𝚜𝚎𝚕𝚏-𝚖𝚊𝚍𝚎 𝚜𝚞𝚌𝚌𝚎𝚜𝚜
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Se qualcuno mi dicesse di descrivermi in tre parole, saprei esattamente che cosa dire.
Se mai qualcuno venisse da me, arrivasse alla curiosità totale di sapere chi e che cosa sono, mi guardasse e mi chiedesse "Katsuki Bakugō, tu, in tre parole, come diresti di essere?", avrei la risposta pronta sulla lingua prim'ancora che avesse terminato di pormi la domanda.
Io sono...
Intelligente, brillante, migliore.
Modesto?
No, non sono modesto.
Non mi è mai servito essere modesto.
Perché negare quel che sono?
Perché mentire?
Sono problematico, arrogante, fragile e incredibilmente inarrivabile, ma non sono queste le caratteristiche che mi compongono.
È l'intelligenza, che fa di me quel che sono.
Io sono intelligente.
Davvero intelligente.
Forse persino troppo intelligente.
Sposto gli occhiali sul ponte del naso, le persone e il loro casino che mi distraggono dal mio obiettivo attorno a me, scuoto la testa per smuovere i capelli appiccicati al viso e torno a quel che stavo facendo.
La mia vita è la vita che conduce una persona intelligente.
È una vita focalizzata, come lo sono io.
Avevo... credo dieci anni, quando ho deciso quello che sarei diventato.
E da lì, poi, nessuno mi ha mai fatto indietreggiare di un passo.
Scorro con gli occhi fra le righe strette del mio libro, qualcuno mi urla accanto, lo ignoro.
Io sono un genio.
Non sono arrogante, sono onesto.
Sono un genio.
Nessuno è mai stato come me.
A me le cose vengono e basta, e le lavoro al punto che oltre alla genialità ci sia anche l'esperienza, terminando tutto col risultato che fa di me quel che sono.
Intelligente, brillante, migliore.
Mi mordicchio il labbro inferiore, sbuffo all'ennesima distrazione, tiro su i piedi sulla seggiolina di plastica e appoggio la copertina spessa del mio libro di fisica sulle ginocchia.
So cosa sarò.
Non ammetto il minimo grado d'incertezza.
Il mio rendimento termodinamico, è uguale a uno. Dunque, per chi non fosse pratico di questo tema, quello a cui corrispondo è qualcosa che neppure è possibile idealizzare, la perfezione più totale, la combinazione più corretta possibile di elementi uniti assieme.
Non c'è osservatore che modifichi le condizioni sperimentali di questa verità.
E ci fosse, sarebbe ininfluente, che non sono morbido, variabile e intrinsecamente incomprensibile come la meccanica ondulatoria, io, sono il più semplice esperimento della fisica classica.
Questo è il risultato.
Io, sono il risultato.
Intelligente, brillante, migliore.
Questo è.
'Fanculo chi crede altro.
Scorro con lo sguardo fra le mille note scritte in calligrafia ordinata fra le righe stampate.
Chi altro, se non io?
Io.
Io e basta.
Giro la pagina, rileggo, ripasso, riguardo.
E che bisogno di sarebbe di ripassare, se non quello di confermare a me stesso che so già tutto? Ripasso per nutrire il mio ego, non la mia mente, questa è la verità. Ripasso per sapere quanto so, per vedere quanto conosco.
Non sarò alto, non sarò imponente, non sarò una di quelle persone che torreggiano con la sola presenza, io.
Ma sono intelligente, brillante e migliore.
Migliore di tutti.
Migliore di me stesso.
No?
Mesi dopo avrei detto "no".
Ma questo io ancora non lo so, per cui rimango qui a crogiolarmi nella mia intelligenza, e ignoro il resto.
O quantomeno, cerco di farlo.
Perché dimentico sempre che il resto non è liscio e lineare come lo vorrei, anzi. È fatto di persone, il resto, è fatto di gente con un libero arbitrio.
Non mi piace, questa cosa, ma è così.
Cazzo.
− Ti prego, 'Suki, ma quanto è figo? –
Alzo lo sguardo dal mio libro e guardo il mio migliore amico attraverso le lenti spesse dei miei occhiali.
Come io abbia degli amici, è un mistero persino per me.
Non li ho mai voluti né li ho mai cercati, anzi, sono più le volte che li tratto male che quelle rare occasioni in cui cedo anch'io nel dimostrare di avere un cuore.
Ma Denki Kaminari è fatto di colla.
Io sono fatto d'acciaio, sono liscio, tagliato, netto.
Lui è fatto di colla.
Si appiccica e non molla mai più.
Non è sgradevole quanto vorrei, questa cosa.
Ma lui non lo sa.
− È attraente. – rispondo, cercando di imprimere tutto il mio fastidio in queste due parole.
Annuisce e i capelli biondo elettrico si muovono col suo viso, portandosi dietro il fulmine scuro che ci tinge regolarmente sopra che dice essere il suo marchio di fabbrica.
− È bellissimo, cazzo. Com'è possibile che stia con me? –
− Ah, questo non chiedermelo. –
Ride, mi spinge da una spalla e sballotta la mia posizione perfettamente equilibrata.
Gli lancio un'occhiataccia che, prontamente, ignora.
− Come fai a non saperlo? Non sei tu che sai sempre tutto, 'Suki? –
Sbuffo.
− Tutto su come funziona il mondo, cretino, non su come funzionino i vostri minuscoli cervelli. –
Sbatte le ciglia piene di mascara.
− Il mio cervello non è minuscolo. –
− Il tuo cervello ha la massa di un elettrone, Denki. –
Confusione nella sua faccia.
Non ha idea nemmeno di cosa sia un elettrone, secondo me. Non è proprio il più sveglio degli studenti, ma la cosa non gli pesa.
