𝚠𝚎 𝚊𝚛𝚎 𝚝𝚑𝚎 𝚗𝚎𝚠 𝚊𝚖𝚎𝚛𝚒𝚌𝚊𝚗𝚊

ve lo dico prima per farvi preparare psicologicamente, questo è l'ultimo capitolo della storia !! ho detto che sarebbero stati due ma scrivendoli mi sono resa conto che sarebbe stato soltanto me che cerco di allungare il brodo per evitare di prendere atto che questa storia stava finendo; ho preso coraggio, li ho uniti, that's out final besties, we made it :D

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Una scena già avvenuta.

Suole degli anfibi sul selciato, vestiti che apprezzo e contemporaneamente su me stesso temo, aria fredda, amici, vociare, il profilo del liceo che si staglia di fronte a me.

Il peso mancante degli occhiali sul ponte del naso, l'ansia e l'insicurezza di mostrarmi un po' scoperto, ginocchia che tremano, dita che si stringono sui jeans, cuore in gola, non tanto, quanto basta.

È una scena già avvenuta.

Ne ho vissute diverse, in questo periodo, di scene già avvenute.

Questa mi colpisce, però, più di tutte le altre.

Non mi è difficile tornare al me stesso di allora, mi è agrodolce a fronte di quel che è successo dopo, ricordo bene come si sono svolti gli eventi, altrettanto come mi sentissi quando questa scena, che è già avvenuta, stava avvenendo.

Offrirsi allo sguardo altrui, mettersi in mostra, chiedere di cosa sapessi a chi di me poteva prendere parti che eccezionalmente stavo concedendo, sperare in qualcosa che non avrei avuto, deludermi degli eventi che io stesso avevo programmato.

Un altro ragazzo, ad aspettarmi con le braccia conserte all'esterno, un'altra persona, una che forzatamente mi costringevo a cercare nel tentativo di tenermi saldo me stesso, non rendendomi conto, allora, che se privarmi m'illudeva del controllo, darmi la possibilità di avere, non mi pone nemmeno il problema.

Ero a disagio.

Ricordo quanto fossi a disagio.

Ora non ci sono più.

Ricordo che ora, non lo sono più.

Amare non cambia.

Amare lenisce.

Amare aiuta.

Amare insegna.

Amare mi ha reso quello che sono.

Amare mia madre mi ha concesso di amare di lei il figlio, con i difetti, le disabilità, le croci inchiodate alla schiena da qualcuno di cui non si poteva sapere il nome, ho amato lei, ho amato quel che lei ha generato, trovando comprensione, rispetto.

Amare Denki mi ha donato la leggerezza, la gioia, mi ha insegnato la pazienza e la condivisione, a piegarmi in due dal ridere seduto su un tappeto, a cercare conforto in paio di mani che non stanno mai ferme, a difendere ciò che c'era di vulnerabile, sapendo che allo stesso modo, le mie vulnerabilità sarebbero state difese.

Amare Kyōka mi ha reso riflessivo e paziente, mi ha rivelato che alle volte il contatto è più che toccarsi con le dita, più che starsene vicini, è lasciare che le persone vedano, che entrino, che si esprimano, che si avvolgano e si lasciano avvolgere.

Amare la scienza mi ha consegnato il rigore, mi ha insignito di un obiettivo, di un termine, di un fine, mi ha trasformato in qualcosa che si evolve, si evolverà sempre, cercherà, curioserà, aspetterà, imparerà ogni momento.

Amare Eijirō mi ha riportato a casa.

Forse è proprio per questo, che ad amarlo ci ho messo più di quanto non abbia mai avuto la necessità di fare con gli altri.

Perché mi ha riportato a casa.

Perché amare la mamma e amare Denki e Kyōka e la scienza mi ha plasmato, e per amare Eijirō, invece, non era di plasmarmi, l'istinto, ma quello di assumere statico la mia forma, e stare in piedi dentro di me e dire che sì, io sono così, sono così e ti amo, sono così perché ti amo, sono così mentre ti amo.

La passione è giovane, la mia lo è, ho diciotto anni, i bisogni corporei si muovono con l'età.

Amarlo però è un atto adulto.

È smettere di essere un ragazzo.

È dare a me stesso un contesto che non posso cambiare, che non modificherò, che rimarrà così, è una decisione da grandi, anche se alla fine, non decidi di farlo, ti succede e basta.

Amarlo è amarmi, ma è anche amarmi di meno, perché se prima le mie priorità e i miei doveri legavano al mio animo principalmente me stesso, ora che so che lo amo, il mio star bene e il suo sono direttamente proporzionali.

La mia mamma è la terra che ho sotto i piedi.

Denki è il cancello, Kyōka la porta, la scienza l'arredamento.

Ma tu sei la mia casa.

In questa scena che è già avvenuta, io ora non ho più paura di tornare a casa.

I miei amici mi spingono, mi toccano, mi mandano avanti, mi fanno sorridere, perché sentire le loro mani sulla pelle, è parte di me.

