𝚓𝚞𝚜𝚝 𝚝𝚑𝚎 𝚐𝚊𝚖𝚎
!! smut alert !!
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– Le chiavi, Kat. –
– Se mi metti giù apro, solo un secondo, mettimi giù un attimo. –
– Dove sono le chiavi? –
Non mi mette giù. Sembra che neppure le senta, le mie richieste, e anche se sono tutte poco convinte, anche se sono tinte e avvolte dalla mia voce che ride, quasi pare che le sue orecchie non le recepiscano.
– Eijirō, ti ho detto che... –
– Le chiavi. –
Sospiro, a metà fra l'esasperazione e l'eccitazione di averlo sentito usare un tono un po' più autoritario con me, faccio spallucce per come posso.
– In tasca. Ma mi devi prima... –
Mi schiaffa una mano aperta sul retro dei jeans. Separa le dita, pianta il palmo, stringe.
– Qui? –
– Ti sembra che siano lì? –
Strizza di nuovo.
– Forse no. –
– Sono sulla tasca davanti. Smetti di toccarmi il culo e fammi scendere. –
Lascia uscire dalle labbra un mugugno di protesta, non sembra voler fare nessuna delle due cose, la sua mano non s'è mossa, io sono ancora incastrato come un sacco di patate sulla sua spalla.
Qualche istante, rimane fermo qualche istante.
Poi le dita scorrono, la stretta si assesta sulla mia vita, mi tira via, mi separa da se stesso. Allungo le gambe aspettandomi di toccare terra ma non tocco terra e tutto quel che vedo è una matassa di capelli rossi e umidi che scuote la testa mentre Eijirō mi tiene a mezz'aria come un bambino piccolo che non sai come prendere in braccio.
– Mettimi... –
– Ora ce la fai a prendere le chiavi. Prendi le chiavi. –
– Eijirō... –
– Katsuki. –
Mi guarda, lo guardo, resisto all'impulso di agitare le gambe per protestare perché so che non otterrei nulla e sembrerei soltanto ridicolo, prendo fiato con calma e lascio che le mie dita raggiungano la tasca davanti dei pantaloni. Aggancio l'anello del portachiavi con un polpastrello, le tiro fuori, nel giro di mezzo secondo sono dov'ero, in spalla, mano sul culo, chiavi non più fra le mie dita ma fra quelle di qualcun altro.
Ricomincio a ridere quando lo sento imprecare perché non riesce ad aprire la porta.
Rido, lui si lagna, appoggia il viso di lato contro di me, impreca di nuovo, sospira, ci riprova e ci riesce.
Credo che azzardandosi a fare una stima matematica dei tempi, ci siano voluti circa cinque minuti ad entrare in casa, e allora credo che Eijirō, che tutto sembra in quest'occasione tranne che paziente, decida che se ci sono voluti prima cinque minuti, allora ora ci devono volere dieci secondi, perché abbiamo sprecato decisamente troppo tempo.
Mi sfila le scarpe lui, se le sfila da solo una con l'altra, studia nel buio tinto dalle luci dei lampioni fuori dalla finestra il profilo di casa mia, mi chiede giusto "dov'è camera tua" e io risposto appena "piano di sopra, ultima stanza in fondo al corridoio" e lui, come se non avesse passato il pomeriggio ad allenarsi, come se non avesse appena giocato in una partita, come se non avesse me in spalla, che sono minuto rispetto a lui ma decisamente non in senso generale, mi issa più comodo sulla spalla e fa la strada su per le scale nel giro di un attimo.
Mi viene da ridere, un po' perché sono felice, un po' perché forse sono in imbarazzo, un po' così per riempire il silenzio, e rido, mentre mi trascina su. Rido quando sbaglia porta e apre il bagno, quando trova camera mia, quando tasta il muro alla ricerca dell'interruttore e per un attimo mi viene il pensiero che se continuasse così mi sfonderebbe una parete, quando illumina la stanza, quando mi tira giù sul letto.
Rido, rido e apro le braccia, rido e separo le ginocchia, rido e me lo sento addosso, i capelli sotto le dita, le labbra sulle mie, le anche fra le cosce e le spalle fra le mani, mi viene da ridere, rido, ride anche lui, ci stacchiamo per guardarci, ridiamo, il rumore riempie la stanza.
– Sei felice? – mi sento chiedere, in una domanda forse stupida, forse retorica, forse solo dalla risposta evidente, ovvia, scontata.
– Sì, sono felice. Tu sei felice? –
– L'uomo più felice del mondo. –
– Addirittura? –
– Sì, Katsuki. Sì. –
Mi sorride, uno di quei sorrisi pacati e tranquilli, bordi delle labbra che si alzano, occhi che brillano, minuscole fossette che si propagano sulle guance.
– Tu mi rendi l'uomo più felice del mondo. –
Lo dice così, senza vergognarsi, senza nascondersi, al punto che tutto l'imbarazzo e l'emozione di dire una cosa del genere coglie me al posto suo, il mio viso diventa rosso, chino lo sguardo, mi mordo l'interno della guancia coi denti.
– Come fai a dire queste cose senza vergogna... –
Mi prende il mento con le dita, mi sposta finché non sono praticamente costretto a guardarlo.