Perché poi dovrebbe farlo, in effetti.
Amo essere il migliore e cerco sempre di superarmi, ma non tratto gli altri come se non valessero nulla perché hanno priorità diverse dalla mia.
Non più, quantomeno.
− Nove virgola uno per dieci alla meno trentuno chilogrammi. – suggerisco, guardandolo ragionare i numeri un istante alla volta.
− È poco, vero? –
− Pochissimo. –
− Stronzo! –
Sporge una mano e mi pizzica una guancia, io cerco di sistemarmi gli occhiali e gli cado quasi addosso, lo insulto, lui ride, ci ritroviamo qualche istante dopo arruffati e confusi nel rumore assordante del casino attorno a noi.
A proposito del casino, forse è il caso che spieghi cos'è.
Siamo...
Mi viene da alzare gli occhi al cielo al solo pensiero.
Siamo ad una stupidissima partita di football.
Due settimane fa Denki mi ha accompagnato in macchina – che io non guido perché dopo aver letto tutte le cose che potrebbero andare storte all'interno di quello schifo non mi fido – a Tokyo per dare l'esame d'ammissione anticipato all'università.
Gli dovevo un favore.
A quanto pare il favore era accompagnarlo a vedere il suo altissimo ragazzo che gioca.
E quindi eccomi qui, genio delle scienze costretto a guardare stronzi che corrono e si lanciano una palla che ha come unico pregio quello di essere perfettamente studiata per fendere aerodinamicamente l'aria.
Non odio lo sport.
Vado a correre una mattina sì e una no perché so che fa bene.
Ma odio gli sport di squadra, odio la gente che fa rumore, e odio le fottutissime urla delle persone che guardano ventidue coglioni che corrono su un pratino con delle righe.
Getto lo sguardo oltre la transenna.
Il ragazzo di Denki si nota immediatamente, perché è quella che definirei tranquillamente una pertica.
Un metro e novantanove, dice lui, due metri e uno dice Denki.
Hitoshi Shinso è sempre stato la cotta del mio amico, credo da quando abbiamo iniziato il liceo. È attraente, l'ho detto, è vero. Ha i capelli tinti di viola da quando lo conosco, due piercing sul labbro inferiore, il viso elegante e la verve incredibilmente interessante.
Non è il mio genere.
A me piacciono più grandi.
Ma Denki ci va matto, e sono onestamente felice che abbia trovato il coraggio di andare lì e dichiararsi, un giorno.
Sono...
Mi vergogno a dirlo e mi viene da vomitare, ma sono carini.
− L'hanno già fatto un touchdown? –
− No, Sero è sottotono. –
Anche lui, è facilmente riconoscibile anche da qui.
Alto e snello, corre e corre e corre e non fa altro tutta la partita, non so dove trovi tutta quell'energia.
Sero è amico di Denki e, per proprietà associativa, mi pare di aver capito, anche amico mio.
Sta con un altro centrale, uno alto e grosso con cui non vado d'accordo che mi dice che non posso fare mai il cazzo che mi pare a scuola anche se sono notoriamente lo studente più bravo.
Uno con gli occhiali.
− Quanto ancora deve durare questa tortura? –
− Almeno quarantacinque minuti. –
Alzo gli occhi al cielo.
− Non ti ho mai odiato così tanto. –
− Non è vero. –
No, non è vero. Due mesi fa fingendo di voler innaffiare il prato mi ha centrato col tubo dell'acqua e mi ha infradiciato quattro mesi di appunti, per cui non è vero.
Ma un po' lo odio.
Osservo il gioco fermarsi.
Qualcuno ha fatto punto?
Non lo so, non sento.
Ho messo l'apparecchio acustico al minimo perché mi dessero meno fastidio possibile, quindi nonostante senta il casino che a me è vicino, fin là sento poco e niente.
− Chi sono gli altri? –
− Quelli con la divisa rossa. –
Sospiro.
− Grazie al cazzo, Denki, so di che colore siamo. Intendevo di che scuola, cretino. –
Incastra il lecca lecca che tiene fra le labbra, succhia e lo tira fuori, battendoselo sul labbro inferiore.
È esuberante, lui, tanto tanto esuberante. Chocker di pelle, felpa tagliata sotto i pettorali e jeans tutti strappati, sembra costantemente uscito da un qualsiasi video musicale emo anni duemila.
Ma gli sta bene, e si sente bello, quindi... va bene così.
− Una squadra di Osaka, credo di aver capito. Quella dove sta il tipo di Mirio. –
Lancio un altro sguardo verso il campo.
Mirio è il quarterback della squadra e questa è la sua ultima partita ufficiale, che sta per iniziare l'anno scolastico nuovo e lui ha finito il liceo.
Mirio non puoi non conoscerlo, anche se sei come me, anche se cerchi non conoscere niente e nessuno perché sei troppo concentrato su se stesso.
Mirio... credo che tutti abbiano avuto una microscopica cotta per lui ad un punto o un altro del liceo, insomma. Non è il più intelligente, quello sono io, ma ha il carisma e il fascino naturale del leader, i capelli biondi e il carattere pacato.
Ha il ragazzo da che mondo è mondo, ma ha qualcosa di davvero affascinante.
Denki indica un altro ragazzo, seguo la linea della sua mano e fermo lo sguardo su un giocatore della squadra avversaria.
Stessa corporatura di Mirio, all'incirca.
− Quello è il quarterback dei cattivi. –
− Sono avversari, non cattivi. –
Schiocca le labbra attorno al lecca lecca, piega la testa.
− Cercano di tirar giù 'Toshi, è ovvio che siano cattivi. Nessuno vorrebbe tirar giù quell'uomo. –
− È così che funziona il gioco. –
− Non m'interessa. –
Mi fermo a guardare l'avversario che Denki ha indicato, stringo gli occhi e lo fisso meglio. Davvero, con la divisa e tutto sembra tale e quale a Mirio di corporatura, sul metro e novanta con le spalle larghe.
