Capitolo L: Il castello sull'isola
Capitolo L: Il castello sull'isola
Aryon Morvacor camminava per la strada affollata senza vedere realmente dove stava andando.
Quel giorno erano ventotto anni. Tanti ne erano trascorsi, da quel maledetto giorno in cui Nerwen e Pallando erano spariti nella grotta, risucchiati da una spaccatura nella parete poi svanita senza lasciar traccia. Molte cose erano cambiate, in quel luogo, nei quasi tre decenni passati.
Il villaggio, nato dall'accampamento militare che si era stabilito lì dopo la sparizione del re e della Istar, era cresciuto fino a raggiungere, ora come ora, i settecento abitanti; lo avevano chiamato Tarsad, che significava attesa, un nome appropriato.
Nell'area un tempo spopolata erano sorti diversi centri, alcuni su quelli vecchi, abbandonati secoli prima, altri in luoghi differenti; ma Tarsad era il più grande. La creazione di quell'agglomerato era stata imprevista ed a volte Aryon avrebbe preferito la solitudine, ma doveva ammettere che, invece, la gran parte delle volte era un bene aver compagnia.
Spesso, gli abitanti di Tarsad si rivolgevano al principe per aver un parere; c'era un Borgomastro e un Consiglio di sei persone che lo assisteva, che venivano eletti ogni cinque anni, ma istintivamente facevano riferimento a lui e alla sua vastissima esperienza di vita. Più volte gli era stato offerto di diventare lui stesso il Borgomastro, con la prospettiva di essere rieletto in continuazione, ma lui aveva sempre rifiutato; tuttavia, se avessero chiesto a qualunque abitante di Tarsad chi era il loro capo, avrebbero fatto il suo nome, piuttosto che quello del Borgomastro.
Dopo un po', si era sentita la necessità di istituire un piccolo corpo di guardie per il mantenimento dell'ordine; gli Yòrvar erano in genere persone tranquille, ma ogni tanto c'era qualcuno che si ubriacava e si metteva a far schiamazzi, o provocava una rissa, o si verificavano piccoli furti o litigi tra vicini; data la sua competenza con le armi, avevano chiesto ad Aryon di addestrare tali guardie e di diventarne il comandante; poiché doveva pur trovare il modo di sostentarsi, poiché prima o poi avrebbe esaurito la sua riserva di denaro, il principe aveva accettato. Così, sebbene in forma molto più ridotta, si era ritrovato ad aver funzioni assai simili a quelle che ricopriva un tempo, quando era la Prima Spada dell'Alta Sovrana delle Sei Tribù degli Avari.
Quindici anni dopo la scomparsa di Nerwen e Pallando, Allakos era morto di vecchiaia; Aryon lo aveva lasciato accoppiare più volte e della sua discendenza aveva tenuto un puledro, Riltur, ora adulto e assai simile al genitore, nero lucido come lui anche se le zampe anteriori erano decorate con una sorta di calzetta bianca.
Sei anni dopo era morto anche Thalion, il fedele cavallo da soma. Ora rimaneva soltanto Thilgiloth, la splendida giumenta di Nerwen, che non pareva invecchiare, ciò che aveva rafforzato in Aryon la certezza che fosse ben più di una cavalla, per quanto della semimitica razza dei mearas. Rifiutava qualsiasi cavaliere, perfino lui, anche se lo accompagnava spontaneamente quasi sempre, quando faceva una cavalcata nei dintorni per tenere in esercizio Allakos prima e Riltur ora.
Derva era ormai una donna anziana di oltre sessant'anni; era rimasta a Tarsad in attesa del ritorno del suo re e della moglie di Aryon scomparsa con lui, ma aveva quasi esaurito la speranza di rivederli prima della propria morte. Almeno, attraverso Aryon e il suo contatto intermittente con Nerwen in quella strana Terra del Sogno, sapeva che erano vivi e che stavano bene, e ciò le era di conforto, o almeno così il principe riteneva.
Aryon giunse a casa. Inizialmente, era stata una semplice capanna di tavole di legno inchiodate, poi col crescere del villaggio era stata sostituita da una vera casa di mattoni intonacati, come si usava nello Yòrvarem. Era abbastanza spaziosa, visto che ci abitava da solo, con una cucina, un soggiorno, un salotto, un bagno e una camera da letto. Era arredata in maniera confortevole ma molto semplice; gli unici lussi erano i molti libri che aveva collezionato e il liuto, uno strumento che suonava fin da quand'era giovane. L'aveva lasciato a Bârlyth quando se n'era andato per cercare Nerwen e poi durante i loro viaggi non aveva mai avuto occasione di usarne uno, ma adesso che era bloccato lì per non sapeva quanto tempo, dopo una decina d'anni ne aveva acquistato uno. Non lo suonava molto spesso, e quando lo faceva erano sempre musiche malinconiche.
Sentiva terribilmente la mancanza di Nerwen. Sua moglie... erano sposati da neanche due mesi, quand'era sparita. Si ritrovavano in Olorendor, per lei ogni notte, per lui invece trascorreva molto più tempo; e via via che gli anni passavano, gli intervalli si facevano sempre più lunghi. L'ultima volta, gli aveva raccontato che lei e Pallando e Túdhin erano diretti verso un luogo abitato, dove progettavano di entrare dopo averlo studiato per un po' in modo da assicurarsi, per quanto possibile, che gli abitanti non fossero ostili; ma da allora erano trascorsi ben otto anni.