– Non riuscirei a vergognarmi di quanto ti amo neanche se ci provassi. Pensa un po', nemmeno ci provo. –
– Sei un po' scemo e sei anche un po' ruffiano, lo sai? –
– Ecco, forse dovresti vergognarti tu, di avere uno scemo ruffiano sul tuo letto, non credi? –
– Si, forse dovrei. Ma mi sa che non ci riesco. –
– Non ci riesci? –
Per come riesco alzo le spalle, scuoto la testa mimando un atteggiamento sconsolato, Eijirō mi segue con lo sguardo sorridendo, mi sistema una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio mentre ricomincio a parlare.
– Mi sono scoperto scemo-e-ruffiano-sessuale in questi ultimi mesi, e la mia mamma mi ha sempre detto che non devo vergognarmi di chi sono, qualunque sia il mio orientamento. –
– Ah, quindi fammi capire, sono solo uno scemo ruffiano qualsiasi per te, se ci fosse qualcun altro sarebbe la stessa cosa, eh? –
Lo dice con un tono leggero, ironico, scherza lui e scherzo io.
– No, non "qualcun altro", un altro come te. Scemo, ruffiano, coi capelli rossi. E alto, sì, alto, con le spalle larghe, e con una faccia simile alla tua, mi piace la tua faccia. Ah e poi... scusa, lo so che sembro materialista ma uno deve pensarci a queste cose, lo voglio ben messo. Non esagerato, per carità, Denki dice sempre che con abbastanza impegno si può lavorare con tutto, però sai, giusto un... –
Eijirō ridacchia, io non riesco a finire la frase perché preme appena appena le labbra sulle mie, aggrotta le sopracciglia, fa "sì" con la testa.
– Mi sa che allora ti dovrai accontentare di me. Non so se conosco qualcun altro che corrisponda alla tua descrizione. –
– Mi accontenterò. Credo di poterlo fare. –
– Credi? –
– Ne sono piuttosto convinto. –
Sorrido, mi vedo contento riflesso nei suoi occhi, mi bacia di nuovo, quando ci stacchiamo muovo le braccia per stringerlo forte dalle spalle, abbasso drasticamente il tono della voce, gli parlo all'orecchio, perché lui, scemo e ruffiano, non si vergogna ma io, timido e introverso, forse un po' lo faccio.
– Anche io ti amo, Eijirō. Tanto. –
Le sue mani si ammorbidiscono, mi stringe piano la vita, i polpastrelli s'infilano sotto la maglietta.
– E anche tu mi rendi l'uomo più felice del mondo. –
Gli bacio una guancia, gli strizzo una spalla e poi lo lascio andare, tornando giù, con la schiena sul materasso, gli occhi suoi suoi, le labbra increspate in un sorriso forse un po' imbarazzato, ma sicuramente soddisfatto, in un modo o nell'altro, di essere riuscito a dirgli la verità.
Dopo ieri sera, è gradualmente più facile.
Forse è un po' come se avessi tolto la chiave di volta in un arco, si fa fatica a sfilarla, quella, ma poi il resto viene giù da sé.
Si china sulle mie labbra, Eijirō, le sfiora con le sue, sorride contro la mia bocca, mi bacia uno zigomo, una tempia, si gode la mia presenza come se fosse per lui sconvolgente che io anche solo ci sia, là con lui.
Non più sconvolgente di quanto non sia averti qua con me, in ogni caso.
Se pensi che qualche mese fa ti stavo dicendo che non ti volevo, in effetti, direi che...
Mescola il fiato col mio, le mie mani rimangono incastrate fra le ciocche lunghe e scarlatte, le sue mi tengono stretta la vita, per un attimo rimaniamo là, solo noi due, intrecciati, soli, in silenzio, nel panorama intimo e chiuso di camera mia.
Poi ci stacchiamo.
E diventa un po' più chiaro dove entrambi stiamo cercando di andare a parare.
Eijirō sistema le ginocchia a fianco delle mie anche sul materasso, in un'immagine che credo rimarrà impressa nella mia memoria fino alla mia morte si tira su coprendo la luce del lampadario col solo estendersi del suo corpo e si sfila la maglietta di dosso, la getta indietro, non so dove. Le sue dita corrono alla cintura, la slaccia, apre il bottone dei pantaloni, porta lo sguardo su di me.
– L'apparecchio acustico lo tieni o lo togliamo? –
– Lo tengo. –
– Ti prendo la custodia così quando abbiamo finito non devi alzarti? –
– La predi dopo. Se ora ti allontani anche solo di un centimetro mi metto a urlare. –
Sorride.
– Ai suoi ordini, vossignoria. –
Invece di procedere coi suoi ora si dedica ai miei pantaloni, slaccia la cintura, apre il bottone, lascia scendere la zip, aspetta che tiri su il bacino per sfilarli, poi li fa scendere lungo le gambe, li getta dove ha gettato la sua maglietta, praticamente nell'oblio che ha dietro le spalle.
Mi guarda le cosce come se fossero la cosa più bella che abbia mai visto.
Le stringe con un misto di riverenza e cieco desiderio che mi fa tremare le ginocchia.
Ha le mani grandi, Eijirō, la pelle più scura della mia, più abbronzata, vedere le sue dita a contrasto con il colore niveo della mia carnagione mi piace tanto. Scorre, tasta, supera i fianchi, l'osso delle anche, s'intreccia col tessuto della maglietta, tira su. Palmo contro la mia pancia, dita sul rientro della vita, lo sterno, il petto, le spalle, le clavicole.