Li odio, gli stronzi del football, perché sono tutti più grossi di me.
Mi spiace, se sono bassino, ok? Non è colpa mia se sono un metro e settantadue di cervello.
− Dici che ci battono? – chiedo, riferendomi a lui.
− Non lo so, sai che non capisco una sega di football. –
Mi giro verso di lui, appoggio il mento su una delle mie ginocchia ancora tirate su.
− E allora che cazzo ci siamo a fare qui? –
Mi guarda come se fosse la cosa più stupida del mondo, da chiedere.
− Sono qui per supporto morale ad Hitoshi, 'Suki. Perché sono un fidanzato fantastico e non troverà mai nessuno che lo ama quanto lo amo io. –
Lascio rotolare gli occhi verso l'alto.
Stronzate da ragazzini.
Io non ho tempo da dedicare alle stronzate da ragazzini.
Le mie relazioni sono tutte uguali.
Con ragazzi più grandi di me di cinque o sei anni, che frequentano l'università e hanno da fare per i cazzi loro, che vedo quando capita e non fanno male quando ci lasciamo.
Anche quella di adesso, è così.
È raro che io sia single.
Sono... ok, basta finta modestia. Sono un bel ragazzo, sono interessante, alle persone esteticamente piaccio. Senza contare poi che avere diciott'anni mette in campo una certa voglia sessuale tipica dell'età che preferisco non trascurare.
Ho il ragazzo, ora.
Uno... uno come gli altri.
Carino, niente di che.
Sto per riprendere il mio libro quando vedo Denki sobbalzare guardando il campo e mi rovescio all'istante verso la scena.
Il quarterback dei "cattivi", come li chiama lui, in piedi di fronte a Sero per terra.
− Che cazzo è successo? –
− Si sono andati addosso. –
− E allora? Non dovrebbero essere abituati? –
Stringo lo sguardo, faccio più attenzione ai dettagli.
Sero sembra... dolorante. Più dolorante di quanto dovrebbe, ho impressione, sembra essersi fatto male sul serio.
− Non lo so, quell'altro è spuntato dal nulla e gli è proprio andato addosso. –
Quell'altro sembra... grosso, credo. Forse un po' più grosso di quanto Sero si aspettasse. Anzi, non se l'aspettava, se non l'aveva visto.
Il quarterback degli avversari è in ginocchio sul prato.
Toglie il casco a Sero e lo guarda, gli tasta la faccia come se cercasse di capire se sta bene.
Seguo l'istinto di capire cosa stia succedendo e smanetto con l'apparecchio acustico all'orecchio, i rumori si fanno più nitidi, mi sporgo appena in avanti.
Il tipo si mette le mani sul casco, il suo, e lo tira su.
Ha...
Si avvicina, parla, sorride e guarda Sero che gli risponde.
Ha i capelli rossi.
Rosso fuoco, rosso acceso.
− Chi cazzo è quello? – mi viene spontaneo dire, battendo con il gomito sul mio amico che ha continuato a sospirare, sobbalzare e fare casino come al solito.
− Sero, Sero Hanta, il nostro amico, 'Suki! Ti sei dimenticato? –
− Non lui, coglione, l'altro. –
Denki rimane un attimo in silenzio.
− E che ne so chi è. –
Già, che ne sa.
Che ne so io, in effetti.
Però...
Sorride ancora, prende le guance di Sero e poi alza una mano verso la panchina dell'allenatore, mostrando il pollice in su.
Sta bene.
Sero sta bene.
Lui si è fermato per controllare che Sero stesse...
Lo prende dal retro delle ginocchia e dalle spalle, a mo' di principessa, lo tira su e zompetta verso le nostre linee, appena sotto la transenna che ho di fronte alla faccia.
Ha il passo svelto, ma tiene Sero con delicatezza.
Sorride.
Continua a sorridere.
− 'Suki, va tutto bene? –
Mi mordo l'interno della bocca.
− È carino. – borbotto.
Denki tira l'aria dentro la bocca.
− Cosa? –
Il suo viso si fa più definito, quando si avvicina. Ha un bel viso, gli occhi grandi, l'espressione allegra, i capelli scarlatti arruffati e fuori da quella che credo fosse una coda fatta a caso.
− È carino, Denki. – ripeto.
Non mi vergogno di trovarlo carino.
Alla fine è solo un giudizio estetico, cos'altro dovrebbe esserci di mezzo? È carino, insomma, niente di che.
Lascia Sero sulla panchina, si china un'altra volta, stringo lo sguardo per guardare le sue labbra.
La cosa positiva di essere quasi sordi, è che t'insegnano a leggere le labbra.
Non che ne abbia bisogno, la tecnologia si è evoluta e ora sento, ma una volta che lo impari poi non te lo dimentichi.
Sta dicendo...
"Mi dispiace davvero, scusa, credevo di non esserci andato di peso. Mi spiace, spero che non mi odi."
Sero è di spalle, non lo vedo in faccia.
Il ragazzo coi capelli rossi piega la testa e sorride ancora.
Non gli fa male la faccia a sorridere così tanto?
"Ci vediamo fra un paio di settimane, allora. Scusami ancora".
In che senso un paio di settimane?
− Dice che torna, sai che significa? –
Denki è... scioccato. Sembra scioccato, ma non so se sia io ad averlo reso così o lui autonomamente ad essere sempre un passo indietro rispetto a quello che succede.
− Io... −
− Aah, fai finta che non te l'abbia detto. –
Incastra e distende le sopracciglia nel pieno della confusione.
− Cosa, che torna o che è carino? –
Mi lascio cadere indietro sulla sedia.