Quando entrò in casa, trovò Kerensa, la sua domestica, intenta a ripiegare il bucato. Era una giovane donna molto bella, dai capelli biondo rame e intensi occhi verdi; teneva la casa pulita e in ordine ed inoltre era un'ottima cuoca.
"Bentornato, Lord Aryon", lo salutò, deponendo l'asciugamano che stava piegando per andargli incontro ed aiutarlo a liberarsi del mantello, "La cena è quasi pronta", aggiunse mentre appendeva l'indumento vicino alla porta, "Vi ho preparato del pollo arrosto."
"Grazie, Kerensa", rispose lui distrattamente, "Vado a riposare un poco, intanto."
Andò in camera da letto, dove si tolse gli stivali e si denudò fino alla cintola, con l'intenzione di cambiarsi la camicia e di indossare un paio di comode scarpe da casa.
Lo sguardo gli cadde sul letto vuoto.
Venne prepotentemente assalito dal ricordo dei giacigli che aveva condiviso con Nerwen, dalla semplice coperta su cui avevano fatto l'amore la prima volta al lussuoso talamo offerto loro nel palazzo di Pallando. Lo colse un'immensa nostalgia, tanto del cuore che del corpo, e sentì un'insopportabile oppressione al petto. Vacillò e si lasciò cadere sul letto, dove si raggomitolò, artigliando spasmodicamente la coperta nel tentativo di impedirsi di urlare.
Oh Nerwen... mia adorata moglie, mia dolce Istar... mio cuore... dove sei??, gridò nella sua mente. Strinse le palpebre, ma non riuscì a frenare le lacrime.
Non si era accorto che gli era sfuggito un gemito; Kerensa, che stava transitando davanti alla porta della sua camera dopo essere andata a riporre la biancheria, lo udì e, allarmata, socchiuse la porta; conosceva la sofferenza del suo padrone – a Tarsad la conoscevano tutti – e se ne doleva, perché era innamorata di lui, sinceramente, anche se era consapevole di non aver speranza. Non era la prima volta che lo scorgeva piangere; lo faceva solo quando pensava che nessuno lo potesse vedere, ma lei girava per casa e aveva sempre gli occhi su di lui per prevenire i suoi desideri. Ogni volta, le si spezzava il cuore; quella sera, decise di far qualcosa, perché non poteva più sopportarlo.
La stanza era semibuia, dato che la notte era ormai calata e l'unica luce era quella della luna piena che entrava dalla finestra e cadeva sulla figura raggomitolata; Kerensa entrò silenziosamente e si avvicinò al letto, alle sue spalle. Disfece velocemente i lacci del bustino e si fece scivolare di dosso l'abito, poi anche la camiciola sottostante; scalciò via le scarpe ed infine, nuda, si sdraiò dietro Aryon, abbracciandolo.
Lui trasalì e fece per voltarsi, ma Kerensa lo tenne fermo.
"No... non muoverti...", gli mormorò all'orecchio, "Tieni gli occhi chiusi... fingi che io sia lei..."
Aryon emise una specie di lamento; rabbrividì tra le sue braccia, ma non si mosse.
"Sì, così", lo incoraggiò la donna, sottovoce, "Sono la tua Nerwen... sono qui ..."
Lo accarezzò con dita leggere, sfiorando il petto, poi scese sul ventre, tentando la fossetta dell'ombelico, e poi ancora più giù, sulla sua virilità. Lo sentì gemere e sospirare; un altro brivido lo percorse. Si scostò, permettendogli di girarsi sulla schiena; vide che aveva gli occhi chiusi, come gli aveva raccomandato. Si chinò su di lui e posò le labbra sulle sue, baciandolo lievemente. Con un ansito, Aryon la prese tra le braccia; portando una mano alla sua nuca, le fece premere maggiormente la bocca sulla propria. Kerensa schiuse le labbra, invitandolo ad approfondire il bacio, e lui lo fece, freneticamente, con una sorta di disperazione che le fece venire un groppo in gola. Sapeva che non stava baciando lei, ma la moglie perduta, eppure era disposta a farne le veci, perché lo amava davvero.
Con un gemito, Aryon invertì le loro posizioni e prese a tempestarle di baci il volto, poi scese sul suo collo. Kerensa si inarcò sospirando di piacere mentre sentiva le mani di lui percorrerle impazienti il corpo, sul seno, sul ventre, sui fianchi.
Per lunghi attimi vertiginosi, Aryon si illuse davvero che Nerwen fosse lì, tra le sue braccia; ma il profumo non era il suo, la forma del corpo non era la sua, il sapore dei baci non era il suo... Con un singhiozzo, si fermò ed aprì le palpebre.
"Non posso", bisbigliò, "Perdonami, Kerensa, non posso."
Lei lo guardò, confusa; pensò che si facesse scrupolo di approfittare di lei e lo rassicurò:
"Non preoccuparti... a me sta bene se posso alleviare il tuo dolore anche solo per un poco..."
Aryon tornò a chiudere gli occhi; passato il momento di smarrimento, gli era chiaro quel che era giusto fare. O non fare.
"No, Kerensa", disse piano, tornando a guardarla, "Ti ringrazio infinitamente per la tua generosità, ma semplicemente non posso. Se Nerwen fosse morta, sarebbe diverso; ma è viva, e prima o poi tornerà da me. Questo è sicuro come la primavera che segue l'inverno", si avvide che lei era turbata, sull'orlo del pianto, "Non pensare che tu non sia desiderabile, Kerensa", aggiunse gentilmente, "Sei bellissima e qualunque uomo sarebbe felice di prendere quel che mi stai offrendo..."