Mi tocca con la delicatezza di chi ti ama.
Mi guarda con la fame di chi ti desidera.
Mi stringe il retro del collo, mi aiuta a tirarmi su, la felpa cade indietro dalle mie braccia, mi toglie la maglietta.
Mi guarda e come ogni volta che parla, come ogni volta che mi si riferisce o mi si dichiara o semplicemente mi si rivolge, lo fa senza vergognarsi, perché credo di aver capito che quest'uomo, di quanto gli piaccio, proprio non riesce a farlo.
Infila lo sguardo in ogni angolo, in ogni centimetro, nelle ombre, nelle curve, nelle linee e nelle distese, guarda come se toccasse con gli occhi, il suo petto si alza e si abbassa col ritmo del suo respiro, non è la prima volta, ognuna è come se lo fosse.
– Sei bellissimo, Katsuki. Tu sei... sei bellissimo. –
Il sangue mi scalda il ponte del naso.
Deglutisco la saliva.
– Anche tu sei bellissimo. –
L'insicurezza gli tinge lo sguardo, so com'è fatto riguardo questo tipo di cose, ma scuoto la testa quando prende fiato per sviare il discorso, tiro su una mano, gli prendo il polso e scuoto la testa.
– Sei bellissimo, Eijirō. –
Lascia andare un respiro tremolante, piano e giusto per un attimo annuisce, ruota il polso di modo che ora sia lui a tenere il mio, tira su la mano, appoggia le labbra dove la pelle è sottile e il battito del cuore percettibile dall'esterno.
C'è un silenzio tale fuori di qui, attorno a noi, che mi viene istintivo pensare giusto un secondo che se io fossi assurdamente nonostante la mia sordità in grado di sentirlo a prescindere da tutto, e se dovessi poi togliermi l'apparecchio, allora il mondo mi suonerebbe così.
Il pensiero però scivola via subito.
Io posso assurdamente sentirlo nonostante la mia sordità senza apparecchio, perché non è solo con la voce che si può parlare, ed Eijirō è sempre stato tremendamente fluente in qualsiasi altra lingua possa essere necessaria per raggiungermi.
Il mio battito cardiaco rallenta. Lo sento io, col sangue che mi rimbomba nelle orecchie, e lo sente lui, con le labbra sul mio polso, la tensione si scioglie, il mio corpo si rilassa. Respiro, mi lascio andare, anche lui lo fa, rimaniamo immobili per un attimo.
Occhi negli occhi.
Mi chiede se va tutto bene, anche senza chiedermelo per davvero.
Gli rispondo che non potrebbe andare meglio, pur non facendolo ad alta voce.
Sorride.
Sorrido.
Praticamente mi salta addosso.
Atterro con le spalle sul materasso, il contatto delicato di prima sparito, una mano mi sta aprendo una coscia oltre la sua vita, l'altra mi tiene fermo il viso, mi apre le labbra con le sue, mugugna di soddisfazione direttamente dentro la mia bocca.
– Cazzo, è da ieri che aspetto, un altro secondo e sarei morto. – borbotta, spostandosi più in giù, verso il collo.
– Che c'è, ieri notte ti sono mancato? –
– Ieri notte ho maledetto il mondo perché anche se mi ha dato un fidanzato mi sono ritrovato comunque coi soliti vecchi metodi. –
– Davvero? Come i tredicenni, Eijirō? –
– Non è colpa mia, è colpa tua e di quel cazzo di top con la retina. Già di grazia che sia arrivato fino a casa prima di togliermi i pantaloni, Katsuki. –
– Ti piaccio così tanto? –
Mi stringe il viso con una mano, mi parla a pochi centimetri dalle labbra, iridi nelle iridi.
– Te l'ho già detto una volta, tu mi guardi e io divento un coglione. Un idiota. Un cretino. Certe volte mi fai sentire un depravato perché mi ecciti anche solo se respiri. –
Mi bacia appena.
– Pensa tu cos'hai fatto al mio povero cervello quando ti sei presentato vestito in quel modo. Colato dal naso, Kat, non raggiungibile. Un attentato al mio povero cuore. –
– Quanto la fai lunga per un po' di pelle. –
– La tua pelle. La tua faccia. I tuoi capelli e il tuo odore e i tuoi occhi e... miseria, Mina te l'avrà detto duecento volte e sono sicuro che l'abbia fatto anche Denki, lo sai che sono un sottone di merda, non giriamoci intorno. –
Preme le labbra sul mio sterno, io rido piano, gli accarezzo i capelli, guardo il soffitto.
– Lo sei. Ma sai che forse lo sono un po' anch'io? –
– Katsuki Bakugō, un sottone di merda? No, non è vero, tu sei quello freddo e composto della coppia. –
– Durante la partita mi sono quasi incazzato perché hai buttato a terra quel tizio, verso la fine. E non è perché fossi geloso, no, ero invidioso. –
– Davvero? –
Sfiora la mia pancia con la punta del naso, mi guarda dal basso, si aggancia il retro delle mie ginocchia alle spalle.
