Incendio [2019]


Akaashi ha un posto riservato a tutte le partite dei Jackals. Ha libero accesso alla palestra, alla sala pesi, alla sala tattica (che poi è una stanzetta con dieci banchi e un proiettore) e anche agli spogliatoi. È contro le regole, naturalmente, ma la prima e unica volta che all'ingresso lo hanno gentilmente respinto, Bokuto ha inviato lettere di reclamo e accorata implorazione a chiunque: dal presidente della squadra al CEO dello sponsor, dal direttore della JVL fino all'imperatore Naruhito.

L'imperatore, purtroppo, non ha letto la lettera di Bokuto, ma la segreteria della Casa di Yamato l'ha infilata in una cassetta com l'etichetta "Sport - LGBTQ" ed è stata oggetto di una interessante disputa sociologica, davanti al distributore automatico di bevande più lussuoso del paese (che però se usi le monetine non ti dà il resto).

Nel frattempo, Keiji ha fatto amicizia con Mitsubiya-san, una gentilissima signora di mezza età, che oltre a essere la responsabile delle pulizie dello stabile della palestra, vanta un'inconfessabile inclinazione all'universo fujoshi: in cambio di qualche anticipazione editoriale e un paio di tavole autografate, tutte le porte si sono aperte.

Dunque, Akaashi ha libero accesso allo spogliatoio dei Jackals, e per questo Hinata non si stupisce molto di vederlo entrare una sera piovosa di fine agosto, con la sua aria seria, come se pensasse sempre a qualcosa di importante. Piuttosto, trova strano che non sia perfettamente al corrente degli spostamenti di Bokuto.

«Mi spiace, Bo è andato via dieci minuti fa» lo informa gentilmente.

«Lo so, l'ho visto, avevamo appuntamento all'ingresso.»

Shoyou risponde con un'occhiata perplessa e poi mette subito le mani avanti. «Keiji-san, giuro che a casa ho impostato il condizionatore a venticinque gradi. E di notte lo spengo.»

Akaashi sorride sornione: «Pensa che ho incontrato Miya-san di sotto e mi ha detto la stessa identica cosa. Con le stesse parole.»

Shoyou risponde con un ghigno imbarazzato «Allora... come posso esserti utile?»

«In realtà... beh, sono venuto su perché c'è qualcosa che penso dovresti vedere.»

«Qualcosa che dovrei vedere?» ripete Shoyou dubbioso, mentre si infila la maglietta. «E cosa?»

Akaashi apre la porta dello spogliatoio e gli fa cenno di uscire, indicando il finestrone all'altro capo del pianerottolo; sui vetri le gocce di pioggia si inseguono in un labirinto di tracce umide. Giusto davanti all'entrata, sul marciapiede di fronte, qualcuno se ne sta impalato sotto la pioggia, con il cappuccio della felpa calato sulla fronte.

«Credevo che Koutarou fosse l'unico a non aver ancora accettato l'idea che le divise, anche quelle della prima divisione, non sono impermeabili» commenta Akaashi.

La felpa bianca degli Adlers spicca come un faro nel grigiore tutto intorno, ma a Shoyou non serve la felpa, lo riconoscerebbe dalla postura, dalla sagoma, lo riconoscerebbe in mezzo a una folla, da un milione di dettagli che neppure saprebbe elencare. E il fatto che se ne stia lì a inzupparsi sotto la pioggia di Osaka, anziché godersi il bel tempo a Tokyo, è incomprensibile.

«Che ci fa lì quel grandissimo baka?»

«Questo non lo so. Ma è salito sul mio stesso treno, quindi presumo stia prendendo pioggia da almeno venti minuti.»

Le ultime parole rimbalzano contro la schiena di Shoyou, che sta volando giù per le scale.

«Kags? Si può sapere perché te ne stai qui sotto la pioggia?»

«Sono due gocce» borbotta Tobio, mentre dal bordo del cappuccio rivoli d'acqua gli scorrono in faccia e gli finiscono sotto il colletto.

«E tu sei un baka! Ti prendi un colpo così! Nemmeno l'ombrello... »

«A Tokyo era bel tempo.»

«E quindi sei venuto fin qui per bagnarti?»

«Ohi, piantala! Aspettavo che venissi fuori. Ma tu sei lento come una lumaca: gli altri sono già usciti tutti... »

Shoyou realizza di sentirsi strano: sfasato, leggero, elettrico, il che sotto quella pioggia potrebbe non essere un bene. Eppure si sente così, come se lo avessero attaccato a una presa e mille scariche lo attraversassero sottopelle, e gli circolassero addosso, senza scaricare a terra. Forse nemmeno c'è una terra verso cui scaricare, forse non tocca nemmeno terra con i piedi.

Afferra il braccio di Tobio e lo tira verso l'entrata, con una certa violenza.

«Vieni dentro, muoviti. Devi darti almeno un'asciugata»

Tobio oppone resistenza, ma solo per un attimo. Il confronto di forza fisica è un terreno familiare, eppure si rende conto che l'esito questa volta non sarebbe del tutto scontato. Sono finiti i tempi della facile prevaricazione: il grandissimo boke è diventato forte, in tutti i sensi possibili. Tobio si sente diviso fra la nostalgia, il rimpianto e uno stupido orgoglio, come se quella trasformazione in qualche modo fosse tutto merito suo.