La ghiaia scricchiola quando ci cammino sopra.

La luce è colorata ed è soffusa, la maglietta che indosso è fluorescente, mi sembra d'illuminarmi come uno di quei bastoncini colorati delle discoteche, occhi su di me, ma non m'interessa, io torno a casa.

Il tuo corpo, mi piace, il tuo profumo, come mi avvolgi, come mi abbracci, come mi tieni stretto contro di te. Il tuo sorriso, la felicità chiara e palese che provi nei miei confronti, i capelli scarlatti, le spalle ampie, l'adorazione che ti brilla negli occhi. I baci, le carezze, l'arruffarmi i capelli che Denki aveva pettinato e per cui ti prenderà a calci, il controllare che io non abbia freddo, che sia comodo, il dirmi che sono bello. Le reazioni che generi in me, persino, mi piaccio mentre rispondo che sei bello anche tu, mentre ti guardo e mentre ti amo, mi piaccio perché ti amo, perché renderti felice è un privilegio come è un merito, perché tu qualche volta ti odi, e sento di poterti dire che se ti odi ti amerò io abbastanza per entrambi.

Lo so che il mio problema è nato con me.

Lo so perché sono sempre stato così rigido, così inflessibile e scostante, lo so perché ho sempre avuto paura di tornare a casa.

Perché quando lo fai, allora devi prendere atto che la battaglia è sospesa, che va tutto bene, che le cose così come sono ti piacciono e tanto vale, e questo, per me, che ho sempre lottato con le unghie e con i denti per dire a chiunque che non sono uno scarto difettato ma una persona che ha valore, non è mai stato facile.

Ho combattuto con ogni arma possedessi per insegnare al mondo e a me che essere sordo non era un limite.

E poi la sordità è diventata qualcos'altro e non era solo quello, era tutto, ogni problema, ogni caratteristica, ogni tratto era difetto da dimostrare al mondo come degno, da difendere per definire la mia dignità.

Ho chiuso per respingere.

Tu mi hai insegnato ad aprire per accettare.

Tornare a casa è dire che va bene lo stesso, perché non c'è niente da dimostrare, perché è vero, che ho dei problemi, ed è vero che sono fragile ed è vero che alle volte sono debole e sono delicato e sono timoroso e timido e allora non importa, perché basta coprire, basta nascondersi, posso amare anche così, puoi amarmi anche così, andiamo bene anche così.

Magari domani la penserò diversamente.

Magari domani starò di nuovo male.

Allora tornerò a casa, come a casa sono ora, e per una volta, anche se niente sarà andato bene, anche se avrò fallito, anche se sarò stato il peggiore e il più scarso e il più stupido e il più problematico, mi dirò che va bene così, perché sono a casa, e qui vado bene in qualunque modo io sia.

Questa è una scena già avvenuta.

Prima però cercavo ancora di mantenermi saldo nel mio star fuori dalla porta, ostinatamente in piedi sul vialetto, nel rifiuto del conforto che disperatamente credevo non servirmi.

Invece adesso, adesso sono a casa.

Eijirō mi tira su come Shinso ha fatto quella volta con Denki. Apre gli occhi sui miei e la gestualità è diversa, differente, ma il sentimento è lo stesso, quello che invidiavo, quello che volevo.

Non dice "sei bello quando ti ricordi di avere diciott'anni", non dice "wow, non ti avrei riconosciuto", dice "sei bello" e basta, perché non c'è bisogno di corredare il complimento con nessuna eventualità, lo pensa, lo dice.

Parla ad alta voce, forse fin troppo, sentono tutti, mi sento in imbarazzo.

Glielo dico.

Scuote la testa.

"Che sentano", perché per te, che sappiano che mi ami, è un punto d'orgoglio, non una nota d'imbarazzo.

Ci sono gli amici, amici miei, tuoi, nostri, forse, conoscenti, magari, parti di quello che siamo.

Balliamo? Andiamo a bere? Rimaniamo qui a chiacchierare?

Non ho voglia di buttarmi nella mischia, Eijirō dice di andare verso gli alcolici passando da fuori, gli chiedo se voglia bere, incastra le sopracciglia, sì e no, sì ma no, sì ma niente, perché ne hai il diritto, verso te stesso il dovere, forse giusto la possibilità.

Rido perché la birra fa schifo ed Eijirō si offre di berla al posto mio. Fa una faccia buffa, a mandarla giù, non credo piaccia nemmeno a lui. "Non costringerti", "lo faccio per te", "ci sono altre cose che puoi fare per me". Abbassa le sopracciglia, mi guarda di sbieco, sorrido, flirto, scherzo, sorride, accetta, lui forse scherza meno di me.

Alla fine ballano solo Denki e Mina, come l'altra volta, e io ed Eijirō chiacchieriamo con Hitoshi per un po', tiriamo giù qualche shot spuntato da non si sa dove, scherziamo sullo sgabuzzino, quella volta che ha rotto un armadietto, quella volta che ero fidanzato con la persona sbagliata.

