! Tra un paio di mesi comincio il college, Lia. Non dovrai più preoccuparti per me".
DT: AstridPurple
Non avevo degli OC così problematici da un annetto circa 🤷🏻♀️
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