Si lascia trascinare nella palazzina e su per le scale.

«Dove andiamo?»

«Negli spogliatoi, così ti asciughi, dove vorresti andare?»

Mentre ascolta la risposta, Tobio si rende conto che in realtà della destinazione non gli importa affatto. Gli viene da sorridere, ma è uno di quei sorrisi interni che non conoscono la strada per arrivare alle labbra.

«Certo che i Jackals sono proprio assurdi» borbotta imbronciato, salendo gli ultimi gradini.

«In che senso?» Shoyou spalanca con il fianco la porta davanti a cui si sono fermati.

«Quanto è stupido avere gli spogliatoi al secondo piano, quando la palestra è di sotto?»

«Di sotto lo spogliatoio è minuscolo, lo usiamo solo per le partite, qui abbiamo gli armadietti grandi e possiamo lasciarci tutta la nostra roba. Hai idea di quello che può esserci nel borsone di Omi? Tipo cinque diversi tipi di shampoo.»

Kageyama inclina la testa, perplesso. «Ha cinque capocce?»

«Una sola bella grossa, ma dentro c'è tutta una teoria sulla prevenzione dell'alopecia giovanile. Ha predetto a Bokuto che finirà calvo prima dei quarant'anni.»

«A me pare che sia pieno di capelli.»

«Un paio di volte se li è lavati con il disinfettante dei piedi.»

Tobio non sta ascoltando. Segue un filo di pensiero tutto suo, che decisamente non passa per la chioma di Bokuto, o le sue discutibili scelte in fatto di prodotti per l'igiene personale. È concentrato, deglutisce, aggrotta le sopracciglia, stringe i pugni.

Shoyou conosce benissimo tutte quelle espressioni.

«Kags, c'è qualcosa che devi dirmi?»

L'assenso di Tobio è uno scatto del mento verso il basso. «Ho sentito che... »

La frase non esce, le parole si spengono in gola, qualcuna arranca fino alla lingua ma non vogliono sapere di uscirne. E lì di fronte boke aspetta, con gli occhi così enormi che sembra abbia in faccia solo quelli.

«Ho sentito che... insomma, che avete rotto. Tu e... Miya.» Gli costa fatica pronunciare il nome, ma lo fa, guardandosi i lacci delle scarpe, che sono arancioni. Da quando boke è volato in Brasile, Kageyama Tobio porta lacci arancioni, mutande arancioni, persino una sciarpa, una volta, ma poi si è specchiato in una vetrina e si è visto veramente troppo baka e quindi non l'ha più messa,ma la tiene nel cassetto e ogni tanto la guarda, perché è proprio la sfumatura di colore giusta: un po' fuoco, un po' sole. «Volevo sapere se è vero.»

«Chi te l'ha detto?»

Tsukishima Kei, che non si faceva sentire da un secolo e invece ha chiamato lui. Ma Tobio non ha intenzione di dirlo, o dovrebbe raccontare per filo e per segno la figura da idiota che gli è toccato di fare in quella telefonata.

«Chissenefrega. È vero o no?»

Shoyou, con la testa infilata dentro l'armadietto, mugola qualcosa di incomprensibile mentre lancia all'indietro un asciugamano pulito, che atterra sulla testa di Kageyama, e gli ricade in faccia.

«Hinata Boke!» grugnisce Kags indispettito.

E Shoyou ride.

Ride e quel suono fa tremare il tempo e lo spazio, si espande, si amplifica, entra in risonanza con la carne e il sangue di Kageyama Tobio, con i pensieri, con i ricordi e con i rimpianti. Una lunghissima crepa gli attraversa il cuore da parte a parte, gli allaga gli occhi, gli offusca la ragione, a difenderlo dal mondo restano pochi millimetri di spugna bianca e soffice davanti agli occhi.

«Ohi, Kags? Tutto bene?»

Una mano grande gli arruffa i capelli da sopra all'asciugamano. «Dai, baka, asciugati!»

«Levati!» Tobio tira su col naso, e lancia una manata alla cieca verso l'alto, prima di iniziare a strofinarsi la testa con energia, serrando gli occhi, per tornare dentro se stesso.

Sente Shoyou sedersi sulla panca, lì di fianco a lui, a una distanza che è allo stesso tempo troppa e troppo poca.

«È vero, comunque. Di me e di Miya.» ammette Shoyou. Il breve sospiro non si capisce se sia di delusione, o di rimpianto o di chissà cos'altro.

«Perché?»

«Perché cosa?»

«Perché è finita.»

Shoyou abbassa le spalle e lo sguardo, colpisce ritmicamente col tallone la zampa di metallo della panca «Perché finiscono queste cose? Non lo so. Non ci dev'essere per forza un motivo preciso. Non ha funzionato, punto e basta.»

«Perché?» Tobio scandisce di nuovo la domanda, togliendosi di dosso l'asciugamano con un gesto secco: in un momento del genere, Shoyou vuole guardarlo in faccia. Dopotutto, ha scoperto che quel grandissimo boke ha imparato a mentire, che è capace di calpestare la fiducia, di spezzare le promesse, di rimangiarsi la parola data. La sabbia di Rio se la sente ancora urticare fra le dita dei piedi, dentro le scarpe, sotto i calzini.