"E allora perché non lo fai?", domandò lei, la voce incrinata. Lui le accarezzò la guancia in un gesto gentile, ma scevro di qualunque significato erotico.
"Perché amo troppo Nerwen per desiderare un'altra", rispose semplicemente. Kerensa lottò contro le lacrime.
"Eppure il tuo corpo dice qualcos'altro", gli fece notare sottovoce. Era vero: il gonfiore al suo inguine era evidente; ma lui scrollò la testa.
"Te l'ho detto, sei una donna desiderabile, e quindi il mio corpo reagisce automaticamente", spiegò, "Però il mio cuore non è d'accordo. Farei un torto a te, a lei e a me stesso", si scostò, "Per favore, ora rivestiti e lasciami", concluse, con tutto il garbo di cui era capace.
Lentamente, Kerensa si alzò e raccolse i suoi abiti; mentre stava uscendo, Aryon le disse piano:
"Se non vorrai più stare al mio servizio, lo capirò."
La donna si voltò di scatto, stringendo le vesti al petto, le guance rigate di lacrime:
"Mi state scacciando?"
"No! No, certo che no... ma se dopo quel che è successo ti sentissi troppo a disagio con me, ti prego di sentirti libera di andartene."
Lei abbassò gli occhi; dopo un lungo momento, annuì, indicando d'aver capito. Se lui l'avesse umiliata, allora sarebbe senz'altro andata via; ma invece era stato gentile. A volte era un po' brusco, o scostante, ma mai villano. Lo amava veramente; non poteva volergliene se lui amava allo stesso modo sua moglie. In fondo, lo amava anche per quello. Forse un giorno si sarebbe stancata di amare chi non poteva contraccambiarla e se ne sarebbe andata; ma, fino ad allora, sarebbe rimasta.
Nascosti dietro un rialzo del terreno, Nerwen e Pallando osservavano il piccolo lago che si stendeva davanti a loro. Negli ultimi due giorni, il paesaggio era andato rapidamente cambiando: la vegetazione era diventata sempre più abbondante e verde, mentre il deserto aveva lasciato il passo alla prateria, poi ad un terreno ricco e fertile, che a sua volta si era trasformato in campi ben coltivati che parevano trovarsi nel periodo di riposo invernale, essendo ben curati ma spogli e deserti. Tuttavia, la temperatura non suggeriva che fosse inverno; a meno che naturalmente d'estate non diventasse torrida. Anche le fattorie che scorsero, a cui si avvicinarono con prudenza per studiarle, parevano disabitate, ma erano perfettamente tenute, indicando che si trattava di una condizione molto recente oppure soltanto temporanea.
Un molo era visibile poco lontano da dove si trovavano, e parevano essercene altri più in là.
"Che te ne sembra?", domandò Pallando a Nerwen.
"Non so", rispose lei, perplessa, "Quei bastioni formidabili e la posizione imprendibile in cui è stata costruita la fortezza suggeriscono una situazione non propriamente pacifica; ma d'altro canto, potrebbe essere stata bellicosa secoli fa e adesso esser invece tranquilla."
Lo Stregone Blu si guardò attorno:
"La campagna è ben curata", considerò, "e le fattorie sparse ben tenute, cosa che mi fa pensare a un luogo tranquillo. L'assenza di lavoranti nei campi potrebbe essere spiegata dal fatto che forse questo è il loro inverno e i contadini usano trascorrerlo nel castello sull'isola."
Nerwen annuì: era una spiegazione plausibile. Non si sentiva del tutto rassicurata, ma non vedeva validi motivi per essere sospettosa. Del resto, non potevano neppure continuare a vagare all'infinito senza sapere dove si trovavano; inoltre dovevano cercare un modo per tornare a casa. Con una stretta al cuore, pensò ad Aryon: la notte prima, le aveva detto che erano trascorsi otto anni dalla volta precedente, anche se per lei erano passate soltanto ventiquattro ore. Pareva che la differenza temporale tra i due luoghi si accentuasse sempre di più.
"Avviciniamoci apertamente", suggerì, "dimostrando subito di non avere nulla da nascondere. Speriamo che questo renda gli abitanti dell'isola bendisposti verso di noi..."
Si misero in piedi e, tallonati da Túdhin, si diressero alla riva del lago e verso il molo; lo percorsero fino all'estremità e si disposero ad attendere pazientemente, contando sul fatto che sicuramente sui bastioni del castello ci fossero delle vedette.
"Nel mentre che aspettiamo, sarà meglio pensare a cosa dichiarare", osservò Pallando pensierosamente, "Di sicuro ci interrogheranno, vorranno sapere chi siamo, da dove veniamo, che cosa facciamo qui..."
"Hai ragione", fu d'accordo Nerwen, "Non possiamo certo dire che siamo arrivati qui per un incantesimo in Linguaggio Nero... Potrebbero non crederci. E forse non conoscono la Terra di Mezzo..."
Assieme, elaborarono una versione che pensarono verosimile.
Non molto dopo videro una barca staccarsi da una delle banchine dell'isola, inalberare una vela quadra con un simbolo nel mezzo e dirigersi verso di loro. A metà della distanza, Nerwen distinse i particolari del simbolo ed ebbe un moto di sorpresa: era un grande arco nero, che le ricordò l'immagine intagliata sulla porta dello studio di Pallando, che riproduceva l'arco di Oromë. Poteva naturalmente essere soltanto una coincidenza, ma ciò non di meno, ne rimase perplessa.