S'incupisce.

Bacio via la sua afflizione.

"Alla fine sono tornato da te", ripeto, e dice "lo so, ma quella sera ho faticato" e dico "anch'io, ma non so come farmi perdonare" e lui sorride, scuote la testa, "perdonare di che, era la situazione che faceva schifo, so che tu stavi facendo solo quello che ti sembrava giusto", occhi negli occhi, "scusami di averti ferito, Eijirō", labbra sulle labbra, "non mi hai ferito, e ti avrei aspettato anche se ci avessi messo cinquant'anni".

Quando sentiamo le punte delle dita farsi più intorpidite e le parole più sbavate usciamo, avevamo parlato della rimessa sul campo, ma non ci arriviamo mai, mi trascina a terra sull'erba, ride, rido, faremo sesso un altro giorno, amarci per oggi è sufficiente.

Le stelle gli brillano negli occhi, non perché le veda apparigli nell'iride, ma perché la superficie riflettente della cornea tinteggia di quel che vede il suo sguardo, c'è il cielo, immerso là dentro. Ha lo sguardo dolce, forse addolcito, mi stringe al suo fianco, ascolto il battito del suo cuore con l'orecchio premuto sul suo petto.

"Mi sento in colpa perché ho bevuto", "hai paura che le tue mamme si arrabbino", "no, l'alcol ha troppe calorie", "Eijirō, senti che i problemi stanno tornando, vuoi parlarne", "no, volevo solo dirlo ad alta voce".

Fiato, aria, respiriamo.

"È meglio se lo dici ad alta voce", "sì, perché tu mi guardi come se avessi detto qualcosa di assurdo", "sai che credo sia assurdo", "sono felice che per te lo sia, vedere sulla tua faccia che per te pensare che io sia brutto sia assurdo mi convince che lo è anche per me".

Notte, luci, stiamo stretti sull'erba.

"Tu non sei brutto, il mio ragazzo non è brutto, non ti permettere", "se no che cosa mi fai", "ti do fuoco", "lo faresti", "probabilmente no, ma potrei provarci".

L'erba è umida, inizia a far freddo, amare è anche un po' riscaldarsi, però, perché non riesco a star male.

Dita che s'intrecciano, gambe accavallate, prima siamo vicini, poi sono steso sopra di te, Kyōka e Momo ci salutano, la rimessa la useranno loro, faccio spallucce, Eijirō ride, agita la mano.

Mani, labbra, capelli, decenti perché in pubblico, affettuosi anche solo perché ci va, baciami perché possiamo, perché dobbiamo, perché vogliamo.

"Ti amo", "ti amo anch'io".

Naso che sfiora il naso, penso che mi piace l'odore del suo sapone, o dell'ammorbidente, qualsiasi cosa sia.

"Quando finisci l'università ci sposiamo?", "perché quando la finisco io e non tu", "perché tu la finirai prima che sei più bravo così facciamo prima", "ok", "ok che la finisci prima o ok a sposarmi", "tutte e due le cose", "davvero", "giuro".

Hai ancora le stelle negli occhi.

Mi sento stomachevole a pensarlo, ma sono più belle là che in cielo, e non te lo dirò mai, non lo dirò mai a nessuno, ma sono contento di averlo pensato.

"Poi prendiamo un cane", "ho paura dei cani", "un gatto", "un gatto va bene", "vuoi dei figli", "orientativamente no, tu", "non ne ho idea", "ci penseremo quando sarà il momento", "amo che tu creda quanto me che arriverà il momento", "amo te, per questo lo credo".

I polpastrelli si sfiorano, di nuovo le labbra, poi sono stretto, tu mi stringi, non respiro tanto bene, forse lo faccio perfettamente.

"Grazie di amarmi", "grazie di amarmi".

Non si dice grazie dell'amore.

O forse si dice, non lo so.

Lui lo dice, io lo dico.

Non grazie del gesto, non grazie del sentimento, grazie di amarti e amarmi perché ti ami, grazie di amare, di saperlo fare, di non averne paura. Grazie Eijirō di aver avuto pazienza, grazie Katsuki di aver finalmente capito, grazie e basta, perché forse non ha senso, ma è tanto bello dirlo, e anche sentirselo dire.

Grazie, perché grazie è accettare con piacere, riconoscere l'altro, mostrare gentilezza.

Amare è anche gratitudine.

Non nei confronti di chi ami, non solo, quantomeno.

Gratitudine.

Come concetto.

Trascendentale.

Grazie al mondo di avermi fatto in grado di amare, grazie a chi mi ha detto cosa fosse, grazie a me che lo faccio, a te che mi permetti di farlo, grazie, e basta, solo grazie.

Amare è amore per se stessi.

Per gli altri.

Per qualcosa e per tutto e per niente.

"Grazie di amarmi".

"Grazie a te".