Shoyou dapprima non risponde. Si gratta la testa, si strofina la fronte, si alza e si mette a fissare la porta del suo armadietto, come se ci fosse qualcosa da vedere, a parte il suo nome scritto sopra e le solite foto appiccicate di traverso con lo scotch.

«Che importa perché? Che differenza fa?»

Tobio non lo sa.

Scopre in quel momento di non saperlo, che differenza faccia, o perché sia tanto importante da farlo salire su un treno all'improvviso.

Shoyou si volta di scatto, la mascella contratta, lo sguardo cupo. «Sei venuto fin qui per questo? Per beccarti una polmonite e farti i cazzi miei come i tifosi, che qualsiasi cosa fai devono per forza dire la loro?»

«Che vuoi che me ne freghi dei tifosi? La maggior parte sono matti: i miei sono convinti che sia sul punto di sposarmi una specie di ballerina.»

«Le ho viste le foto, erano un po' dappertutto online. Lei è bella. Uscite insieme da tanto?»

Gli occhi di Kags si allargano di collera e di tristezza. «Sul serio? Mi stai chiedendo se sto uscendo con una tizia di cui non ricordo il nome?»

«Ma che vuoi che ne sappia io, Kags! Non ci parliamo da un secolo. Abbiamo giocato un paio di volte, ci siamo stretti la mano da sotto la rete, ci siamo detti banalità, anzi le ho dette io perché tu non hai aperto bocca. Ho visto un sacco di foto sui social, ho pensato potesse esserci qualcosa di vero.»

«C'è di vero che a lei piacciono le donne e il suo ufficio PR voleva che si facesse vedere in giro con un...»

«...gran figo?»

A Tobio scappa un sorrisetto compiaciuto, di cui neppure si rende conto. «Un atleta, uno sportivo, uno fuori dal mondo dello spettacolo, che tenesse le mani a posto e che non desse problemi. Per i nostri PR è stato come vincere alla lotteria. Fra Kourai-san che si porta a letto una minorenne dopo l'altra e Waka che se ne va in Europa a cercare se stesso...»

«In Polonia, vero?»

«Come lo sai?»

«Indovina... » Shoyou si china con il busto verso di lui e sorride in un modo che a Kageyama non piace per niente. O forse gli piace così tanto che il turbamento diventa irritazione.

«Oikawa?»

«Claro! Mi sa che "cercare se stesso" nel caso di Ushiwaka significa più che altro ridurre di diciotto ore il volo per Buenos Aires.»

Come possa Oikawa Tooru, con le sue mille visibili debolezze, avere la forza di sradicare dal paese uno come Wakatoshi e trascinarlo per il mondo, è un mistero.

«Ci sei andato a letto?»

«Con Ushiwaka? Oddio no! Per carità!» Hinata ride, buttando un po' indietro la testa.

Tobio non ride. «Con Oikawa.»

Anche la risata di Shoyou si spegne, e si trasforma in uno sguardo limpido, diretto, talmente adulto e consapevole che Tobio, per contrasto, ripiomba nella confusione e nello smarrimento dell'adolescenza, a farsela sotto appena il grande re metteva piede in campo.

«Sì. Tre anni fa, un paio di volte. E sono stato bene. Ma penso che tu lo sapessi già.»

È vero, lo sapeva. E l'idea delle mani di Oikawa sul corpo di Shoyou, oltre a fare un male cane, ha sempre avuto qualcosa di proibito che è insieme sporco e stranamente eccitante; colmo di disgusto, di angoscia e anche di un tipo di desiderio che ha poco a che fare con i sentimenti e molto con la rivalsa e il possesso. Kageyama ultimamente sta provando ad ascoltarsi, ma le frequenze del suo cuore e della sua testa sono troppe e troppo confuse e va a finire che non riesce mai a capirsi.

Si preme la mano fra la fronte e gli occhi, cercando nel buio un sollievo che non esiste. Fanculo, è la luce che gli manca.

«Kags?»

«Sì. Di che stavamo parlando?»

«Ushiwaka e Oikawa?»

«Prima.»

«La ballerina... »

«Ah già. I casini degli Adlers e i PR del cavolo...»

«Non ho capito come hanno fatto a convincerti, i PR del cavolo. Non sarà mica vero che sei un bravo bambino?» ghigna spietato. Gli sorridono gli occhi, la fronte, gli zigomi e, avvolte in quella luce che deborda, persino le parole di Miya perdono il loro potere, suonano stupide, infantili, svuotate.

Ma il grandissimo boke si merita comunque una scudisciata con l'asciugamano sulle cosce. «Altro che bravo bambino! Guarda che io ho detto di no! Un sacco di volte! Ma indovina? A nessuno gliene è fregato niente.»

«Però la giostrina con i cavalli e le lucine era molto romantica... » anche nella voce abita l'eco di quel sorriso, Tobio ne sente il calore dentro le ossa.

«Volevano che fosse una ruota panoramica ma... le foto facevano schifo, sembrava stessi per vomitare, e in effetti... »

«Vertigini?»

«Come sempre. Peggio che mai le montagne russe. Rimanevano gli stupidi cavalli.»

«E la mela candita era buona?»

«Sapeva di carie e problemi digestivi.»

Shoyou ridacchia. «Una volta ti piaceva, ai matsuri la prendevi sempre.»