– Vuoi che butti a terra anche te? –
– Non in quel modo, no, cazzo, poi ci rimango. Però mi piace quando mi stai addosso. Mi piace quando mi stai... –
M'interrompo per prendere fiato.
Le sue pupille sono appena appena dilatate, più passano i secondi, più mi sale nel petto quel sentimento di paura mista ad eccitazione che quest'uomo sembra sapere come risvegliare in me. Se non ci fosse il suo corpo in mezzo, stringerei le cosce.
– Ti piace quando ti sto dove, Katsuki? –
– Sopra. –
– Ah, sul serio? E come mai, se posso chiedere? –
Sbatto le ciglia.
Prendo fiato.
– Perché mi fai sentire vulnerabile. E protetto, anche. Le due cose, contemporaneamente. –
– Ti piace sentirti vulnerabile? –
– Se sono con te sì. Mi piace sentirmi come se non avessi nessuna responsabilità, come se avessi tu tutto il controllo. Mi fa sentire tranquillo. Tu, mi fai sentire tranquillo. –
Appoggio una mano su una delle sue spalle, la lascio scivolare sul viso, gli accarezzo una guancia.
– Mi fido di te. Fai quello che vuoi, io mi fido di te. –
Si lecca le labbra in un gesto rapido e quasi impercettibile, sorride, gli scintilla qualcosa di malizioso nelle iridi.
– Stasera sei dannatamente adorabile, lo sai? Adorabile. E da una parte mi sento così fortunato a guardarti così che non saprei nemmeno dirtelo a parole. –
Da una parte?
– E dall'altra? –
– Dall'altra le circostanze mi costringono a pensare ad un'altra cosa. Te ne sei accorto anche tu, vero, che stasera sono successe praticamente le stesse cose che sono successe quella volta che ci siamo baciati, vero? –
Annuisco.
– Sì, ma... –
– E te lo ricordi anche tu che cosa sei andato a fare quella stessa sera, vero? Te lo ricordi che non è con me che sei andato a casa? –
– Eijirō, perché stiamo parlando di... –
– L'hai guardato anche a lui, così, Katsuki? Quella sera, mentre ti stava sopra, mentre ti toccava, hai detto anche a lui con quella faccia da troia che ti fidavi e poteva fare qualsiasi cosa volesse? –
Mi si mozza il respiro in gola.
Il cuore si ferma, quando riparte non sta battendo ad una velocità normale.
– No, non abbiamo, non... noi non... –
– "Non avete" cosa? –
– Non abbiamo fatto sesso, quella sera. Non era contento ma io non ho voluto... farlo, sì, non... –
Le sue sopracciglia si alzano, s'increspano, l'espressione è ancora maliziosa ma c'è curiosità, fra i tratti del suo volto.
– No? –
– No. Non me la sono sentita di... –
– Di scoparti un altro e pensare a me? Non te la sei sentita? Che c'è, avevi i sensi di colpa per avermi detto che non mi volevi? –
– Eijirō, io... –
– Come la serata della festa, dopotutto, non è successa forse la stessa cosa? Però là non li hai avuti, i sensi di colpa. Hai fatto la scenetta pensando che fossi io e te la sei pure goduta. –
Spalanco gli occhi.
– Come fai a sapere che stavo pensando che fossi... –
– Io non sono così idiota come sembro, Kat. Me ne sono accorto subito che mi stavi facendo gli occhi dolci, dalla prima volta che ti ho visto su quelle tribune all'inizio dell'anno. Non sapevo come sarebbe finita emotivamente, ma che mi stessi praticamente pregando di scoparti era chiaro dall'inizio. –
– Io non ti stavo... –
Lo sguardo che mi lancia mi fa ammutolire. Le mie labbra si chiudono, la glottide sale e e scende, le parole mi muoiono in gola.
– Adesso non c'è più nessun problema, però, niente ansia, niente sensi di colpa. Non devi più avere paura di dire il nome sbagliato, sai com'è. –
Infila i polpastrelli sotto l'elastico delle mie mutande.
– Cos'è che ti avevo detto quella volta? Che dovevi pensare che quello che ti avrebbe tolto i vestiti sarei potuto essere io? –
Le tira giù lungo le mie cosce, le incastra sotto le ginocchia, si scosta, le butta sul pavimento, mi spalanca le gambe con le mani e se le richiude attorno alle spalle.
– Sembra che alla fine sia andata proprio così. –
Quando separa le labbra e le stringe attorno a me, mi cade indietro la testa. Le sue mani mi tengono aperte le cosce che tremano e la mia schiena s'inarca da sola, ore e ore di eccitazione sepolta riemergono e strabordano nella mia voce, le parole mi si perdono in bocca, escono fuori sotto forma di un verso lagnoso, alto, che riempie la stanza.
Eijirō mi guarda.
Tiene gli occhi fissi sui miei e mi guarda.
La sua lingua traccia una linea umida su di me e mi guarda, la saliva scintilla e lui mi guarda, le mie sopracciglia s'incontrano a metà strada e lui mi guarda.
Vorrei chiudere gli occhi.
Vorrei separare lo sguardo dal suo, lasciarmi andare e navigare nella sensazione da solo, ma non riesco, mi tiene inchiodato là, fermo, a guardarlo, consapevole che ogni movimento, ogni gesto, ogni rumore è suo prima di essere mio.
Sorride per come può.
Sbatte le ciglia.