Petto sul tuo petto, cuore contro il tuo cuore, le nostre ciglia si abbracciano, gli sguardi s'incatenano, ci sono momenti in cui mi guardi e mi capita di viverti solo dentro le iridi. Il mio viso sorride, poi lo fa anche il mio animo, ci sono in te la cura, la passione, la devozione, l'orgoglio, emozioni che lusingano ciò che di me mi piace, rammendano ciò che ancora cerco di ricucire assieme.

Spero di guardarti allo stesso modo.

Spero che immergerti nel mio sguardo ti sia altrettanto profondo.

Non so se riesco.

Per te ci provo.

"Ci sono così tante cose che non vedo l'ora di fare con te", "tipo", "quelle cose da film, tipo andare al mare, diplomarci, scegliere le sedie di casa, ridere da vecchi sul porticato pensando a cosa facevamo vent'anni prima".

Storco il naso, mi bacia via il broncio dal labbro superiore, ride, rido, appoggio l'orecchio sul suo sterno, il sangue che fluisce nel suo cuore che batte culla i miei pensieri.

"Sei un ruffiano", "sempre stato, sempre sarò", "ti amo perché sei un ruffiano", "lo so che lo fai".

Immerso nella tua cassa toracica, difeso dalle tue costole, mi pare di starti dentro, di guardarti dall'interno, di avere in te il calore e la protezione di qualcuno che non me li consegna sperando che mi servano, ma fa invece il contrario, sostiene sapendo che so camminare da solo.

Amare è anche rispetto.

È anche sapersi dire che amare non è essere uno ma connettere due, dunque mescolare senza sperare di raggiungere l'omogeneità, guardare le differenze, lasciarle dove sono, curarle come se fossero le proprie.

Rispetto come sei.

Amo ciò che sei e rispetto come sei, quindi sii diverso, contraddicimi, dimmi che la pensi diversamente, i tuoi pensieri non necessariamente avranno la mia comprensione, sempre dovranno avere il mio rispetto.

Amare è limiti, è confini, è bordi, amare è star dentro quelle linee senza pretendere di uscire, da una parte ci sei tu, da una ci sono io, incontriamoci a metà, non sfondiamo le righe di quello che abbiamo bisogno di essere.

Amare non è condividere tutto.

È condividere volentieri.

È dare quel che voglio darti e volerti dare quel che ti do, è aprirmi sapendo che mi accoglierai aperto, chiudermi senza paura che tu giudichi la mia chiusura.

Amare è delicatezza, per me.

Eijirō è delicato.

Spero di esserlo anch'io con lui.

"Tu hai paura che quando finiremo il liceo le cose fra noi cambieranno", "no, tu", "credevo ne avrei avuta, invece no", "potrebbero cambiare mille cose nella mia vita ma di te non smetterò mai di essere sicurissimo", "ecco, questo, dillo tu che sai dirlo meglio".

Polpastrelli sul tessuto della maglietta, hai i bordi che sfumano stanotte perché per metà mi sento reale e per metà mi sento sogno, ti sto toccando, ci stiamo toccando, o siamo idee che collidono?

"Poi magari avremo qualche problema andando avanti e dovremo riorganizzarci su un po' di cose ma non è niente che mi spaventi", "sì, lo pensavo anch'io, alla peggio ne parliamo e lo risolviamo", "basta che non ti metti con un altro", "pure tu, per favore, anche se è biondo con un carattere del cazzo", "non basta che siano biondi con un carattere del cazzo, dovrebbero essere te, e comunque sceglierei te e non loro anche in quel caso".

Ride, rido, stelle in cielo, stelle su di te, stelle contro la mia schiena, tornerò qui, in futuro, lo so già, sento che stare qui con te questa sera è porre fondamenta a quel che costruirò più avanti.

"Sembri molto sicuro che non mi lascerai mai", "ma che lo sembro, lo sono", "e come fai ad esserlo", "che domanda è, ti sei visto, mi hai cambiato la chimica del cervello", "sei un cretino", "scusa, ma non sei sicuro anche tu che non mi lascerai mai", "certo che lo sono", "e tu come fai", "trovo scientificamente pressoché impossibile trovare qualcuno che mi piaccia più di te", "stai dicendo la stessa cosa che ho detto io ma credi di dirla meglio perché parli meglio", "stai zitto".

Mani sulla vita, sulle spalle, per un po' siamo una sola figura sul prato di notte, non cerco la forza, né di dimostrarla né di averla, accetto la mia insignificanza nei confronti del mondo, sono un granello di sabbia, ma sono felice in questo deserto.

Amare non è smettere di combattere.

Amare è solo prendere fiato.

Sapere che ricomincerai, che riprenderai fiato, che sarai quel che sarai e poi magari qualche volta non lo sarai più, è essere, amare è essere, e non detestare esserlo.

Amiamoci diversi.

Nel farlo saremo uguali.

Mi ami così tanto che il tuo amore per me non è un bisogno.

È un lusso.

Il tuo amore non mi conduce, mi tiene solo la mano.

Non svelarmi la via, la so da solo.

Rimani al mio fianco, e torniamo a casa assieme.