Solo perché a te piaceva mangiare la mia. A Tobio torna in mente il sapore di un momento preciso, un bacio, uno dei primi, che sapeva di mela zuccherata, d'estate e di segreti, incastonato nel buio, fra i lampi di luce dorati dei fuochi d'artificio, praticamente sotto gli occhi di tutti. Lo rivive, come se fosse passato meno di un attimo.

E' fatto così Kageyama Tobio: il poco che riesce ad arrivare al suo cuore rimane intrappolato lì, intatto, colorato e vivido, come certe stampe sui kimono antichi, che se ne fregano dei decenni, e anche dei secoli.

«Le cose cambiano» mente.

«Ma tu sei sempre il baka che se la fa sotto alle giostre.»

«Dimmelo per favore: è stato Miya a mollarti?»

Shoyou scuote il capo «È solo finita. Non funzionava.»

«E... ci stai male?»

«Non lo so. Credo di no. Che c'è, sei venuto per consolarmi?»

«Sono venuto a dirti che forse non è vero che mi sta bene così.»

«Cosa?»

«La mia vita,com'è adesso.»

Shoyou si sente lo stomaco compresso, a quanto pare c'è ancora un vecchio nido di farfalle là dentro. «Kags, per favore, frena. Di che cavolo stiamo parlando?»

«Di quello che mi hai chiesto.»

«Io? Ma quando?»

«Quel giorno che sei venuto a Tokyo.»

«Un anno fa?»

«Boh. Sì. Che importa quando?»

«Alla gente normale importa se una cosa è successa ieri o dieci mesi fa.»

«Tu mica sei normale.»

«E ci sei venuto adesso, a dirmelo?»

«Mn.»

«Perché?»

Tobio si alza, si toglie la felpa, riprende l'asciugamano e se lo passa sulle braccia con gesti carichi di stizza. «Lo sai? Una volta non facevi mai finta di non capire le cose. Non le capivi sul serio. E forse era meglio.»

Shoyou vorrebbe sorridere, ma non ci riesce. Non ne va fiero, ma è la verità che fra le cose che ha imparato negli ultimi anni ci sono anche la simulazione e l'ipocrisia, più un tipo di egoismo che serve a fare da schermo ai sentimenti, per non essere un bersaglio troppo facile. Con Tobio, però, non funziona; usata contro di lui, qualsiasi arma è a doppio filo e si finisce col sanguinare sempre in due.

Sprofondano in un silenzio rarefatto, che fa sembrare don di taiko gli scatti sommessi dei secondi sull'orologio a muro; ognuno rimbalza sulle quattro pareti, contro i mobili e poi dentro di loro: un secondo in più che è passato, uno in meno che resta.

Mentre chiude l'armadietto, Shoyou si sente addosso gli occhi indagatori di Kags: lo sguardo da alzatore, che scruta, che valuta, che giudica, che cerca risposte e anche che pretende sempre qualcosa.

Alla fine si volta e quello sguardo gli si appoggia con cautela negli occhi.

«Senti, bokè, come va la caviglia?»

La tensione si abbassa di colpo. «Di che parli?»

«Mi prendi per il culo? Sabato, contro quei fanatici degli elephants, al terzo set, prima del matchpoint, sei atterrato da schifo, ti ho visto benissimo.»

«Mi hanno inquadrato mezzo secondo. E lì per lì neanche faceva male.»

«Si vedeva, punto. Io ti conosco. Come va?»

Io ti conosco.

«L'eco dei legamenti per fortuna era okay, ma si è un po' infiammata, quindi devo andarci piano per un paio di settimane.»

«Ce le hai sempre avute mosce le caviglie, stacci attento. Comunque, è colpa di quell'incapace di Miya: l'alzata era corta.»

«Ohi, baka, non parlare male del mio alzatore.»

«Non ci stai mica insieme. E poi non è il tuo alzatore.»

«Ah no?»

Kageyama solleva un angolo delle labbra e tira fuori quel sorriso inquietante ma comico che sa fare solo lui. «È la mia riserva.»

Scoppiano a ridere nello stesso momento.

E Shoyou scopre di non averlo dimenticato, quel suono stupido, contagioso e bellissimo, delle loro risate impastate insieme. Pensava di sì e invece era lì, appollaiato sulla superficie dei ricordi: il timbro si è fatto un po' più scuro, ma la stupidità non è diminuita. E nemmeno la bellezza.

Tsumu se la sarebbe presa a morte per quella battuta, forse sarebbe scattata la rissa. O forse no, perché anche lui è cresciuto parecchio: è una bella persona, Miya Atsumu, e chiunque riesca ad avvicinarglisi abbastanza lo capisce.

Eppure, ripensando ai mesi in cui con Tsumu hanno condiviso tutto, - dalla maglia, al cuore, al letto - a Shoyou sembra di non riuscire a ricordare di preciso com'era stargli così tanto vicino, sentirlo dentro il suo corpo; se gli si gonfiava il cuore veramente, se batteva così forte, se si sentiva mai elettrico, come continua a sentirsi adesso.

Si sentiva diverso. Da cosa? Da se stesso, dalla versione originale di sé. Gli sembrava di essere migliore, qualche volta, più spavaldo, più maturo, più indipendente.

Si sentiva anche perennemente carico, acceso, vivo, ma sempre un po' fuori fuoco, sempre su una frequenza leggermente sbagliata, distorta, una specie di copia di se stesso quasi perfetta. Quasi.