Scende.
Mi mordo forte l'interno della bocca, mi esce fuori un gemito così inerme che se potessi pensarci probabilmente m'imbarazzerebbe, i suoi capelli sciolti gli sfiorano le spalle, è così bello in quest'istante che l'attrazione che provo per lui non fa altro che crescere, oltre ogni limite, oltre ogni aspettativa.
Meraviglioso.
Mi guarda ed è meraviglioso.
Le mie gambe sembrano sottili, non lo sono, ma lo sembrano agganciate così alle sue spalle, la sua mano premuta su di me copre quasi l'interezza dello spazio della mia vita, corporatura normale resa esile, sottile e fragile a confronto con ogni angolo del suo corpo molto più imponente, molto più forte del mio.
Le mie ginocchia tentano di scattare chiuse.
Per quanto si sforzino, non muovono di un centimetro le sue dita serrate sulla carne.
Eijirō muove piano il capo, su e giù, il centro della mia schiena si alza, il mento si alza schiacciando la mia nuca sul materasso, una delle mie mani s'immerge fra le ciocche rosse, stringe, le caviglie si legano assieme dietro alla sua schiena.
Si ferma.
Mi lascia uscire dalle sue labbra.
Respira così vicino al mio corpo che l'aria che soffia via mi fa il solletico.
– Occhi sui miei, Kat. –
– Io... –
– Non era una domanda. –
Prendo fiato dalle labbra semi aperte, strizzo gli occhi, con tutta la forza di volontà che non ho rimetto dritta la testa, lego lo sguardo al suo.
– Non vogliamo che tu ti dimentichi con chi sei, no? –
– Come se potessi mai dimenticare che sono con te, Eijirō. –
Sorride appena.
– Dov'è il lubrificante? –
Indico con lo sguardo il comodino dalla sua parte del letto.
Senza spostarsi di un centimetro, solo allungando un braccio perché è tanto alto che può fare anche così, apre il cassetto, immerge la mano alla cieca e tira fuori una bottiglietta a metà di liquido gelatinoso.
Mi lancia un'occhiata che dire smaliziata sarebbe un eufemismo.
– Quanto di questo è stato usato pensando a me, Katsuki? –
Impongo ai miei pensieri confusi di radunare il ricordo di quando l'ho comparato.
Cos'era, agosto?
No, era settembre.
Espiro l'imbarazzo.
– Un po'. –
Apre il tappo, ne spreme un po' su una mano, lo scalda fra le dita. Molla il lubrificante sul letto, la mano pulita la mette dov'erano le sue labbra un attimo fa, guarda soddisfatto la piega che prende il mio viso quando mi concede un altro po' del piacere che mi stava negando.
– Da solo o in compagnia? –
– Da solo e in compagnia. –
– Oh, povero Katsuki. Costretto ad aprire le gambe per qualcuno sperando che sia qualcun altro. –
Stringe le dita, le muove in alto, in basso, quelle inumidite del lubrificante si avvicinano piano a me.
Mi lancia un'occhiata, come per accertarsi che io stia bene, quando si ritiene soddisfatto delle mie condizioni lascia che i polpastrelli si facciano lentamente strada dentro al mio corpo. Non faccio resistenza, ma le sue mani sono molto più grandi di quelle di chiunque altro abbia mai fatto una cosa del genere, quindi inevitabilmente, c'è un po' di attrito.
Procede senza fermarsi.
Piano, ma con decisione.
– Da solo quando? –
– Eh? –
– Quand'è che l'hai fatto da solo, Katsuki? –
Il palmo della sua mano atterra su di me, piega le dita, le mie ginocchia scattano nel tentativo di chiudersi di nuovo. Mi lascia andare dall'altra parte e si china una volta ancora, respiro sulla mia pancia, labbra ad un centimetro di distanza da me.
– La sera della festa? Quella della partita? Dimmene una, su, avanti. –
– La volta che Shindō ci ha quasi beccati. –
Gli piace la risposta, sorride. Apre la bocca, e se penso stia per tornare a far quello che stava facendo, invece lui articola delle parole.
– Davvero? Me la devi proprio raccontare, questa. –
Poi lo fa.
Poi tira fuori la lingua e lecca, succhia, mi guarda e mi drena l'energia e l'eccitazione che si attorcigliano nella mia pancia come un nodo.
– Non c'è molto da... cazzo, Eijirō, non c'è molto da raccontare. –
– Come no? Certo che c'è. –
Le dita sono due dentro di me, si piegano, il ritmo è lo stesso lì e di fronte, ho caldo dentro al corpo, non fuori, sopra la pelle, ma all'interno, sotto.
– A cosa pensavi? –
– A te. –
– Cosa di me? –
Serra di nuovo le labbra attorno a me.
– Che ti sei... incazzato. Che ti sei incazzato quando ha fatto cadere il circuito. Ho pensato a quello. –
Tre dita, ora sono tre.
Succhia più forte.
Mi guarda negli occhi come a intimarmi di continuare.
– E anche a prima, quando eravamo sul banco. Che mi hai detto di... Eijirō, Eijirō, cazzo, Eijirō, fa' piano, fai... –
Sotto ogni punto di vista, ogni interpretazione, Eijirō non fa piano. Fa peggio, anzi, perché piega le dita esattamente nel punto in cui sa di doverlo fare, e spinge più in basso il capo.