− Tutte e due le cose. –
So che è inutile. Se c'è qualcosa che non si può sperare, è che Denki Kaminari lasci correre qualsiasi cosa sia anche solo lontanamente simile ad un pettegolezzo.
Allunga un braccio e mi pizzica il fianco.
− Che c'è, ora fai il timidone? –
− Sta' zitto, scemo. –
Indica con la testa il ragazzo con i capelli rossi.
− Lo trovi carino? –
Se lo trovo carino?
Non è che lo trovo.
Lo è.
Indubbiamente, non è un mio gusto personale, è un dato di fatto. Non è che sia una scoperta, non è che mi sia innamorato, ho solo constatato qualcosa che vedono tutti.
Più intimidito di prima, perché sotto lo sguardo di Denki mi sento incredibilmente più esposto, mi rigiro a guardarlo.
Non è tornato in campo, sta ancora parlando.
Non so se si rivolga a Sero o a chi altri, dovrei concentrami per leggere le sue labbra e con il mio migliore amico che mi dà fastidio a due centimetri la cosa è piuttosto difficile.
Non siamo vicini, nemmeno lontani.
Saranno un paio di metri a distanziarci dalla panchina.
Vorrei...
Cazzo, vorrei vederlo da più vicino.
− Sì, lo trovo carino. E allora? –
Denki ridacchia.
− Cosa direbbe il tuo ragazzo? –
− Che è vero. Mica è un crimine trovare qualcuno carino. –
Mi colpisce il braccio, poi rimette in bocca il lecca lecca e lo gira sulla lingua.
− Per te è un crimine. – sbiascica.
− In che senso? –
Lo tira fuori dal bastoncino e lo punta verso l'avversario coi capelli rossi.
− Da quanto ci conosciamo, 'Suki? –
− Che cazzo c'entra? –
− Rispondimi. –
Ci conosciamo dall'asilo, io e lo stronzo. Non è che la nostra città sia enorme, non è colpa mia se le persone che uno vede alla fine sono sempre le stesse.
− Quindici anni, coglione. –
− In quindici anni non ti ho mai sentito dire che qualcuno fosse "carino". –
Sento il sangue salire fino alla mia faccia.
− Non è vero. –
− Sì che è vero. –
Stringo le cosce al petto, appoggio il mento nello spazio fra le ginocchia.
− Ho avuto più di un ragazzo e lo sai. –
− È vero, ma non mi hai mai detto che li trovavi "carini". Alla peggio "accettabili", 'Suki. –
− Il mio ragazzo è carino. – tento di precisare.
Lo sguardo che mi lancia è davvero infido. Non è intelligente in senso scolastico, Denki, mai stato, ma è bravo a infilarsi nei cervelli delle persone. Dice che ha fatto il test ed è uscito "ENTP" e usa questo come argomentazione universale, anche se sinceramente non so cosa significhi.
− Non è vero. –
− Come non è vero? Ci sto assieme. –
Le ciglia bionde catturano la luce del sole e la rigettano indietro.
− Il tuo ragazzo è come tutti i tuoi altri ragazzi. Troppo grande, troppo impegnato, troppo inutile. Nemmeno ti piace, 'Suki. –
− E allora? –
− E allora è strano che tu dica che qualcuno è "carino". –
Stringo i denti e reprimo l'istinto di saltargli in braccio e prenderlo a pugni. Perché fa tutto il fico con le sue argomentazioni di merda e mi fa sembrare un cretino?
Lo odio.
Io sono intelligente, brillante, migliore.
Non lui.
Non gliela lascio vincere, stronzo.
− Stai dicendo un mare di stronzate. Alla fine non è niente di speciale, ora che lo guardo meglio. Non è che sia poi tutto questo gran che. – borbotto.
Denki mi fissa.
− Riguardalo e senti la cazzata che hai detto, 'Suki. –
− 'Fanculo. –
Mi fissa, come se mi stesse costringendo a rimettere i miei occhi dov'erano.
Mi giro verso il tizio coi capelli rossi.
Ora lo troverò meno carino, sono sicuro. Ora penserò che non è niente di che, che non vale la pena, che non è poi così affascinante come sembra.
Lo so, io lo so, io so sempre tutto.
Il problema è che invece, forse, non lo sapevo.
Si tiene con la mano sulla transenna, la faccia appoggiata sopra e l'espressione un po' pensierosa, come se stesse respirando prima di ricominciare a correre, gli occhi che vagano distrattamente.
Quando lo guardo, ora, ora lui che non ha niente da fare ed è vicino, a poco più di un paio di metri da me, mi guarda di risposta.
E...
Sorride, mi scorre lo sguardo addosso.
Vedo le sue labbra muoversi.
Non sa che le so leggere.
Ma le so leggere.
"Che bello."
Che...
Vampata di sangue che corre e si addensa sulle mie guance, calore che mi si espande in faccia.
Che bello?
Che bello... io?
No, no, starà parlando di qualcun altro.
Starà...
Piega la testa e mi guarda meglio, poi alza una mano e la agita come se mi stesse salutando.
Mi sta salutando?
Perché mi sta salutando?
Non mi conosce, perché dovrebbe?
Chi è?
Chi cazzo è questo stronzo?
Io...
Non muovo le braccia, ma tiro su una mano e la piego di lato per accennare un saluto.
Perché l'ho fatto?
Che cosa mi dice il cervello?
Non lo so, che cosa mi dice il cervello, è completamente fritto.
Io, l'intelligente, brillante, migliore Bakugō Katsuki, non so cosa fare. Non so che cosa ho fatto, non so perché, non so... non so niente.
Non mi era mai successo di non sapere niente.
Non mi era mai...
Qualcuno vestito di rosso, della sua squadra, gli corre incontro, lo prende da una spalla e lo tira indietro.