Nel desiderio latente che prova adesso, di buttarsi un'altra volta a capofitto nell'universo Kageyama, Shoyou vede il pericolo enorme di regredire a una versione di sé precedente, di sgretolarsi, di restare di nuovo schiacciato dal peso enorme di quel talento, di perdersi nelle sue ombre, di riempirsi di lividi sbattendo contro gli spigoli del suo carattere.

«Kags devo dirti anch'io una cosa.»

Tobio alza gli occhi, ha ripescato nella memoria la vibrazione di quel tono e tutti i suoi allarmi gridano un pericolo imprevisto e imminente.

«Sto pensando di tornare in Brasile.»

«A fare che?»

«A giocare, baka! A fare che? Mi è arrivata una buona offerta...»

Lo stomaco di Kageyama si contorce, la vertigine supera cento volte quella delle montagne russe, sente la neve di polistirolo appiccicarsi ai vestiti e intorno non c'è lo spogliatoio nero e dorato dei Jackals, ma la polvere e l'odore di muffa del magazzino della palestra del Karasuno, mentre la storia si ripete. E il Kageyama di oggi ha in mano ancora meno di quello di allora, nessuna pretesa da accampare, nessun diritto di intromettersi.

Crolla di nuovo seduto. E ha una voglia matta di picchiarlo, proprio come da ragazzini.

«Vuoi tornare al beach?»

«Ma va! Kags, non dire scemenze! Il beach per me era solo un modo per... ti ricordi? Fare il giro e arrivarti da davanti... »

«Ci sei arrivato, mi pare...»

«Non ancora.» Il tono è determinato e contraddice lo sguardo sfuggente; si appoggia con un ginocchio alla panca e controlla i lacci di una scarpa già perfettamente annodata.

«Che vuoi dire, boke?»

Shoyou solleva gli occhi e sono così liquidi e ardenti che sembra che una bordata di lava stia per colargli giù dalle guance. «Lo sai che voglio dire: la nazionale, no?»

Kageyama non ha mai smesso di pensarci: a quegli occhi, alla nazionale, a loro due insieme sul tetto del mondo. Una volta era il pensiero che lo tirava in piedi la mattina, quello con cui si addormentava la notte. Ora la sola idea di trovarsi di nuovo dalla stessa parte della rete e dover fare i conti con tutto quello che non c'è più fra loro, che si è spento, che è affondato in un oceano a caso fra quelli che separano il Giappone dal Brasile, lo terrorizza. E lo fa soffrire anche l'idea di quel grandissimo boke di nuovo laggiù, dall'altra parte del pianeta, sempre troppo lontano dagli occhi e mai abbastanza dal cuore.

Non ce la fa proprio a guardarlo in faccia, e, stornando lo sguardo, inciampa nelle fotografie attaccate con lo scotch, per traverso, sull'anta del suo armadietto.

Sono tre. In quella al centro c'è Natsu con la divisa del Niiyama, immortalata dalle prime gradinate degli spalti, mentre tende con le mani la maglia, per mettere in mostra il numero 10, ed esplode dritto nell'obiettivo il sorriso megatonico da milioni di watt che è il marchio di famiglia.

In basso c'è quella foto di scuola dell'ultimo anno, dove sono tutti insieme, con Yamaguchi, Tsukishima e Yachi-chan e loro portano i numeri 2 e 5, che non gli sono mai piaciuti. Avevano litigato, cinque minuti prima di quello scatto, ma Tobio non ricorda più perché.

E in alto c'è una foto più piccola, un po' sfocata. E' un selfie dalla curva alta di uno stadio, con Shoyou vicino a due bambini brasiliani che fanno il segno di vittoria con le dita, il tipico scatto fortuito insieme ai tifosi, il che rende un po' strano che quella foto sia lì, piazzata in bella vista sull'armadietto di Hinata senshu.

Poi ci arriva. In un attimo. Riconosce il soggetto, il luogo, il contesto, e quella rivelazione gli esplode addosso, demolisce e ricostruisce all'istante tutto un complicato sistema di convinzioni, risentimenti e paure, sposta un equilibrio, fa la differenza.

Tobio si alza di scatto e raggiunge l'armadietto, incolla la faccia a quella foto. E sorride.

Sorride.

E un attimo dopo sta baciando Shoyou con foga, come sogna di fare quasi tutte le notti, da tre anni a questa parte, con le dita infilate nelle onde di fuoco dei capelli e gli occhi chiusi, per non accecarsi troppo.

Scopre con indicibile sollievo che il sapore di Miya non si sente, né si sente quello di Oikawa, né di nessuno di quei fantasmi concupiscenti senza volto, che, nei suoi incubi, spuntano dalla spiaggia come zombie. Non si sente nessun sapore, se non quello di Shoyou, un po' più forte, un po' più virile, ma infinitamente riconoscibile.

E lo bacia così, con una fame insaziata di pelle, di sole e di respiri. Lo bacia per ritrovarlo e anche per cercare se stesso, perché continua ad avere la sensazione di essersi smarrito in Brasile, in un labirinto di parole troppo difficili e sabbia troppo scura.

Quello che l'oceano prende, prima o poi lo restituisce. Kageyama Tobio si trova sbattuto a riva, dopo anni di onde enormi e abissi profondi, di buio e di venti di tempesta. Come un relitto su una spiaggia: deformato, limato, smussato, ma restituito alla terraferma.