Di anni ne ho ventuno, non più diciotto, quando diversissimo ma similissimo al me stesso del liceo impreco sottovoce, spingendo con tutte e due le mani la porta tagliafuoco di una palestra che è grossa tre volte quella a cui ero abituato da adolescente.

Ho i capelli un po' più corti, Denki ha provato a tagliarmeli in sessione e dopo aver conciato il bagno una merda ci siamo resi conto che erano pure tutti storti, quindi ho sprecato il doppio del tempo, perché dal parrucchiere ci sono dovuto andare per forza, e ho un anellino sul bordo di un orecchio, mi piaceva, mi sono buttato.

Ho una legge di Maxwell tatuata su un polso, ho cambiato l'apparecchio acustico, mi sono comprato un crop top di mia proprietà, qualche volta lo metto senza imprecare, sembra strano persino a me.

Ho conosciuto uno stronzo al laboratorio del secondo anno, ha i capelli verdi, lo odio, è quasi più bravo di me, e ha uno strano fidanzato emo coi capelli metà e metà che mi dà i brividi, mi guarda storto, non so se sia lui o la sua faccia.

Sono a tre esami dalla laurea, sono in alto mare nella scelta della magistrale, studio come un cane, mi piace quel che studio, fare solo questo mi ha reso più felice, fatico, ma con soddisfazione.

Io e Eijirō stiamo, chiaramente, ancora assieme.

Le suole delle Converse squittiscono sul pavimento di ardesia, intravedo il familiare ammasso di uomini mezzi nudi, scorgo il mio, mi fermo, si accorgerà da solo che ci sono, lo fa sempre.

Più cresce più diventa bello.

È sempre più bello.

I tratti del volto perdono la gentilezza dell'adolescenza, si affilano, e il corpo diventa più solido, più adulto, è splendido ogni giorno che passa, ogni giorno di più, se qualcuno mi avesse detto che avrei continuato a guardarlo sbavando per anni, forse avrei riso, ma avrebbe avuto ragione.

Anche lui è un po' cambiato.

I capelli se li è tagliati pure lui, ma taglio netto, corto, sempre l'undercut, ma niente più ciocche scarlatte attorno al viso, all'inizio è stato un lutto, poi ci ho fatto pace, rimane comunque perfetto.

Mangia a tutti i pasti, e se non ha voglia di mangiare si presenta sotto l'appartamento universitario – disastroso – mio e di Denki e lo fa lo stesso, si fa imboccare, però mangia. È tornato dallo psicologo, lo aiuta, sono tanto fiero di lui.

Ha anche lui un tatuaggio, è piccino sul lato del busto, l'ha fatto con Mina, è la conchiglia delle Principesse Sirene, mi ha detto che lo guardavano in ricovero, ho riso, ho scosso la testa, per essere un metro e novantasette – il bastardo ancora osa crescere – di muscoli e lineamenti severi è davvero un pasticcino.

Non è proprio una cima, all'università. Ci prova, riesce coi suoi tempi, anche di questo sono tanto fiero di lui.

Ha degli amici nuovi, uno è un suo compagno di squadra, ha un nome tanto improponibile che credevo i suoi lo odiassero, ma poi Eijirō mi ha spiegato che se l'è scelto da solo, il suo nome, e allora sono giunto alla conclusione che dev'essere proprio lui, che è cretino. Tetsutetsu Tetsutetsu, che cazzo di nome è? C'è un vantaggio solo nell'avere un deadname e questo stronzo l'ha proprio buttato nel cesso. È simpatico. È troppo scemo, però.

Mi hanno spiegato che sono tipo fidanzati della palestra. Non è che avessi afferrato tanto l'idea, all'inizio, ero solo confuso e un po' preoccupato, ho chiesto se avessero intenzione di farci sesso, in palestra, mi hanno guardato come se avessi otto occhi, mi sa che è un modo strano di dire che sono molto amici, non ne ho idea, certe cose mi sa che non le voglio sapere.

È qui, tra l'altro, il famoso Tetsutetsu Tetsutetsu, che suda e ride come il mio ragazzo, due cicatrici lucide sul petto in mostra come trofei, le spalle larghe, il sorriso smagliante, i capelli d'argento che non so come riesca a mantenere di quel colore tanto lucido.

Mi nota prima di Eijirō.

Mi saluta agitando la mano.

Il mio fidanzato si accorge che c'è qualcuno dietro di lui, si gira, e io mollo per terra la cartella che portavo a tracolla perché so cosa sta per succedere.

Sospiro.

Apro le braccia.

Circa cinque secondi dopo sono in aria agitato come una coscia di pollo dentro una bustina, mi scuote, mi sbatte da una parte all'altra, io sto solo fermo a ridere sperando che non mi distrugga la scatola cranica.

– Katsuki! Non mi hai detto che saresti passato! Ciao Katsuki! È tutto il giorno che mi manchi! Ragazzi, venite a salutare l'ingegnere! Lo sapete che l'ingegnere è il mio ragazzo? È lui! Da solo è più sveglio di tutti noialtri insieme! Sa fare le divisioni a mente! –

Rido così forte che mi fa male la pancia.