Il piccolo vascello si accostò al pontile; delle cime vennero lanciate attorno alle bitte, attraccando l'imbarcazione. I marinai non avevano ancora completato l'opera, che un paio di soldati saltarono sul molo e marciarono incontro ai due in attesa; il loro atteggiamento era abbastanza intimidatorio e Nerwen si tese, aspettandosi guai. Percependo l'aggressività dei nuovi arrivati, Túdhin ringhiò piano, preparandosi a reagire ad un eventuale attacco, ma la Istar gli intimò di non muoversi senza il suo consenso.
"Chi siete e cosa fate a Qos?", li interrogò bruscamente il più tarchiato dei due in perfetta Lingua Corrente, seppure con un accento fortemente strascicato. I due Istari ne furono lieti, perché così non si poneva il problema della comunicazione, anche se l'uso di quell'idioma in un luogo che non era la Terra di Mezzo e neanche Arda era davvero inspiegabile.
"Siamo viandanti che si sono persi nelle lande oltre la vostra bella regione", rispose lo Stregone in tono fermo, con rispetto ma senza mostrare soggezione, "Il mio nome è Pallando, e questa è mia figlia Nerwen. Cerchiamo aiuto per tornare a casa."
"Da dove venite? E cosa ci facevate nelle Lande Desolate? Non sapete che è pericoloso attraversarle?"
Le domande incalzanti del soldato disturbarono Nerwen, ma Pallando non perse la calma.
"Veniamo da molto lontano, ma non dubito che, da uomo certamente colto come sembri, conoscerai il nome della nostra terra, lo Yòrvarem, situato a est delle Montagne Rosse, sulle sponde dell'Oceano Orientale, a nord della Grande Foresta e a sud delle Verdi Praterie."
Tutti quei nomi disorientarono il soldato, che sbatté le palpebre nel tentativo non solo di riconoscerli, ma anche di memorizzarli. L'intento era stato quello di dargli così tante informazioni senza in realtà dargliene affatto, da fargli possibilmente dimenticare le altre domande che indubbiamente voleva porre loro.
Ebbe successo: Pallando aveva fatto leva sulla supposta cultura del soldato, che a quel punto non volle farsi passare per ignorante.
"Capisco", disse infatti, annuendo e fingendo di conoscere i posti citati dall'uomo anziano che aveva di fronte, "è davvero molto lontano da qui... Se i vostri intenti sono pacifici, non avrete problemi; ma dovete venire con me al castello per essere interrogati dal nostro signore, sire Alatar."
Involontariamente, Nerwen sgranò gli occhi e Pallando sbatté le palpebre per la sorpresa; la cosa non passò inosservata al soldato, che li guardò sospettosamente.
"Conosciamo... di fama il nome del tuo signore", si affrettò a spiegare la Istar. Per tutti i Valar, avevano trovato anche l'altro Stregone Blu!
Un'ora dopo erano all'interno del castello, in attesa di essere ricevuti. Durante il tragitto, in barca prima – che aveva suscitato il malumore di Túdhin come sulla Perla di Fiume – poi camminando per le strade del borgo che era parte integrante del maniero ed infine per i corridoi del palazzo, Nerwen e Pallando non si erano fidati di parlare liberamente di fronte ai soldati che li stavano scortando; di certo, nessuno dei due sapeva che cosa pensare di quel sorprendente ritrovamento. La domanda principale era come Alatar fosse finito lì; che fosse divenuto il signore di quella gente costituiva un singolare parallelo con Pallando, ma non era strano di per sé, considerando che, per saggezza e poteri, molti potevano trovare desiderabile essere governati da una persona come lui.
Poco dopo vennero introdotti in una grande sala dalle pareti ricoperte di arazzi; le finestre alte e strette lasciavano entrare la luce del giorno ed illuminavano un pavimento di marmo grigio screziato di azzurro. Eleganti colonne ritorte di marmo simile si elevavano in due file parallele sulla lunghezza del salone, attirando lo sguardo verso il fondo, dove su una predella di tre scalini si trovava un trono d'oro; vi era assiso un uomo dalla lunga chioma, canuta come la barba, abbigliato di velluto color lapislazzuli. Avvicinandosi, Nerwen notò una forte rassomiglianza con Pallando, che andava oltre il colore di barba e capelli e al fatto che indossassero abiti di foggia e tinta simili.
Quando furono giunti ai piedi del trono, i soldati che li avevano scortati fino a lì li fermarono; fecero il saluto al loro signore, poi si disposero due passi più indietro, gli occhi fissi sui visitatori e le mani sull'elsa delle spade. Era chiaro che non avrebbero permesso che Alatar corresse rischi con questi sconosciuti.
Pallando e Nerwen fecero una riverenza, come si conveniva nei confronti del signore del luogo, mentre il lupo lo studiava attentamente.
Costui è luminoso come te e Pallando, annunciò. Nerwen gli mandò una sensazione di assenso: se lo era aspettato, visto che si trattava di un Istar.
Alatar, cui erano stati annunciati i loro nomi, li scrutò attentamente, come a sincerarsi che fossero proprio chi dichiaravano di essere. Poi si alzò e scese i gradini, andando a fermarsi davanti a Pallando; erano di pari statura e corporature e, ancora una volta, Nerwen fu colpita dalla notevole somiglianza tra i due: avrebbero potuto esser presi per fratelli. La differenza maggiore era che Alatar aveva gli occhi grigi, mentre Pallando li aveva blu.