«Kags?»

«Zitto, bokè» borbotta, perso fra un bacio e l'altro, stordito dal sapore di zucchero, che adesso ha una nota alcolica intensa e definita. Per la prima volta nella sua vita, a Kageyama Tobio viene voglia di sbronzarsi e ballare sopra a un tavolo. Ma non sa ballare e non sa come impedire che questo momento finisca, e allora inizia a stringere Shoyou troppo forte, a strattornarlo, a morderlo invece di baciarlo.

«Kags, che ti prende?»

«Ho detto: zitto, bokè.»

Ma Hinata non è più un ragazzino soggiogato dal suo idolo; lo spinge via con due mani forti contro le spalle e un respiro sonoro.

«Ehi! Che ti prende?»

Tobio risponde con un sospiro lunghissimo, di sollievo e di liberazione. «Tu c'eri» mormora. E indica la foto del Maracanã, con le minuscole sagome rosse dei giocatori del Giappone in campo: i quarti di finale delle Olimpiadi, quelli che hanno perso, perché il pinch server della nazionale, di diciott'anni appena, non era abbastanza concentrato per infilare la solita serie di ace.

Shoyou non ha bisogno di guardarla, la foto. «Che baka che sei! Pensavi davvero che potessi non venirci?»

«Ma avevi detto... »

«E tu credi a tutto quello che dico? Mi è toccato mangiare solo miojo per due mesi per comprarmi quel biglietto.» Shoyo ora ride, ripensandoci. E un po' gli fa tristezza ammettere che, come al solito, ha ragione Oikawa-senpai, quando dice che la memoria è una puttana innamorata del tempo, e se c'è qualcuno di cui non ci si può fidare sono le puttane innamorate.

«Hinata bokè! Te l'avevo messo da parte, il biglietto. In tribuna.»

«Lo so. Non l'hai guardato quel video che ti avevo fatto prima di tornare, vero?»

Tobio grugnisce qualche sillaba e scuote il capo.

«Ma quanto sei baka? Era importante, Kags. Ti raccontavo come mi sentivo, cosa provavo. È stato difficile, mi sono sentito un idiota a dire quelle cose. Ma era importante. E tu nemmeno lo guardi... »

«Non ce la facevo.»

«Perché?»

«Avevo troppa paura.»

«Di cosa?»

«Che ci fosse dentro roba che mi avrebbe fatto secco. Tipo che non tornavi più. Che stavi con qualcuno. Che mollavi la pallavolo... » Kageyama sta menzionando i suoi peggiori incubi, in ordine crescente di terrore.

«Sei un cagasotto.»

«Che mi dicevi nel video?»

«Non lo saprai mai visto che Sei.Un.Ca-ga-sot-to» sillaba impietoso, schivando una manata non troppo convinta. Risponde con un calcio contro la scarpa.

«Baka! Faceva un male boia stare lì a guardarti giocare alle Olimpiadi. Mi tremavano le gambe dalla voglia che avevo di scendere in campo. E mi girava la testa da quanto eravamo lontani. Te ne rendi conto? Io in cima agli spalti e tu sotto rete. Io che non contavo niente e tu con la maglia della nazionale. Altro che vertigini. Avevo voglia di spaccare sia la tua faccia che la mia o di buttarmi di sotto. Non potevo non venirci alla partita, ma non è stato un bel momento, figurati se mi andava di stare in tribuna!»

A Kageyama non interessa. Non interessa quel tipo di sofferenza e non la comprende neanche, perché è forse l'unico al mondo che la crescita di Hinata come giocatore e il fiorire del suo talento, li ha sempre dati per scontati: un processo necessario, inevitabile, una questione di tempo, una seccatura (che si poteva evitare se da piccolo fosse stato meno boke, se avesse avuto almeno un nonno come si deve, se soltanto si fossero incontrati prima... ).

«Non riesci a capirlo, vero Kags?»

«No» ammette. «Ma se ci sei stato male mi dispiace. Davvero.»

Quello che interessa a Kageyama è riprendersi Shoyou, partendo dall'interno del palato, dalla saliva, dalla lingua, dai battiti del cuore. Riprendersi i colori del mondo, tutta la luce del giorno, spalancare i polmoni e respirare forte.

Gli bacia la fronte, le tempie, lo tocca dappertutto col cuore proiettato sulle dita, finché Shoyou non lo blocca un'altra volta, in una presa d'acciaio ai polsi.

«Kags! Frena. Chiariamo una cosa: non può essere tutto come prima. È impossibile, okay?»

Tobio sospira, smette di opporre resistenza.

«Che significa?»

Shoyou ha immaginato quella scena in un milione varianti e ha risposto alla stessa (prevedibilissima) domanda all'infinito. Eppure in quel momento, non gli viene in mente nessuna di quelle brillanti risposte.

Approfittando del silenzio, le mani di Kageyama tornano a vagargli sul viso e fra i capelli e nel giro di un secondo Shoyou sente la lucidità sciogliersi e i pensieri intorbidirsi.

«No, Kags. Aspetta. Dobbiamo ancora finire questo discoso.»