È così scemo.

È così...

Poco alla volta smette di agitarmi, mi strizza al petto e anche se è tutto sudato e dovrebbe farmi schifo, non mi fa schifo, e sospiro contro di lui.

– Ci siamo visti stamattina, Ei. E i tuoi amici lo sanno che sono il tuo ragazzo, lo dici ogni volta che vengo. –

– E se si dimenticassero? Oh, non lo sopporterei. –

– Parli così tanto di me che ho seri dubbi questo potrebbe mai accadere. –

– Infatti non accadrà mai! –

Rido ancora, mi scosta poco, stampa le labbra sulle mie in un bacio un po' da nonna, schiocco rumoroso e gesto plateale. Poi, ancora coi miei piedi che penzolano nell'aria, mi gira verso gli altri. Rivolgo loro un saluto con la mano, come la mandria di cretini che sono mi rispondono urlandomi come se fossi una star di fama mondiale.

Torno ad Eijirō.

– Stasera Denki va da Hitoshi, vieni a dormire da me? –

– Sì, certo, certo. Anzi, se mi aspetti un'oretta finisco qui e torniamo insieme. L'ufficio del coach è libero, puoi metterti a studiare là. –

– No, ho il cervello che cola dal naso, ho fatto pure lo straordinario in laboratorio, mi sa che torno a farmi una doccia e ti aspetto là. –

– Come vuoi. –

Mi bacia di nuovo, un po' meno nonna, questa volta, più bambino che cerca le attenzioni, o ragazzino che non sa come staccarsi dalla prima cotta.

– Sei passato a salutarmi perché volevi vedermi o perché mi devi dire qualcosa nello specifico? Sarei al settimo cielo in qualsiasi caso, ma giusto per sapere. –

– La prima, ho avuto una giornata infinita, volevo solo rilassarmi un po'. –

Mi sorride, dolce, affettuoso, casa come casa è sempre, strofina la punta del naso contro la mia, la tensione evapora dai miei muscoli come se nemmeno ci fosse mai stata.

– Hai litigato con Midoriya al laboratorio anche oggi? –

– Grazie a Dio non c'era. Ma ho dovuto fare assistenza a dei gestionali che in tre avranno avuto un quinto di neurone, è stato deleterio. Credo di aver finito quel poco di pazienza che avevo in corpo. –

– Piccolo Kat, ti svenano. –

– Lo fanno, oh sì che lo fanno. –

Piano e con calma mi mette giù, mi aggrappa le dita fra i capelli, toglie le ciocche dal viso e studia i miei tratti con divertimento e attenzione.

– Ti hanno trattato bene, almeno? O sono stati dei cafoni? –

– Una via di mezzo. Uno ad un certo punto mi ha chiesto se avessi il ciclo. –

– Ti prego, dimmi che non è vero. –

Faccio spallucce.

– Ti ho sfruttato per minacciarli. Avrei potuto fare da solo, è vero, ma certe volte mi dico che alla fine ha anche i suoi pro avere il fidanzato alto come una pertica. –

Eijirō è abbastanza conosciuto nel campus, è bello come il Sole, è socievole, tutti lo adorano e tutti gli vogliono bene, se alle volte posso far leva sulla sua popolarità e il suo aspetto per levarmi qualche impiccio lo faccio, so benissimo cavarmela da solo, mi capita però anche di non averne voglia.

– Gli hai detto che li avrei presi a pugni? Perché non so se lo farei, ma se vuoi posso fare finta. –

– Nah, ho soltanto suggerito che chiedessero a te se avevo il ciclo, visto che sei in confidenza con le mie parti intime. Successivamente ho anche chiarito che non gradisci chi cerca di curiosare, su suddette parti intime. –

– Ha funzionato? –

– Mi ha chiesto scusa prima che finissi la frase. –

– Sono contento di essere stato d'aiuto, allora, anche se non lo sapevo. –

Mi bacia il ponte del naso, le dita giocano col colletto della mia maglietta.

– Stasera che si fa? Se non hai voglia di cucinare passo a prendere qualcosa prima di rientrare, ho la carta dei punti del ristorante thailandese piena, ci becchiamo pure lo sconto. –

– Oh, sì, ti prego, prendiamo il thailandese. Mi va. Ci stavo pensando prima. –

– Perfetto. Sempre il solito? –

– Sempre il solito. –

Appoggio una mano su uno dei suoi fianchi, ha la pelle lucida di sudore, fa attrito contro i miei polpastrelli.

– Non stancarti troppo che ho tonnellate di stress da scaricare. Mi servi bello sveglio. –

– Mi stai per caso trattando come se fossi il tuo toy boy? –

– Me lo stai davvero chiedendo come se ti dispiacesse? –

Ridacchia, capitola piegando il capo.