Cerco la mia voce persa fra i gemiti.
– Ho pensato a quello, e sono tornato a casa, e l'ho fatto da solo. Shindō voleva che andassi a casa da lui ma ho detto no. Non era perché è stato uno stronzo quel giorno, era perché io volevo... volevo... Dio, Eijirō, oh Dio... –
Il calore è così stretto dentro di me che pare un incendio.
Tremo dalla testa ai piedi.
Mi rotolano gli occhi indietro.
Cerco di tirarlo via dai capelli.
– Basta, Eijirō, voglio... insieme, vieni qui, così possiamo farlo insieme, Eijirō, per favore... –
Non sembra della mia stessa idea.
L'ipotesi di smettere proprio non credo sia la sua preferita.
Si separa un secondo da me, giusto un attimo per parlare.
– Mia madre mi ha insegnato che non si lascia mai il piatto a metà. – sentenzia.
Poi tutto diventa confuso e qualsiasi tensione si stesse accumulando dentro di me si scioglie in un attimo. Eijirō stringe le labbra e piega le dita e mi guarda e io mi sento così vulnerabile ai suoi occhi ma anche così importante che non riesco a più a trattenermi e mi ci perdo, là dentro, e lascio che l'orgasmo mi spazzi via la coscienza dal cervello.
I muscoli si contraggono tutti assieme poi si rilassano, il rumore distante di Eijirō che deglutisce cerco quasi di ignorarlo per non impazzirci dietro, la sua mano esce dal mio corpo, ho il fiato corto, il cuore che batte all'impazzata nel petto, le articolazioni lasse e molli, le gambe deboli.
Vorrei poter dire qualcosa ma non credo ci sia nessuno dentro alla mia testa al momento quindi rimango là a respirare con la bocca aperta e in silenzio, il mio adorabile, bellissimo e stronzissimo fidanzato si asciuga la faccia col braccio, si tira su, si apre le mie cosce attorno alla vita e si dirige con le mani sui suoi pantaloni.
Ci provo a chiedergli di aspettare un secondo.
Non ci riesco.
Abbassa la zip dei jeans, le mutande, pelle contro pelle sopra di me, a vederlo da fuori quasi sembra ridicolo che quella cosa c'entri davvero dentro al mio corpo, Eijirō si sporge, prende il lubrificante, lo spreme su se stesso e lo vedo mordersi il labbro mentre usa la mano per distribuirselo sul corpo. Non è messo tanto meglio di me, anzi, direi che...
Mi guarda, mi sorride, mi spalanca le cosce.
Riprovo a parlare.
Ci riesco, questa volta, non meravigliosamente, ma giusto quel poco che mi serve a farmi capire.
– Un attimo, Eijirō, aspetta un... –
Mi guarda come se gli avessi chiesto di alzarsi e andarsene.
Malizia, sì, e quel suo pizzico di tipica crudeltà, ma anche disperazione, una disperazione che io posso guarire e io soltanto, attraente in un modo che non avrei mai potuto anticipare.
– No. – risponde.
Mi schiaccia aperte le cosce.
– Almeno fai piano, fai... –
– No. – ripete.
– Eijirō... –
Cerca qualcosa dentro al mio sguardo, ha detto "no", ma non era un "no" di negazione, era più un "no" di preghiera, e infatti sta fermo, bestia trattenuta dalle catene che non vede l'ora di superare le sbarre della sua prigione.
Prendo fiato.
Al diavolo.
Tanto domani non devo andare a scuola.
– Fai quello che vuoi. – capitolo allora, e forse si aspettava che l'avrei detto, forse semplicemente non ce la faceva più, perché nemmeno sorride, nemmeno mi guarda, fa come se farlo fosse finalmente sfogo per la sua fatica.
Schiaccia le mie ginocchia sul materasso.
Prende la mia vita fra le mani.
Mi tira su a mezz'aria il bacino, si allinea con me, vorrei dire di aver reagito diversamente, ma tutto quello che faccio è gemere in un lamento che spazia fra il dolore e la sovrastimolazione quando entra completamente dentro al mio corpo.
Dio, se ci sei tu qui non c'è quasi più spazio nemmeno per me.
Ma va bene.
Mi va bene.
Prenditi quel che è tuo di diritto, che tu mi dici tutte quelle cose per provocarmi, lo sappiamo tutti e due, ma c'è un fondo di verità in ogni parola e quella verità è che è indiscutibile, indubbio, chiaro, che per me non c'è stato nessun altro da quando sei arrivato tu.
Roba tua, dentro, fuori, nel corpo, nell'anima, nella testa e nel cuore, è tutto roba tua.
Fanne quel che meglio credi.
Stringe i denti, Eijirō, serra la mandibola che guizza sotto la pelle, cerca il mio sguardo come se fosse perso senza, muove le mie anche spostandole con le mani, per un secondo, un istante sembra tentare d'imporsi più calma, ma fallisce e allora fa come desidera.
Mi aggrappo alle lenzuola, ma è inutile.
Quasi non ci vedo, ogni volta che arriva fino in fondo dentro al mio corpo, lo sguardo mi s'inumidisce di lacrime, i bordi sfumano, ho i sensi tutti così concentrati su di lui che paiono dimenticarsi di funzionare in relazione al resto.