Gli occhi di Hinata brillano come fari, e Tobio è il gatto che si lascia ipnotizzare e poi finisce spiaccicato sotto le ruote dell'auto lanciata in corsa. Perché Shoyou è sempre lanciato in corsa, anche quando pensa di no, anche quando è convinto di rallentare, di riflettere,invece sta sfrecciando in avanti come un treno proiettile.

Tobio capisce in quel momento che deve afferrarlo: adesso, subito. O tutto cambierà di nuovo e lui perderà quest'occasione e chissà fra quanti anni, o secoli, gliene ricapiterà un'altra. Allunga le mani e gli artiglia la felpa, la stringe forte e la tira, come fosse un litigio.

«Va bene. Finiamo il discorso. Ma ricordati che a parole facciamo sempre schifo, tutti e due.»

«Proviamoci lo stesso. Io sono diverso da prima. Okay? Questa cosa tu la devi affrontare. Devi capire se ti va bene.»

«Sei sempre nano. E cretino. E mi è sempre andato bene.»

Shoyou gli tira una finta ginocchiata. «E tu sempre baka. Mi stai ascoltando?»

«Ti ascolto. Ma non so se ho capito. Stai dicendo che ti sei fatto mezzo Brasile? Che quando torni là vuoi farti l'altra metà?»

Non si può dire che Kageyama non sia uno a cui piacciano i giri di parole. Ma quello che colpisce è lo sguardo cupo, il tono serio della domanda. Stringe di più la presa sulla stoffa. «Perché se è così, forse mi va bene lo stesso» prosegue, con amarezza, ma senza esitazioni. «Cioè, no, non mi va bene proprio per niente. Ma il punto non è il tuo culo. O forse un po' anche quello. Ma insomma, non è la cosa più importante... »

«Kags, non stiamo affatto parlando del mio culo.»

«Davvero?» domanda speranzoso.

«Baka! Non so perché finisci sempre lì. Quello che dico è che questa volta dovremmo prenderla con calma. Capirci qualcosa. Costruire qualcosa. Non andare a caso come quando eravamo due mocciosi.»

«Okay» acconsente Tobio, mentre gli infila di nuovo una mano sotto la maglietta, ottenendo un promettente ansito di sorpresa.

«Sto dicendo che dovremmo prenderci il tempo di reimparare chi siamo. Conoscerci di nuovo, da zero.»

«Va bene» Gli bacia una tempia e poi gli annusa il collo, con un'aspirazione profonda e sonora.

«Ohi! Di nuovo non mi stai ascoltando.»

«Sì invece» sussurra, mentre gli bacia il lobo dell'orecchio. «È che per me noi ci conosciamo benissimo, da un sacco di tempo.»

«Sono serio, Kags, così non va. Non voglio che ci lasciamo prendere la mano e roviniamo tutto un'altra volta. Per me questa non può essere una scopata occasionale in onore dei vecchi tempi, e neanche posso tornare indietro nel tempo per farti contento. Non voglio.»

Tobio si blocca, si scosta per prendere la distanza minima che gli serve a guardarlo negli occhi. La parola scopata è talmente inadatta che faticherebbe a trovarne una peggiore. E l'aggettivo occasionale brucia come un'infiltrazione di cortisone.

«Boke, visto che alla fine si torna sempre ai culi - e ti faccio notare che sei tu che vai a parare lì - , lo vuoi sapere con quanta gente ho scopato finora? Una sola persona.»

Shoyou vorrebbe dire qualcosa, ma Kageyama gli piazza una mano sulla bocca, per farlo tacere.

«Con quanta gente voglio scopare? Sempre una persona. La stessa. Io cosa voglio lo so. Quindi la questione è una sola: cosa vuoi tu. Da me.»

Ancora una.

Ancora mille. Ancora.

«Non lo so, Kags. Non ce l'ho una risposta decente, non così, su due piedi, mentre mi infili la lingua in bocca... »

«Lo vedi che ti conosco? Quando mai sai qualcosa... »

Tobio gli accarezza il collo con i polpastrelli, come un oggetto prezioso, che potrebbe rompersi; come faceva tanti anni fa, quando un po' si vergognava e un po' aveva paura di qualsiasi cosa ci fosse fra loro.

«Kags, siamo concreti, per favore: voglio che la smetti di pensare a prima e cerchi di concentrarti su adesso, sul mondo reale. Quello in cui siamo adulti. In cui le cose cambiano e bisogna fare delle scelte, prendersi delle responsabilità.»

«Le cose importanti non cambiano.»

«Io torno in Brasile. L'hai capito o no? Significa avere una storia, o quello che è, vivendo in due continenti diversi. Vedendosi poco. Con il fuso orario, gli allenamenti, i PR, gli sponsor, un sacco di casini. Ci sta bene? Ti sta bene?»

«No che non mi sta bene! Ma mi sta ancora meno bene senza di te. Va tutto, tutto, di merda senza di te, boke.»

Finalmente l'ha detto. A modo suo, ma ha dato voce al buio, alla solitudine, alla continua, insostenibile incompletezza dell'anima. Tobio si sente sgravare le spalle da un peso enorme e nello stesso momento il sangue di Shoyou inizia a bruciare, palpitando furioso alle tempie, nei polsi, sulla nuca.

«Ci vogliono delle regole, Kags. In una relazione a distanza di mezzo mondo, se vogliamo che abbia un senso, e provare a farla durare, dobbiamo per forza metterci almeno qualche paletto. Okay?»