– Agli ordini, maestà. Arriverò a casa sua pronto per il campo di battaglia. –

– Bravo, così ti voglio. –

Mi vibra il telefono nella tasca, spiaccico la faccia contro il petto del mio ragazzo, mugugno sottovoce.

– Mi guardi chi mi ha scritto? –

– Tasca destra o sinistra? –

– Cercalo da te, oggi sei carino, puoi toccarmi il culo. –

Il suo petto trema in una risata sottile, tasta un po', ma prende il telefono senza indugiare troppo, siamo pur sempre in pubblico.

– Denki chiede se avete finito la carta igienica. Dice che è in un bar troppo costoso e che la ruba dal loro bagno, nel caso. –

– Sì, l'abbiamo finita. Rispondigli. –

– Che scrivo? –

– Boh, "slay queen ruba la carta igienica". –

Obbedisce.

– È uscito con Hitoshi? –

– No, credo si sia fermato a bere qualcosa prima di andare da lui. Stamattina è stato dal commercialista e sai che per lui è come la sedia elettrica. –

– Povero Denks. –

– Puoi dirlo forte. –

Anche lui, è cambiato come noi. I capelli no, i suoi sono rimasti indenni, ma col suo ragazzo ci hanno dato dentro coi tatuaggi, ne sono entrambi quasi ricoperti. Alla fine l'università non l'ha scelta, ancora ci pensa, ma è più rilassato nei confronti di questa cosa, vederlo tranquillo con le sue scelte mi rende più felice di quanto avrei mai immaginato.

Lavora in uno studio fotografico, adesso. Sta spesso dietro all'obbiettivo, costumi, trucco, dà una mano con quello, ma è capitato qualche volta che gli chiedessero di cambiare lato, e ho l'impressione che questa cosa potrebbe succedere sempre più spesso.

Denki è una faccia che non ci si dimentica.

Una bella, bellissima faccia che non ci si dimentica.

Qualche volta non se ne rende conto, ma per un certo tipo di estetica, è praticamente l'apoteosi.

– Kyōka e Momo quando tornano dalla Francia? – borbotto.

– Domenica. Io e Mina stiamo aspettando questo momento da un'era, non facciamo la nostra serata Cosmopolitan e Gossip Girl da troppo. –

– Sì, anche a me manca la mia pazza. Le ho fatto un pedale per la chitarra elettrica a lezione, me lo deve provare. –

Si sono sposate.

Kyōka e Momo si sono sposate.

Tre mesi dopo la fine del liceo.

Vorrei non scadere in stereotipi beceri, ma purtroppo devo farlo, è proprio vero che le lesbiche bruciano tutte le tappe.

Ecco, a proposito di matrimonio...

– Ah, ecco, forse invece avevo una cosa da dirti. –

– Cosa? –

– Ho prenotato gli ultimi esami. Ho le date, fine maggio, inizio giugno. Dobbiamo iniziare ad organizzarci. –

– Per la laurea? –

– Per metterci il cazzo di anello al dito. –

Eijirō s'irrigidisce per un secondo, poi mi prende dalle spalle e mi separa da sé, mi guarda negli occhi, l'espressione è, persino per me, indecifrabile.

Passano diversi istanti di silenzio.

Poi sbatte le palpebre.

I suoi occhi riemergono lucidi.

– Te lo ricordi? Tu te lo ricordi ancora, di quando... –

– Di quando ce lo siamo detti al ballo sul prato? Certo che me lo ricordo. Ho una memoria infallibile, lo sai. Perché diavolo credi che studi così tanto? –

– Per laurearti col massimo dei voti? –

– E per farlo più in fretta possibile. –

Tira su col naso.

Guarda verso un punto alle mie spalle.

Mormora fra sé e sé "non piangere, Eijirō, non piangere, ce la puoi fare", rido alla sua reazione.

– Quindi tu vuoi ancora... insomma, cioè, tu vuoi... –

– Sposarti appena mi laureo? Sì, ovviamente. Tu no? –

– Dio, sì, ma credevo, credevo che... –

– Che stessi scherzando quando ti ho detto sì? Io non scherzo su nulla, soprattutto non scherzo su di te. Era sì prima, è sì ora, sarà sì fra vent'anni. –

– Katsuki, tu non puoi sapere quanto cazzo io sia innamorato di te. –

– Oh, no, lo so. Ti amo così anch'io. –

Esibisce il suo viso in uno di quei sorrisi che mi fanno sempre sentire un po' più contento, un po' più felice, un po' più a posto con me stesso. Pieghette ai fianchi delle labbra, gli occhi che brillano, è un'espressione che vorrò vedere per sempre.

– Te l'ho già detto oggi che sei bellissimo? –

– Stamattina appena sveglio. Me lo dici così tanto che quasi mi stranisce che te lo dimentichi. Miseria, è anche la prima cosa che tu mi abbia mai detto. –

Si fa più vicino a me, mi bacia la fronte, poi si ferma, si stacca, mi guarda.