"Sei davvero tu, mio vecchio amico", disse Alatar, abbracciandolo nella maniera formale in uso a Valinor e anche tra gli Eldar della Terra di Mezzo.
Pallando contraccambiò l'abbraccio, ma la sua amnesia gli impedì di provare una vera gioia nel rivedere il suo antico amico; una parte di lui nel profondo dell'anima era felice, ma si trattava di qualcosa di così lontano che non aveva un grande peso. Alatar si accorse che c'era qualcosa di strano e la sua espressione si fece perplessa.
Nerwen intervenne:
"Ti ricordi anche di me, Alatar?"
Lo Stregone si voltò verso di lei, sciogliendosi dall'abbraccio con Pallando.
"Nerwen Laiheri", annuì, poi piegò il capo da un lato come ad osservarla meglio, "Sei... diversa."
"Sì: ora sono Nerwen la Verde", spiegò l'Aini sinteticamente. Alatar comprese cosa implicava quel titolo ed annuì.
"Benvenuti a Qos", disse poi, "Mi hanno riferito che vi eravate persi nelle Lande Desolate", aggiunse, "e vedo che siete stanchi e provati. Lasciate che provveda a voi da buon anfitrione."
Batté le mani e da dietro una colonna emerse una donna alta e magra dai capelli castani raccolti in una crocchia sul capo; aveva un'aria severa ed efficiente.
"Cariel, ti affido questi due miei vecchi amici", le disse Alatar, "Provvedi affinché vengano alloggiati comodamente e abbiano tutto quello che può loro servire."
La donna s'inchinò rigidamente e poi fece cenno a Nerwen e Pallando di seguirla.
"Parleremo domani", disse Alatar, congedandoli, "Ora pensate a rifocillarvi e a riposarvi."
Si accomiatarono quindi da lui e seguirono Cariel, che li condusse fino ad un'altra ala dal palazzo.
"Vi farò preparare il bagno frattanto che appronteranno le vostre camere", disse la donna, che intanto avevano appreso essere la Sovrintendente del castello, "e vi farò avere anche degli abiti puliti."
Era un modo cortese per dir loro che erano sporchi e trasandati, ma del resto venivano da sei giorni nelle Lande Desolate e non potevano certo negare l'evidenza dei fatti.
"Grazie", disse Nerwen, "Gradirei anche un bagno per il nostro cane, ma mi occuperò di lui personalmente."
"Non è necessario, mia signora, posso incaricare uno dei servitori..."
"È meglio di no, Túdhin permette solo a me di avvicinarmi tanto da lavarlo."
"Come desiderate", annuì Cariel, aprendo una porta, "Questa e la seguente sono le vostre camere. Mettetevi comodi: tra qualche minuto arriveranno con l'acqua calda per i bagni."
Fu un sollievo per entrambi potersi finalmente lavare e cambiare, dopo tanti giorni di completa mancanza d'acqua se non per bere. Gli abiti che vennero loro forniti erano comodi, anche se non particolarmente eleganti; ma Nerwen pensò con un guizzo di umorismo che sarebbe andata bene anche una tunica di sacco, purché pulita.
Dopo che si fu fatta il bagno, i servitori tornarono e svuotarono la vasca, per poi riempirla di nuovo per permettere a Nerwen di lavare anche Túdhin. Il lupo osservò con diffidenza il grande recipiente di rame pieno d'acqua appena intiepidita.
Devo per forza...?, domandò. La sua idea di bagno era un tuffo in un fiume o in uno stagno e una scrollata.
"Direi di sì, vecchio mio", affermò Nerwen. Il lupo era pieno di polvere e terra fin dalla sua disavventura con le sabbie mobili, che gli aveva irritato la pelle sotto al pelo, ed era meglio se poteva assisterlo con una spazzola. Gli mandò questi pensieri e lui capì, per cui fece di necessità virtù e si rassegnò. Non potendo saltare nella vasca senza inondare la stanza, si lasciò sollevare e metter dentro dalla sua amica a due gambe e rimase disciplinatamente immobile mentre lo bagnava, lo insaponava e poi lo spazzolava dolcemente; infine Nerwen lo risciacquò e lo asciugò con alcuni teli, per poi avvolgerlo in uno di asciutto e sollevarlo fuori dalla vasca, posandolo sul pavimento. A quel punto il lupo si scrollò, schizzando in giro una miriade di goccioline, ma senza grossi danni, visto che la maggior parte era stata assorbita dagli asciugamani.
Mi sento meglio, effettivamente, ammise, con soddisfazione della Istar.
Più tardi i servitori portarono la cena a lei e a Pallando; la consumarono in camera di lui, in modo da poter parlare, mentre Túdhin rosicchiava delle ossa carnose.
"È incredibile", commentò Nerwen, "Tutti pensavano che sia tu che Alatar foste perduti per sempre, e invece prima ritrovo te, e adesso ci imbattiamo nel tuo amico. E tutto questo nel giro di poche settimane."
"Non so cosa dire", dichiarò Pallando, "perché non conosco le circostanze in cui Alatar e io ci siamo separati, o perché io sono finito in quella grotta e lui invece qua. Sono trascorsi più di milleottocento anni da quando Kalar mi ha trovato e salvato. Non so cosa sia successo perché io fossi ferito tanto gravemente da esser quasi morto... forse lo sa Alatar e domani lo scopriremo."