Ho alzato l'apparecchio, per cui lo sento, l'urlo.
Gli urla...
− Kirishima! –
E Kirishima mi sorride, mi sorride davvero come se non fosse mai stato più felice nella sua vita, poi si gira e scompare.
Rimango seduto.
Rimango lì, da solo, con Denki al mio fianco che sta elaborando le informazioni e un modo per sbattermele in faccia una dopo l'altra, con... con le ginocchia che tremano e il cuore che mi sbatte nella cassa toracica come se stesse cercando di scappare.
Rimango lì, a guardare la schiena di Kirishima che si allontana.
E penso, per un momento piccolissimo, infinitesimo, tendente allo zero, che è carino per davvero.
Carino.
Bello.
Bellissimo.
Credo che il mio rendimento termodinamico sia appena sceso a zero virgola novantanove.
Ignoro totalmente la questione tutte le due settimane successive.
Davvero, me ne sbatto come saprebbe sbattersene il migliore dei menefreghisti, e quel migliore, come al solito, sono io.
Il giocatore era carino? Sì. Innegabile, inutile far finta che non lo fosse.
Denki ha continuato a prendermi per il culo per tre giorni? Sempre sì, altra cosa inutile da negare.
La cosa non ha minimamente cambiato il corso della mia vita? Definitivo, serissimo sì.
Non è la prima volta che trovo qualcuno attraente un po' sopra la media. Mirio, per esempio, Mirio l'ho sempre trovato attraente, ma non è che questa cosa mi abbia destabilizzato.
E soprattutto, contiamo questa cosa, Kirishima è di Osaka. L'ho visto e non è detto che non lo rivedrò, ma obiettivamente è troppo lontano per mettere seriamente in pericolo il piano netto ed lineare che ho fatto della mia vita.
Credo.
Già, credo.
Due settimane dopo, ovvero oggi, ovvero ora, ricomincia il liceo.
Il liceo... non mi piace, a grandi linee. Non mi piace perché lo studio è ancora inevitabilmente superficiale, perché raggruppa gente che ha interessi troppo diversi, perché è pieno di regole, perché non te lo gestisci come ti pare.
Ha lati positivi, come i laboratori gratuiti sempre aperti e i banchi comodi su cui farti i cazzi tuoi, ma come ambiente non mi ha mai stimolato particolarmente.
So di essere il migliore da quando sono entrato qui per la prima volta.
E mi fa un po' girare i coglioni che la scuola se ne prenda il merito, quando in realtà tutto il merito va solo a me.
Non è che mi abbiano dato loro la vocazione.
Me la sono data da solo, ci ho lavorato da solo.
Non mi hanno insegnato niente.
Quello lo farà l'Università.
Ci sono poche cose che al liceo mi piace fare.
Imbucarmi nel laboratorio di fisica al secondo piano in pausa pranzo e giocare con le mie trovate, sedermi sul tetto e fumare quelle rarissime volte che me lo concedo, dormire in biblioteca.
Denki direbbe che amo anche fare gossip di fronte agli armadietti ma è più una sua passione in cui vengo trascinato che altro.
Oggi me la sono risparmiata, comunque.
Me la sono risparmiata perché Hitoshi e Denki stanno insieme, ora, grazie al cielo, e quindi tutte le sue parole e stronzate se l'è sorbite quel poveretto che ha accettato di uscire con lui.
Lo guarda come se fosse l'unica stella a brillare nel mondo, ma questo non lo rende meno da compatire.
Ho provato a seguire lezione, oggi, lo giuro.
Ma mi sono addormentato alla quarta parola.
Perché al liceo spiegano la matematica come se fossimo degli idioti? Lo so cos'è un insieme, cazzo, non c'è bisogno di ripartire da quello ogni anno o impazzirò sul serio.
La professoressa non ha detto niente anche se ho passato due ore con la fronte sul libro.
Cosa dovrebbe dire?
"Se non segui non passi i test?"
Ma fatemi ridere. Quelle porcate da terza elementare le passa Denki, e ho detto tutto.
Il resto della mattinata ho studiato cose per conto mio.
Io...
Io voglio fare i circuiti, nella vita. Voglio progettare circuiti così piccoli da poter entrare ovunque, così piccoli da essere invisibili e strutturati e perfetti.
Vorrei...
Lavorare nel campo della programmazione microcircuitale.
Questo voglio fare.
Entrare dentro le cose e farle io stesso, scendere fino al fondo dell'essenza del mondo moderno, governarlo con le mie regole, le mie idee, le mie risoluzioni.
Voglio creare il mondo.
Voglio che gli altri lo creino a partire da me.
È questo, che io voglio fare.
Pensavo che fosse un sogno facile, che fosse un percorso di studi piuttosto settoriale, quello dell'ingegneria. Poi ho scoperto che...
C'è una marea di cose da fare, da studiare e da sapere.
C'è la matematica, c'è la fisica, c'è l'informatica, c'è la pratica e la teoria, lo studio, gli esercizi, le simulazioni, gli esperimenti.
Troppa roba.
Troppa se fossi una persona qualunque.
Ma io i sogni li inseguo, e lavoro per averli, e so quanto valgo.
E di certo non mi piego.
Sono nel giardino della mensa, in questo momento, con le gambe tirate su come al solito che guardo il mio nuovo fiammeggiante libro di fisica dei semiconduttori.
Mi fa ridere, la fisica dei semiconduttori, perché il silicio dove innestano le impurità si chiama "drogato" e per quanto sappia che la parola farebbe ridere solo un cretino, dire che prendo un pezzo di "silicio drogato" mi mette una certa allegria.
È interessante.
Roba da secondo anno di università, ma m'interessa lo stesso, anche se me la rispiegheranno.