Mi lascia cadere sul materasso, il suo corpo si muove sul mio, mi si avvicina, una mano si stringe sulla testiera del letto, l'altra cerca il mio viso, sbatto le ciglia per cacciar via il pianto e reciprocare il suo sguardo.
Troppo.
Tutto di te è troppo.
Cerco di tenerlo con le mani, l'amore che mi lacrima via dal cuore, il piacere che m'invade le viscere, cerco di arginare il danno e rimetterlo dentro con le dita, fermo la diga spezzata con le dita, ma è inutile e scivola via, inonda ogni angolo, sommerge e spazza via qualsiasi cosa incontri. Macerie, questo rimane di me, ma macerie che ti appartengono, e allora macerie che amo più di quanto non le amassi intere, ma sole, senza di te.
Mi morde una spalla, il collo, mescola le labbra con le mie.
È tutto talmente tanto che ormai ci sono gocce cristalline sulle mie guance, a scivolare fra di noi, a tingere di sale il sapore della tua bocca.
Lo stringo con la disperazione di saperlo qui, con la soddisfazione di averlo su di me, con l'appagamento di poter fare quel che prima lui accennava, dire il nome giusto.
– Eijirō. –
– Katsuki. –
Pelle contro la pelle, stringe la mia cassa toracica forte che temo potrebbe lasciare il segno delle sue cinque dita, il mio sguardo offuscato non distingue quale sia il suo corpo e quale il mio.
– Eijirō. –
– Katsuki. –
Le mie gambe sono timide, tremanti, traballanti, ma ugualmente le chiudo attorno alla sua vita nel tentativo di tenerlo qui, trattenerlo sopra di me.
– Eijirō, oh, Eijirō. –
– Katsuki. –
Sentire il mio nome che piega la sua voce libera in me la catarsi della proprietà, perché dice il mio nome come se mi stesse chiamando per la prima volta, come se quello stesso nome me lo stesse dando lui, come se trovasse nell'atto di nominarmi anche quello di dichiararmi come suo.
Ti appartengo, dammi un nome.
Mi appartieni, ti do un nome.
Chiamami, ti chiamerò, apparteniamoci, chiamiamoci a vicenda.
– Katsuki. –
– Eijirō. –
Appoggia la fronte contro la mia, respiriamo la stessa aria, il suo braccio aggrappato alla testiera del letto è flesso, contratto, ogni muscolo riluce di sudore e della luce del lampadario, stringo una mano tremante attorno al bicipite, più il ritmo si fa serrato, più affondo le unghie sulla carne nel tentativo di trattenermi.
Dentro di me, fuori da me e dentro di me, dentro e fuori, più dentro che fuori, fuori, dentro subito dopo.
– Ti amo, Katsuki. –
– Ti amo, Eijirō. –
La sua pancia e la mia si avvicinano, la parete dei suoi addominali mi offre la frizione che disperatamente cercavo, esploro la distesa della sua schiena con la mano libera, imprimo devozione in ogni millimetro, tu che ti odi e ti sei odiato, sotto il mio tocco sei e sarai sempre la cosa più bella che esista.
La mia voce si spezza, un gemito dietro l'altro, il baratro si avvicina ma lo respingo in attesa che sia il suo ritmo a dettare il mio, cerco il suo viso, mi bacia, lo bacio, geme dentro alla mia bocca.
Ci stacchiamo col fiatone.
Non so nemmeno se ho ancora un corpo.
Provo piacere, quindi qualcosa dev'essere rimasto.
Il letto sbatte contro il muro, stringe forte la testiera da avere le nocche bianche dallo sforzo, di nuovo serra i denti, mi guarda, mi ama, mi chiama.
Impongo direzione alla mia voce.
– Chiedimi a chi sto pensando adesso. – dico, con le parole che strabordano e si mescolano, spero abbastanza comprensibili nonostante questo.
– A chi stai pensando adesso? –
– Alla persona giusta, Eijirō. –
Con una decisione dettata solo dall'adrenalina sposto la sua mano libera prendendola dal polso, lo costringo ad aprirla sulla mia pancia, ci premo la mia sopra.
– In questo momento, dentro di me, c'è solo la persona giusta. Quella giusta, ok? –
Annuisce.
– Quella giusta. – ripete.
Le sue clavicole incontrano le mie, infila il viso contro l'incavo del mio collo, inspira il mio odore e la mia pelle, gli gemo addosso.
– Tu sei sempre stato la mia persona giusta. –
– Tu la mia. –
Le mani sulla mia pancia s'intrecciano.
Incido la carne stringendo la mano.
Lui trema.
Io tremo.
– Ti amo. –
– Anche io, ti amo. –
Poi qualcosa, non so cosa, tutto e non saprei come definire quel tutto, niente e forse nient'altro, il mio corpo si perde e si ritrova, il suo e il mio una cosa sola, il suo nome mio fra le labbra, il mio suo, noi e non so cos'altro, perché nient'altro mi interessa, e sapere dove iniziamo e finiamo è tutto quel di cui ho bisogno.
Scappare, Katsuki?
Credevi di poter scappare?
Folle, sei stato folle.
Non puoi scappare da chi ti dà l'esistenza solo dichiarandola col suono della sua voce.
Che ci sono sempre stato, ma così, così felice, così completo, esisto solo quando mi chiami tu.