"Anche lui, come te, è diventato un signore di Uomini", considerò Nerwen, "O almeno, di persone che assomigliano a Uomini. Comunque non mi stupisce: un monarca immutabile è sicuramente un punto di riferimento rassicurante. Purché tale monarca sia capace e gradito, ovviamente, così come lo sei tu nello Yòrvarem."
"Sembrerebbe che anche Alatar sia così", osservò Pallando. Nerwen annuì, mostrandosi d'accordo.
Quando andò a dormire, come ogni notte da quando avevano attraversato il Portale Oscuro, Nerwen si recò in Olorendor, dove trovò Aryon già ad attenderla. Le parve pallido e smunto e il cuore le si strinse: quanto tempo era passato, per lui, dall'ultima volta? Comprese che era stato davvero molto dal modo in cui lui l'abbracciò, stringendola fin quasi a soffocarla.
"Mi manchi da morire...", le bisbigliò, prima di baciarla disperatamente; dopo alcuni interminabili baci si scostò per guardarla, "Come stai, cuor mio? Va tutto bene?"
"Sì, abbiamo raggiunto il luogo abitato – un castello su di un'isola in mezzo ad un lago – e trovato buona accoglienza", lo rassicurò la Maia, "Inoltre abbiamo avuto l'immensa sorpresa di trovare l'antico amico di Pallando, Alatar, l'altro Stregone Blu."
"Bene!", esclamò Aryon, sollevato, "In tre Istari, saprete pur trovare un modo per tornare, no?"
"Lo spero: se anche Alatar è rimasto intrappolato in questa strana dimensione, forse neppure lui sa come tornare; ma mettendo insieme le nostre capacità, è certamente possibile trovare una soluzione... E tu? Come stai...?"
"Non bene, senza di te... ma resisto, sapendo che sei viva e che prima o poi tornerai."
"Sei sempre il capitano delle guardie di Tarsad?"
"Sì... e adesso abito in una vera e propria casa, fin troppo spaziosa per me solo. Ho anche una domestica, Kerensa, che si prende cura di me. È un'ottima cuoca."
Nerwen si strinse improvvisamente a lui. La frase l'aveva trafitta come una stilettata, perché poteva essere interpretata in modo tutt'altro che innocente; ovvero, la domestica in questione avrebbe potuto prendersi cura di Aryon non solo in cucina, bensì anche in camera da letto. Se era così, lei non voleva saperlo; ad ogni modo, non si sentiva di biasimare il marito: dopotutto, tra una volta e l'altra in cui si trovavano nella Terra dei Sogni, per lui trascorrevano molti anni. Non poteva pretendere la sua assoluta fedeltà fisica; d'altronde, la fedeltà sentimentale era infinitamente più importante, e quella non v'era dubbio che l'avesse.
Ignaro dell'improvvisa angustia della moglie, Aryon usò la sua forza di volontà per trasformare l'ambiente circostante nella sua stanza a Tarsad, così come si poteva fare in Olorendor.
"È qui che dormo", le spiegò, "Il letto è così vuoto, senza di te... Se ora lo riempi, mi porterò il ricordo fino al nostro prossimo incontro..."
Quella frase rivelò a Nerwen che, se anche forse si faceva consolare da quella Kerensa, non accadeva lì.
"Vieni", lo invitò quindi, conducendolo verso il letto, "Non perdiamo neanche un minuto del tempo che possiamo stare insieme..."
Il mattino seguente, Nerwen chiamò per la colazione; il servitore che gliela portò le comunicò che Alatar desiderava vedere lei e Pallando, quando avessero finito di mangiare.
Più tardi, vennero quindi scortati fino al salotto privato dello Stregone Blu; come sempre, Túdhin si accodò. Vennero introdotti senza grandi cerimoniali e Alatar li invitò ad accomodarsi con lui.
"Gli alloggi sono di vostro gradimento?", si informò cortesemente; alla risposta positiva di entrambi, proseguì, "Vi starete certamente chiedendo come io sia arrivato qui. La risposta è molto semplice: sicuramente allo stesso modo in cui ci siete arrivati voi. Pallando e io ci trovavamo in una grotta con un'iscrizione in Linguaggio Nero sulla parete di fondo, e quando l'ho letta ad alta voce si è aperto un passaggio che mi ha risucchiato. Non pensavo che l'incantesimo si potesse attivare semplicemente leggendolo, perché di solito, come ben sapete, per proteggerne l'uso improprio, dev'essere accompagnato da precisi gesti conosciuti solo dall'ideatore...", s'interruppe per scuotere il capo, ancora perplesso, "Forse chi l'ha creato aveva troppa fretta e non lo ha protetto adeguatamente. Comunque sia, è accaduto così anche a voi, vero?"
"Esatto", confermò Pallando, "Ti devo però dire una cosa, Alatar: io non ricordo nulla di quanto ci è successo in quella grotta, né della mia vita prima di quel momento. Ti prego quindi di dirci cos'è accaduto."
Alatar lo guardò sorpreso:
"Non ricordi nulla? Quindi... non rammenti neppure me, la nostra amicizia, il nostro comune passato in Aman?"
"Nulla", confermò l'altro, gravemente, "È stata Nerwen a farmi il tuo nome e a raccontarmi a grandi linee la nostra storia come Maiar seguaci di Oromë, investiti della missione di andare nella Terra di Mezzo come Istari denominati Stregoni Blu col compito di recarci nell'est a organizzare la resistenza contro il potere di Sauron... ma ripeto, io non ricordo niente di tutto ciò. Quindi non so come e perché sia accaduto che tu ti sia ritrovato qui e io no."