Se c'è qualcosa per cui il liceo è mediamente utile, è per il piazzamento nelle graduatorie universitarie. Se il tuo è un buon liceo parti avvantaggiato, se ha contatti fai colloqui più in fretta, se hai programmi extracurricolari interessanti guadagni punti agli occhi di una potenziale ammissione.
Io so che entrerò dove voglio entrare.
Sono bravo, sono bravissimo.
Ma sono anche giovane, e qualche volta, anche se non si direbbe, un po' incerto.
Per cui i progetti extracurricolari li faccio lo stesso, anche se non mi servono.
Odio fare i lavori di gruppo o le competizioni, li trovo noiosi, vorrei che chi gareggiasse fosse al mio livello per spronarmi.
Tollero i tutoraggi.
Amo l'assistenza di laboratorio anche se più volte mi è capitato di perdermi fra i resistori e bruciarmi le dita come se nessun altro fosse in quell'aula.
C'è una cartellina gialla, di fronte a me, sul tavolo di legno, completamente ignorata che forse dovrei aprire. Non ho voglia di farlo e non so quando lo farò, ma è lì che mi attende, forse dovrei trovare il coraggio di affrontarla.
Partire il primo giorno con i tutoraggi è una merda, no?
Lo è.
Lo è decisamente.
Lo sarebbe.
Solo che non sono scemo, non sono scemo e ho fatto due più due.
"Torno fra due settimane".
Sono passate due settimane.
E poi il preside che mi dice che è importante, che il tutoraggio vada bene, perché questo è uno studente promettente, uno che si è trasferito da Osaka, uno che deve mettersi in pari con tutti i programmi di lezione per dedicarsi allo sport.
Che sono l'unico che può farlo.
Che vuole che lo faccia io.
Io so chi c'è dentro quella cartellina.
E la cosa mi terrorizza.
La paura non è mai stata il mio sentimento, o meglio, ho sempre fatto finta che non lo fosse. Sono un po' sempre terrorizzato dai forse, ma li respingo con l'arroganza, e la paura la metto in un angolo di me che è inarrivabile persino a me stesso.
Ma Kirishima, Kirishima mi fa davvero paura.
Mi ha fatto vacillare.
Io non voglio vacillare.
Io non...
Non so se si ricorda di me.
Magari non si ricorderà e potrò fare finta di non averlo mai visto, potrò pensare che non mi abbia mai guardato e detto "che bello", che io non l'abbia trovato carino.
Gli spiegherò la matematica, la fisica, quel che gli serve e finirà tutto qui.
Non so perché, so che non andrà così.
E la cosa, ripeto, la cosa mi terrorizza.
Oggi a pranzo sono andato a mangiare da solo sul tetto. Non è che odi gli altri, è che sono un po' sopraffatto dal rumore, qualche volta. Sono nato con un problema d'udito ed è relativamente recente che riesca a sentire tutto, certe volte mi soffoca e non so che cosa fare.
Potrei spegnere l'apparecchio acustico, ma abbasserei la guardia, per cui preferisco stare da solo e basta.
Mentre pranzavo continuavo a pensare alla cartellina nella mia borsa, quella che ora è sul tavolo di fronte a me.
Kirishima.
Che cosa so io, di Kirishima?
Niente.
In effetti, non so niente di niente.
So che è bello, so che è bravo, so che è di Osaka. So che se ci va giù di peso fa male, so che ha trattato Sero come se fosse uno dei suoi, so che ha sorriso tanto.
So che mi ha detto che sono bello.
So che mi ha salutato.
So che il cuore mi batteva un po' più forte, dopo.
Mollo il libro che non stavo comunque calcolando nello zaino, metto i gomiti sul tavolo, fisso il giallo scolorito della cartellina.
Chi sei?
Perché sei venuto qui a creare problemi?
Che cosa vuoi da me?
Allungo una mano.
Che sia uno scherzo?
Che sia... che sia il desti...
No, stronzate.
Io non ci credo nel destino.
E non inizierò a crederci per un paio di occhi gentili e degli stupidissimi capelli rossi.
Colto dalla rabbia, che conosco molto meglio della paura, metto le dita sul cartoncino e lo apro di scatto, cancellando due ore d'incertezza col solo movimento del polso.
Foto studentesca, informazioni personali, pagelle.
Eijirō Kirishima ha diciotto anni, è nato qualche mese dopo di me, è alto un metro e novantacinque. Nella foto sembra più giovane, ha una cicatrice che attraversa il sopracciglio sinistro e termina sopra la palpebra, si vede la ricrescita nera dei suoi capelli, ha un sorriso che scalda persino attraverso l'obiettivo.
Ottimo giocatore, ha una media... media. Quel che serve per continuare a giocare, niente di eclatante, niente di vergognoso.
Ha difficoltà in matematica, ha sempre fatto tutoraggio.
Dimostra un carattere molto partecipe, è facile andare d'accordo con lui, non litiga e non urla, è gentile, carismatico, premuroso.
È...
− Sei tu Katsuki Bakugō? –
È altissimo, dal vivo.
Ha le spalle larghe, la statura che svetta sopra la mia, le gambe lunghe. La cicatrice è più chiara e meno visibile, sulla pelle che durante l'estate pare essersi scaldata, gli occhi continuano ad essere gentili, l'espressione tranquilla.
Non so che cosa rispondere.
Non rispondo.
Rimango in silenzio a fissarlo fissarmi, muto come un cretino di fronte a lui.
Kirishima aspetta che risponda e quando non lo faccio, assume un fare un po' sconsolato.
− Scusami, è che sto cercando il ragazzo che mi deve fare il tutoraggio e ti ho visto e ti ho riconosciuto e stavo sperando che fossi tu, ma se non sei tu non è che... −
− Mi hai riconosciuto? –
Sorride.
Le sue guance si scaldano.
Distoglie lo sguardo.