La risposta è un'alzata di occhi al cielo. «A me pare che stai sparando scemenze come sempre, ma se proprio ci tieni, mettiamoci queste regole.»

«Quali?»

«Scegli tu. Tanto non cambia niente.»

«Invece sì! Kags, ed è quello che sto cercando di... »

Tobio lo bacia per farlo tacere, e gli parla all'orecchio, e per farlo deve chinarsi un po' in giù, proprio come una volta. «Vuoi che ti dimostri che le regole non contano un bel niente? Allora Boke, stai zitto e stammi a sentire: metti che domani la federazione cambi quelle della pallavolo... »

«Che c'entra?»

«Fai finta. Tipo che da domani si gioca in cinque. Che il campo è lungo ventidue metri. Che alzano la rete trenta centimetri. Che la palla è di marmo....»

Il respiro di Shoyou si spezza, solleva lo sguardo e incontra gli stessi occhi di tanti anni fa, che appena li guardava gli sudavano i palmi delle mani, e il cielo sembrava all'improvviso molto più blu, la palla più rotonda, tutte le cose più definite e più giuste.

«Non è che io smetto di alzare per te se la palla è di marmo. Non è che smetti di amare la pallavolo se la rete è più alta.»

«Forse non smetto di amarla» Shoyou deglutisce, non sa più bene di cosa sta parlando. «Ma magari se cambiano le regole non voglio più giocarci...»

Tobio appoggia la fronte su quella di Shoyou, che è liscia e fresca e si sente benissimo che sotto c'è una testa dura di prima categoria.

«Okay, boke. Ora guardami negli occhi e dimmi: non voglio più giocare a pallavolo perché la rete è troppo alta e la palla è di marmo.»

Shoyou lo guarda negli occhi. Poi batte le palpebre. Una volta. Due volte.

Vorrebbe raccogliere la sfida, e dirlo, ma non è proprio possibile.

Non è possibile tirarsi indietro, perché lui quella palla di marmo la schiaccerebbe, rompendosi il braccio tutte le volte, pur di restare in campo.

E gli appare questa verità sconcertante, e clamorosamente evidente: che esiste, e al contempo non esiste, un luogo, un tempo, una dimensione soltanto loro, in cui nessun altro mai potrà entrare, delimitata dal cortile di scuola, dai lampioni gialli del campetto, dalla porta del magazzino, dai passi scanditi della corsa, dal rumore della catena della bici e quello delle gocce di pioggia che battono sulle vetrate della palestra. Alta quanto i soffitti della Kamei Arena, tiepida come la lana sulla pelle quando fuori nevica, immensa come il cielo di Rio e minuscola, come un portachiavi di metallo. Un mondo che sta tutto dentro le contraddizioni di quella foto al Maracanã, un posto dove non puoi non essere, anche quando non vorresti.

È chiaro di chi è la colpa di tutto quel casino. Scappare è inutile, ma può sempre insultarlo. «Baka!» esclama Shoyou. E poi lo bacia.

E ci si mette d'impegno per farglielo capire bene, che qualcosa è cambiato davvero. Che non può essere un gioco, stavolta. E che è diventato molto più bravo in tante cose, anche fuori dal campo.

Si ritrovano contro il muro, continuando a cercare la forma di quelli che erano in quelli che sono adesso, e l'idea, l'intenzione di quelli che saranno. Shoyou ha la schiena premuta contro la parete, la gola esposta, un polso inchiodato da una presa che una volta era troppo forte per ribellarsi e ora, semplicemente, non ha nessuna voglia di ribellarsi. Da ragazzino, si vergognava di emettere qualsiasi suono, ma il suo pudore è affogato in un bicchiere di caipirinha da qualche parte a Copacabana, e quindi si fa sentire forte e chiaro, e ottiene un'immediata, completa, pericolosa perdita di controllo da parte di Kageyama; esattamente la reazione che voleva.

Non esattamente.

Alla terza spinta forte e quasi involontaria del bacino di Tobio, si sente il rumore secco di qualcosa di rigido che si spacca e, mentre il gomito di Shoyou si ritrova dolorosamente infilato in due centimetri di plastica, un suono assordante esplode nelle orecchie di entrambi.

Un secondo dopo, una bufera di schiuma li investe. Grandi fiocchi spumosi che cadono dal soffitto e fanno il loro sporco lavoro: spegnere quello che è, con tutta evidenza, l'inizio di un incendio.

L'allarme spacca i timpani, le luci di emergenza lampeggiano senza pietà e loro riprendono a baciarsi sotto la neve, tanto non c'è molto altro da fare.

I guai arriveranno dopo, sotto forma di auto dei pompieri, responsabili della sicurezza, giornalisti appollaiati fuori come avvoltoi, assicuratori con la faccia da faina, lettere di scuse a mezzo mondo, dettagli imbarazzanti da fornire in merito alla presenza di sconosciuti non identificati (perché la felpa degli Adlers non parlava abbastanza chiaro) negli spazi riservati dell'edificio.

Qualcuno spiegherà a Hinata-senshu che per uscire passabilmente puliti da quell'incresciosa situazione, la cosa migliore è essere tutti concordi sul fatto che l'incendio c'è stato.

Dunque l'incendio c'è stato.

E quindi la terra è tornata fertile e scura, pronta a far nascere, dai vecchi rami, frutti nuovi.

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