A quel punto, Alatar guardò Nerwen con curiosità.
"Se non rammento male, tu sei seguace di Yavanna Kementári", considerò, "ma non facevi parte del gruppo degli Istari..."
"No, infatti", confermò lei, "Io sono diventata una Istar soltanto pochi anni fa, con l'incarico di ritrovare gli Onodrim, motivo per cui sono giunta nella Terra di Mezzo; ora sto cercando le loro femmine, cosa che mi ha portato oltre gli Orocarni e fino allo Yòrvarem, dove ho trovato Pallando. Tu e lui eravate stati dati per dispersi ed è stata quindi un'enorme sorpresa, per me, trovare prima Pallando e adesso anche te. Raccontaci, dunque: come sei giunto qui?"
"Pallando e io stavamo esplorando quella grotta", cominciò Alatar, "dalla quale sentivamo provenire un potere inquietante, che da tempo allarmava gli abitanti della zona. Trovammo queste iscrizioni e io le lessi incautamente ad alta voce. Nella parete di roccia si aprì una fenditura, dalla quale emersero tentacoli di tenebra che mi avvolsero. Lottai furiosamente contro di essi, ma non riuscii a liberarmi. Pallando era leggermente più lontano; lo vidi combattere, ma poi scomparve alla mia vista e io svenni. Quando rinvenni, ero ai piedi di una parete rocciosa altissima e invalicabile, motivo per cui mi incamminai nella direzione opposta fino a imbattermi in questa gente, che mi accolse in amicizia. Io ricambiai come potei, mettendo a loro disposizione la mia sapienza. Nel giro di pochi anni mi hanno eletto loro signore."
Pallando lo scrutò attentamente.
"Mi hanno trovato in fin di vita", considerò, "Dev'essere stata una lotta terribile... anche se ne sono uscito vittorioso, c'è mancato poco che restassi ucciso. E ci ho rimesso la memoria, forse perché ho battuto la testa, o forse perché è stato il prezzo da pagare per vincere... temo che questo non lo sapremo mai", concluse con un sospiro rassegnato, "Ad ogni modo, quando ho attivato il Portale Oscuro – né più né meno di come hai fatto tu – siamo stati sconfitti sia io che Nerwen", aggiunse, lanciandole una rapida occhiata. Lei annuì.
"Da quanto tempo, esattamente, sei qui?", chiese Nerwen ad Alatar, a bruciapelo. L'altro la guardò, sorpreso perché la domanda gli pareva strana:
"Quasi quindici anni", rispose comunque, "Perché me lo chiedi?"
"Questo luogo", spiegò la Maia, "ovunque si trovi, deve essere situato al di fuori di Arda: il tempo scorre diversamente."
"Non c'è nulla, al di fuori di Arda!", obiettò vivacemente Alatar.
"Eä non è tutto ciò che esiste", gli ricordò Nerwen, "Ilúvatar soltanto sa cosa c'è oltre."
Lo Stregone Blu strinse le labbra, vagamente contrariato, ma ciò che l'Aini aveva affermato era indubbiamente vero. Annuì quindi brevemente e cambiò quindi argomento:
"Il tempo scorre diversamente, dici: quanto ne è dunque trascorso, in Arda?"
"Più di milleottocento anni", gli rivelò Pallando. Alatar impallidì.
"E nel frattempo, che ha fatto Sauron?", domandò preoccupato.
"Non è ancora riuscito a diventare il padrone della Terra di Mezzo", lo rassicurò Nerwen, "Finora il Bianco Consiglio – composto dagli altri Istari e dai più grandi signori degli Elfi – è riuscito a contrastarlo. Tuttavia, non lo ha sconfitto definitivamente: la sua minaccia è ancora esistente e, sebbene al momento sembri remota, non dobbiamo smettere di vigilare."
"Sono d'accordo", annuì Alatar, "Finché Sauron vive, sarà sempre un pericolo per le genti libere della Terra di Mezzo, e il nostro compito di prevenire la sua conquista del mondo permane. Dobbiamo trovare il modo di tornare... io ci ho provato, in questi anni, anche recandomi nuovamente nel luogo – che presumo sia lo stesso dove vi siete ritrovati voi – dove mi sono ritrovato dopo aver involontariamente oltrepassato il Portale Oscuro, ma non sono stato capace di scoprire come fare."
"Ora siamo in tre", osservò Pallando, "Sebbene la mia memoria sia oscurata, ho conservato il mio potere. Unendo le nostre forze, scopriremo il modo."
Più tardi, mentre gli altri due Istari erano tornati nei loro alloggi, Alatar si recò nel proprio studio, dando ordine di non venir disturbato per nessun motivo; poi vi si chiuse a chiave. I suoi servitori non si meravigliarono, perché lo faceva abbastanza di frequente; non stava certo a loro questionare le azioni del loro signore.
Alatar si pose di fronte a una libreria e fece un gesto aggraziato con la mano, mormorando una parola di potere; il mobile scivolò silenziosamente di lato per circa un metro, rivelando uno stretto varco nel muro retrostante che dava su una scala a chiocciola; svelto, Alatar vi s'infilò e da una nicchia scavata nella parete prese una lampada, che accese magicamente. Poi fece tornare lo scaffale nella posizione originaria, nascondendo l'accesso al passaggio segreto, e cominciò a discendere la stretta scala.