− Alla... alla partita. Quando sono venuto vicino a voi e il vostro corridore stava male. –
Si ricorda.
Lui si ricorda.
Lui si ricorda di me.
Mi sembra che il mio respiro si faccia più serrato, più breve.
Che cosa faccio, che cosa, io che cosa...
− Sì, sono io, comunque. – taglio corto, distogliendo lo sguardo, togliendo di mezzo la cartellina e indietreggiando pericolosamente sulla panca.
Non devo farmi prendere dal panico.
Non devo.
Il fatto che mi abbia riconosciuto non vuol dire niente.
Non vuol dire...
Sembra contento, contentissimo quando gli dico che è vero, che io sono Katsuki Bakugō, e sorride. Il suo sorriso mi fa cose strane, non ci voglio pensare.
− Sei tu? –
− Sono io. –
Ha le fossette che compaiono solo nel massimo momento del suo sorriso.
− Sono felice che sia tu. –
− Non vedo perché dovresti esserlo, non ci conosciamo neanche. –
Fa spallucce.
Guarda la panchina con circospezione, cerca di capire come infilarcisi dentro, poi opta per infilare una gamba dietro l'altra e sedersi.
Ci mette un po', ad infilare tutta la sua stazza lì dentro, ma poi ce la fa.
− Certe volte con le persone ti trovi bene a pelle, non credi? –
− Non me ne è mai fregato un cazzo. –
Ridacchia, quando gli rispondo male. Non ci rimane ferito come chi non mi conosce, non mi risponde a tono, no. Ridacchia, appoggia il suo borsone vicino a se stesso.
− È lecito anche questo. –
Sembra il triplo di me, è il triplo di me.
Ed eppure è cauto, il tono della sua voce, come se non volesse disturbarmi.
Chissà chi sei, Eijirō Kirishima.
Chissà chi sei.
− Allora, a me hanno detto di presentarmi qui a quest'ora e cercare te, ma io che cosa devo fare non l'ho mica capito. Che devo fare? –
Spensierato.
Vorrei pensare "coglione", ma il mio cervello dice "spensierato".
− Tutoraggio. –
− Ma a scuola non facevo così schifo, dai! –
− Di matematica c'è scritto di sì. E comunque serve per pareggiare i programmi, per vedere se sei al passo, niente di difficile. –
Mette le mani sul tavolo, ci mette il mento sopra.
− E dobbiamo iniziare adesso? È il primo giorno di scuola, non mi sembra giusto. –
− Come se fosse diverso da tutti gli altri. –
Prende aria dalla bocca.
− Certo che lo è! Rivedi i tuoi amici, conosci le persone nuove, il primo giorno di scuola è il mio giorno di scuola preferito! –
Vorrei colpirlo.
Vorrei colpirlo, credo.
Non so se vorrei colpirlo.
− Sempre le solite facce da culo da quattro anni, che cosa dovrebbe cambiare il quinto? –
− Magari si sono tagliati i capelli durante le vacanze. –
Lo fisso come a chiedergli se stesse scherzando.
No, non stava scherzando.
Idiota.
− Senti, io ho un tot di ore da fare con te durante questi due mesi, non è detto che dobbiamo farle per forza oggi, credo che fosse solo per presentarci. Se vuoi ci rivediamo domani o dopodomani, non è che io muoia dalla voglia di star qui con te a farti ripetizioni, sai. – borbotto.
Spalanca gli occhi.
− Dici davvero? –
− Sì, vai e fai il cazzo che ti pare. Basta che mi diano i crediti alla fine, non me ne frega un cazzo se facciamo le ore adesso o quando cazzo ti pare. –
Denki dice che ripeto troppo la parola "cazzo".
Io non credo proprio di farlo.
Sorride, annuisce come se avesse capito.
Poi...
Poi non fa niente.
Poi rimane fermo impalato come un cretino a fissarmi, non fa cenno di andarsene e il mio cervello inizia a non ragionare più su che cosa stia succedendo.
Che cosa...
− Che cosa stai facendo? –
− Sto passando il tempo a fare il cazzo che mi pare senza dover fare lezione. –
− Ma se stai seduto a guardarmi. –
Annuisce, convintissimo.
− È tutto il giorno che ti cerco, vorrei solo parlare con te. –
È tutto il giorno che mi cerca?
Perché mi cerca?
In che senso mi cerca?
− Perché cazzo mi dovresti star cercando? –
− Perché ti ho visto alla partita e... mi sei sembrato... ecco... vorrei diventare tuo amico, mettiamola così. –
Mio amico?
Cazzo, ma non do tutto il contrario di quell'impressione?
− Io non... non ho amici. –
− Davvero? –
No, non è vero, sto solo lasciando che il mio panico prenda il sopravvento su di me.
Perché non riesco a fermarlo?
Cazzo.
− No, non volevo... non... io non capisco... −
− Come si fa a diventare amici? Te lo spiego, se vuoi, è facile. –
Si siede meglio, mi guarda meglio.
− Prima ci conosciamo e poi siamo amici. –
Ci sono tante cose che vorrei dire. Tante, a partire dal fatto che non è che non abbia amici, è che mi ha preso alla sprovvista, fino a concludere che non c'è alcun bisogno che stia qui con me.
Quello che il mio cervello, il mio infallibile e sveglissimo cervello, produce, però, è completa confusione.
Troppo diretto.
Troppo poco intimidito da me, troppo... genuino.
− Vuoi conoscermi? –
− Sì, così possiamo essere amici! –
Così possiamo essere... amici.
Amici?
Io non voglio essere tuo... amico.
− E se mi conosci e ti sto sul cazzo? –
− Allora non possiamo essere amici. –
Sorride come se stesse parlando di qualcosa di così semplice e chiaro e lineare. Mi sale su il fastidio dalla bocca dello stomaco.