La tensione defluisce piano, il corpo di Eijirō incontra il mio nel rilassare ogni muscolo, lo stringo con quanta poca forza mi è rimasta e sto fermo, in silenzio, con gli occhi chiusi a godermi il momento.
Poche cose, quelle che bastano, a ricordarmi che siamo qui per davvero, che sei reale, che io sono reale, che ci siamo.
Il battito del tuo cuore, quello del mio.
L'odore dello shampoo sui tuoi capelli.
Il sudore che appiccica la pelle.
Le dita che mi premono la carne.
Il suono del tuo respiro, meno affannato del mio, ugualmente rapido.
Inspiro aria nei miei polmoni, aria dai tuoi, condividiamo giusto l'esistenza, per qualche istante, giusto l'atto di stare al mondo, e sapere di farlo qui fra le tue braccia mi rende tutto più dolce.
Si muove prima di me, è più forte, più abituato alla fatica, si muove per potermi baciare una guancia, per scostarmi i capelli dal viso, per sorridermi.
Sorrido anch'io.
Quel sorriso diventa una risata.
– Mezz'ora e lo rifacciamo? –
– Se lo rifacciamo fra mezz'ora mi cadranno le gambe e dovrai rincollarle con lo scotch di carta. –
– Perché con lo scotch di carta? –
– Quello ho in casa. –
Aggrotta le sopracciglia, ridacchia di nuovo, mi bacia lo spazio fra le sopracciglia.
– Secondo me tu sottovaluti la tua resistenza fisica. Scommetto che se ci provi ce la fai. –
– Che cazzo sei, il mio personal trainer? Guarda che ci rimango secco, Eijirō, non sto scherzando. –
– Ma io volevo festeggiare che ci siamo messi assieme, non posso? –
– Sì, festeggiamo. Auguri, tanti auguri e vaffanculo. Abbiamo festeggiato. Fine. –
– Katsuki, sei un guastafeste. –
– Tu sei un guastagambe. –
Ridiamo insieme.
– Neanche una volta? Una? Una sola? –
– Stai parlando come se non fossi tu quello con l'arma di distruzione di massa fra le gambe. Perché così sembra che sia colpa mia. Non è colpa mia, è colpa tua e di quello che ti davano da mangiare da piccolo. –
– Non parlarne come se non ti piacesse, lo sappiamo tutti e due che sarebbe una stronzata. –
– Ah, io non ho mai detto che non mi piace. L'ho detto? Non credo. –
Preme le labbra con le mie, le lasciamo muoversi assieme per qualche istante, quando si stacca la mia coscienza è quasi totalmente rientrata nel mio corpo e credo di riuscire a respirare con una parvenza di normalità.
Eijirō mi guarda.
All'inizio mi guarda e basta come al solito.
Poi inizia a sorridere e il suo sguardo cambia e...
– Non farmi gli occhi cattivi. Se mi fai gli occhi cattivi giuro che ti brucio casa col lanciafiamme. –
– Non sto facendo niente, Kat, di cosa parli? –
– Sì, "di cosa parli", stocazzo "di cosa parli", tu e le tue faccette da stronzo. –
– Kat, davvero, io non sto facendo nulla. –
Nulla, sì, certo, come no.
– Togliti quello sguardo da sesso dalla faccia o giuro che non ti parlo mai più. –
– Lo giuri, eh? –
– Eijirō, ho detto che... –
Bastardo.
È un bastardo.
O sono io che sono un debole?
O...
Sospiro.
– Allora, Kat, mezz'ora? –
– Quaranta minuti. E vai a prendermi la custodia dell'apparecchio acustico. E l'acqua, quella frizzante, nel frigo sulla destra, la cucina è subito a sinistra dall'ingresso. –
Eijirō sorride.
Mi tiro un mentale calcio nel culo, mentale perché mi sarebbe fisicamente impossibile farlo davvero e perché sicuro l'ultima cosa che serve al mio culo al momento è un calcio.
Si china e mi bacia le labbra, poi si tira su, si risistema i pantaloni, guardo i muscoli della sua schiena spostarsi mentre esce dalla stanza.
Maledetto me.
Sono davvero l'uomo più felice del mondo.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
OK LO SO CHE SONO PESSIMA A TORNARE QUI DOPO TRE MESI MA SONO TORNATA QUINDI GIOIA GIUBILO ALLELUJA
a parte le mie scuse che non ve le faccio perché sarebbe ridicolo
come va cuoriiiiii vi è piaciuto il nuovo capitolo che pensate come state come va
scusate se pubblico a quest'ora indegna ma quando mi sono svegliata oggi il capitolo che avevo quasi finito mi faceva schifo quindi l'ho riscritto da capo (sto cercando di superare soap e di evitare di contaminare con mel di soap anche mel di new americana quindi dovevo aggiustare il tiro), spero che vi sia piaciuto !!
l'ho già detto su instagram ma lo dico anche qui missione di queste due settimane è quella di finire new americana, mancano tre capitoli quindi spero di riuscire a farlo prima di partire per il giappone (il 9 parto sisi), poi finita questa scottish sithe a oltranza perché è arrivata anche la sua ora
niente non mi dilungo troppo così posso postare il capitolo
vi mando un bacino
ci vediamo presto GIURO
mel :D
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