– La prima cosa? No, mi sa che la prima cosa... –

– Non nel senso di una conversazione. Non stavamo parlando. Però quel giorno che sei venuto con la vecchia squadra al liceo, sugli spalti. Quando ti sei avvicinato. –

Ci pensa su un secondo.

Poi sgancia la mascella.

– Tu lo sapevi? Mi hai sentito? –

– Scemo, leggo il labiale, e mi stavi guardando dritto in faccia. –

– Cazzo, e io che speravo di aver mantenuto un po' di mistero. –

Rido, lo colpisco piano come a prenderlo in giro.

– Mistero, sì, assolutamente, come se poi non me l'avessi ripetuto due settimane dopo in laboratorio. A proposito, sai che ho trovato ieri mentre cercavo un programma nella cartella del liceo? –

– Cosa? –

Gli prendo il mio cellulare dalle mani, l'aveva ancora lui, vado nella galleria e cerco fra le foto. La trovo, è l'immagine dello schermo del mio PC, una parte del mio cervello nota la polvere sul desktop e inizia a credere che forse dovrei davvero dargli una ripulita.

– Ecco, leggi. –

Eijirō legge.

Ci sono righe di codice, poi uno spazio, una barra ed un asterisco per commentare, Eijirō legge il carattere rosso.

– "Ha detto che sono bello". Io? –

– Tu. Qualcosa tipo... "scusami è che sei così bello che..." –

– "...a volte quando ti guardo mi dimentico di respirare". Sì, mi ricordo, Dio, ero già stracotto. –

Scambia con me un'occhiata di tenerezza, prende fiato, appoggia entrambe le mani sulle mie guance.

– Tu lo sai che io con "bello" non intendo solo fuori, vero? Cioè, allora parlavo di quello, ma adesso questa cosa è diversa. Lo sai, no? –

– Lo so, Eijirō, lo so. In entrambe le accezioni comunque sono tanto contento che tu me lo dica. –

– Lo faccio per questo. –

Strofina la fronte contro la mia.

– Perché è giusto che tu sappia che cosa penso, perché vorrei che non ti dimenticassi mai che lo penso e un po' per vantarmi da solo del mio super fidanzato bellissimo e intelligentissimo che mi rende tanto tanto felice. –

– Ruffiano. –

– Il tuo. –

Mi tiro sulle punte dei piedi, si china lui, il bacio ora è da amanti, non passionale oltre i limiti imposti dalla situazione, ma decisamente con un'intenzione più chiara.

– Ti amo. –

– Ti amo. –

Ci guardiamo negli occhi.

– Grazie di farlo. –

– Grazie a te. –

Mi bacia ancora.

Poi trasalisce, e io con lui, quando tutto è interrotto dal suono netto di una voce, che richiama me e lui all'ordine, alla vita, allo scorrere degli avvenimenti su cui ogni tanto ci capita d'incastrarci.

– Kiri, molla l'ingegnerino e torna qui, sono geloso! –

Eijirō ridacchia, mi bacia piano fra i capelli, si gira.

– Tetsu, l'ingegnerino non lo mollo neanche se mi preghi in ginocchio! –

– Ingegnerino, fai venire qui la testa di cazzo, non abbiamo ancora finito! –

Rido anch'io, sporgo appena dal corpo di Eijirō che mi sta di fronte, annuisco intimidito dal loro modo di comunicare così rumoroso.

Pianto le mani sul petto del mio ragazzo.

– Vai, prima che inizi a urlare così forte che mi verrà mal di testa. Ci vediamo dopo. Ricordati, non troppo stanco. –

Annuisce, sorride, mi prende le mani.

Ne bacia una, verso le nocche, cammina all'indietro trascinandomi con sé di qualche passo.

– Ti va se ti prendo anche il gelato? Ora che ci penso ho la tessera punti piena anche della gelateria. –

– Sei l'uomo della mia vita, Eijirō. –

– Anche tu. –

Apre le dita, si separano dalle mie, non si gira, continua a camminare all'indietro.

Non sento la voce rimbombare, mima le parole con le labbra, come quella volta.

Mi guarda.

Dalla testa ai piedi mi guarda.

Mi fissa.

Sussurra...

"Che bello".

Mi schiarisco la voce.

La uso, io.

Mi vergogno? Sì, lo faccio, mi vergogno, perché io sono timido e sono fragile e sono riservato e lo sono ancora, tre anni dopo, fra tre anni, tre anni fa, sempre, lo sarò sempre, perché sono fatto così.

Ma me ne frego.

Perché sarò fatto così dopo.

E sono stato fatto così prima.

E tu mi ami fatto così e mi ami anche quando non faccio così e mi ami al punto, che non avrò problemi a tornarci e non ho problemi ad uscirne.

Migliore?

Sono diventato migliore?

No.

Sono solo tanto, tanto più felice.

– Eijirō! – dico, urlando, perché posso anche urlare.

– Sì? –

– Sei bello anche tu! –

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evito di dire qualsiasi cosa qui perché leggerete me rambling about life nei ringraziamenti però ecco sappiate che sto piangendo male

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