Questa è l'unica scienza che non sono in grado di comprendere, cazzo.
Le altre persone, sono l'unica cosa che non so.
È il mio punto debole, cazzo, come ha fatto a trovarlo così in fretta? Che lo cerca a fare, poi, vuole prendermi per il culo, farmi sentire inferiore?
Io...
− Non è divertente. Non so chi cazzo ti abbia detto che è divertente, ma non lo è. –
Spalanca gli occhi.
− Divertente? –
− Non hai niente da guadagnare ad essere mio amico e di certo non sono il tipo che ti fa diventare amico di tutti gli altri. Non so che cazzo tu stia dicendo ma smettila. –
− In che senso? –
C'è qualcosa dentro di me che somiglia a... delusione.
Sono deluso.
Non so che cosa mi avesse fatto sperare e non so in quale frangente, ma era come se ci fosse qualcosa che sarebbe dovuto succedere, quando l'avrei rincontrato.
Invece lui...
− Io non voglio essere tuo amico perché ho qualcosa da guadagnare. È perché sei carino, Bakugō, e so che sembra un motivo di merda ma... non so, vorrei solo sapere come sei, tutto qui. –
Quando lancio lo sguardo sul suo, è rosso in faccia.
Credo di esserlo anche io.
Carino?
Carino in che senso?
Carino nel senso comune, di piacevole, attraente, interessante o carino nel mio senso? Carino nel senso che mi trova gradevole o carino nel senso che gli batte il cuore più forte quando mi guarda?
Carino... carino?
O carino così tanto per?
− Sono intelligente, brillante e migliore. –
− Migliore di chi? –
− Di tutti. –
Ride appena, lo vedo che si sporge dalla mia parte, come se fosse interessato ad avvicinarmisi. Indietreggerei di riflesso, ma siamo ancora abbastanza lontani perché possa concedermi di stare fermo.
Credo.
− Non è vero che non ho amici, non so perché cazzo l'ho detto, prima, ero confuso. Ho qualche amico. Li odio ma loro non riescono ad odiare me. −
Perché l'ho detto?
− Come quello con i capelli biondi alla partita? –
− Lui è il mio migliore amico. Sta col centrale alto della nostra squadra. –
Kirishima sorride e questa volta lo fa in modo meno raggiante, meno disarmante. Sorride con delicatezza, come se stesse cercando la formula corretta per mettermi a mio agio.
− Shinso? –
− Lui. –
Fa "sì" con la testa.
− Cazzo, lui sì che è alto davvero. –
− Ha parlato. –
Ride come se avessi fatto una battuta.
Forse l'ho fatta.
Non lo so.
− Ti hanno messo nella squadra? – mi ritrovo a chiedere, sinceramente curioso riguardo qualcosa che di norma non avrei nemmeno calcolato.
Annuisce.
− Vogliono che prenda il posto del vostro quarterback. Sono bravo, ma avrei bisogno di conoscere gli altri un po' meglio per dirigere il gioco, sai com'è. Sono un po' sotto pressione. –
− Non sarà difficile, sono solo una mandria di cazzoni. –
− Se lo dici tu mi fido. –
Sottile, morbido, soffice.
Ha il tono che sembra melassa, che mi fa sentire... rilassato.
− Poi non è che ci metto la mano sul fuoco, lo sport non è la mia roba. –
− Non ti piace? –
− Mi piace più studiare. –
Alza le sopracciglia, come se avesse capito qualcosa.
− In effetti ci sembri, un tipo intelligente. –
− Il più intelligente del mondo. –
− Non stento a crederci. Se ti fanno insegnare matematica a me o sei un genio o sei la persona più sfortunata del mondo, cazzo. –
Mi ritrovo a... ridere.
Non una risata piena, una risatina.
Pur sempre una risata.
− Fai così schifo? –
− Non te lo puoi nemmeno immaginare. La professoressa a Osaka mi diceva che sono bravo ma non mi applico, ma secondo me è proprio che sono scarso come la fame. –
− Non ti piace? –
Fa spallucce.
− Credo solo di non averla mai capita. –
Quante cose non mi piacciono perché non le capisco, Kirishima, quante. Credo che sia l'essenza della mia vita, dire che odio le cose che mi destabilizzano.
− Ne riparliamo fra due mesi. Farai di conto come un cazzo di banchiere. –
− Tu dici? –
− Considerato che non mi danno i crediti se non la impari, o quello o la morte, scemo. –
Piega la testa di lato, la coda si muove con la gravità. Ha i capelli rasati ai lati della testa, sotto tutta quella matassa scarlatta legata di nuovo alla bell'e'meglio.
Ha una sbarretta che connette la parte alta e quella nel mezzo dell'orecchio, la mascella definita, le spalle larghe.
È carino, cazzo, dal vivo è più carino ancora.
− Sei piuttosto drastico, tu. –
Annuisco.
− Se si parla di studio, sì. –
− Se è la cosa che ti piace fare, mi sembra giusto. –
− Lo è. –
Non ricomincia a parlare subito, appena finisco di dire queste due singole, sole parole. Anzi, rimane in silenzio, cosa che finora non aveva ancora mai fatto di fronte a me.
Mi... mi guarda.
Il suo sguardo mi spiaccica indietro, m'intimidisce, e sento di voler indietreggiare. Sto per farlo, mi guardo indietro per controllare che sia ancora un pezzo di panchina su cui strisciare senza cadere come un cretino, metto la mano sul tavolo per fare leva.
Crede che non lo stia guardando, quando gli lancio un'occhiatina.
Muove le labbra, non usa la voce.
Non dovrei avere la minima idea di quello che sta dicendo.
Ma quella che compone è una delle prime parole che ho imparato a riconoscere, e la so meglio di tutte le altre, quasi.
"Katsuki".
Zero virgola novantotto.
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