Giunse alla sua meta, situata nel cuore roccioso dell'isola; era una grande stanza circolare dal soffitto a volta, scavata con arti magiche e apparentemente del tutto spoglia; solo nel centro esatto c'era una sorta di pozzo privo di parapetto, da cui proveniva una luce rossastra, simile a quella del fuoco, ma più cupa. Si udiva un rombo sordo, su una frequenza molto bassa, tanto da essere più simile ad una vibrazione che ad un suono.
Alatar posò la lampada in una nicchia accanto all'ingresso da cui era giunto e ne accese altre tre, poste in nicchie equidistanti lungo il perimetro della stanza, poi si avvicinò al pozzo.
"Khorakûn, io ti convoco!", esclamò in Linguaggio Nero. In realtà non c'era alcun bisogno di usare la voce, dato che era in contatto mentale con la creatura che stava chiamando.
Il rombo aumentò d'intensità, così come la luce. Lentamente, un'ombra emerse dal pozzo; di forma vagamente umana, era grande il doppio di Alatar.
"Dimmi, Padrone", disse l'apparizione con voce cavernosa.
"Sono qui per rammentarti la promessa che mi hai fatto", disse Alatar.
"Darti tanto potere da sopraffare Sauron e bandirlo dal mondo una volta per tutte", enunciò l'apparizione, "ma come sai, per farlo mi serve un altro come te."
"Dall'Altro Lato ne sono giunti addirittura due", annunciò lo Stregone Blu in tono trionfante, "Se li usi entrambi, il potere che mi trasmetterai verrà raddoppiato?"
Il demone rimase in silenzio, ponderando la notizia; studiò Alatar, che attendeva la sua risposta guardandolo senza paura. Sciocco, pensò; se sapessi davvero chi sono e cosa posso fare, saresti spaventato, e molto.
Aveva fatto credere ad Alatar di essere un demone minore, ma in realtà egli era un Balrog; e non uno qualsiasi, bensì uno dei più potenti. Questo antico spirito, sedotto e corrotto assieme ad altri da Melkor Morgoth quando il mondo era giovane, era imprigionato in quella dimensione dal tempo della caduta di Utumno, la prima fortezza dell'Oscuro Signore, che i Valar ed i Maiar avevano distrutto dopo un assedio durato molti anni ed a prezzo di grandi perdite. In quella terribile guerra, i Valar avevano catturato il Nemico ed annientato tutti i suoi alleati, o così avevano creduto: alcuni di loro erano invece riusciti a salvarsi. Khorakûn era fuggito creando un Portale Oscuro che lo avrebbe dovuto portare lontano oltre le Montagne di Ferro; ma, per la fretta, l'incantesimo non era riuscito alla perfezione e lo aveva condotto invece lì – ovunque si trovasse questo lì. Khorakûn non poteva tornare indietro per quello stesso Portale Oscuro perché, dovendogli servire unicamente come via di fuga, lo aveva creato a senso unico; aveva allora tentato di realizzarne un altro, ma aveva scoperto che lì i suoi poteri erano fortemente diminuiti e non erano più sufficienti per forgiare un nuovo passaggio. Aveva allora preso a vagare senza meta, fino ad incontrare degli esseri viventi simili agli Uomini; si era quindi ammantato del loro sembiante e si era mescolato a loro. Poiché si nutriva di emozioni negative, come l'odio, la rabbia, la paura, aveva fomentato delle guerre tra di loro, riducendoli alla fame e alla disperazione, cominciando lentamente a riacquistare forza; ma dopo poco era giunto questo Stregone Blu, attraverso lo stesso Portale Oscuro che, per gli sconvolgimenti causati dalla Guerra dei Poteri, adesso era ubicato in tutt'altro tempo e luogo, ma era ancora funzionante. Alatar lo aveva individuato e gli aveva mosso battaglia; poiché Khorakûn a quel tempo era ancora indebolito, era riuscito a batterlo e lo aveva imprigionato; per gratitudine, quegli esseri così simili ai Secondogeniti di Eru avevano proclamato lo Stregone Blu loro signore.
Khorakûn aveva fatto quella promessa ad Alatar per i suoi propri scopi; poteva nutrirsi del potere dello Stregone Blu – una piccolissima dose alla volta, tanto che non se ne sarebbe accorto, e tra una volta e l'altra sarebbe tornato al livello consueto – fino a tornare nel pieno possesso delle proprie facoltà. Ciò nonostante, anche il suo pieno potere unito a quello di Alatar era insufficiente per poter tornare in Arda: serviva quello un altro Istar, ma sarebbe andato bene anche un Alto Elfo, per creare un passaggio che li riportasse nel loro mondo. Quel che lo sciocco Alatar non sapeva, era che quando Khorakûn avesse assorbito i poteri della vittima designata, uccidendola, non li avrebbe trasferiti allo Stregone Blu, bensì li avrebbe usati per impadronirsi anche dei suoi, sopprimendo anche lui, poi avrebbe potuto tornare da solo e mettersi al servizio di Sauron, che era l'erede del suo antico signore Melkor Morgoth, come aveva appreso da Alatar.
Ma ora Alatar gli aveva detto che erano arrivati addirittura altri due Istari. Questo cambiava le cose: coi poteri di tre Istari, lui, Khorakûn, sarebbe diventato più potente di Sauron ed avrebbe potuto prenderne il posto.
"Credo di sì, Padrone", rispose infine, fingendo insicurezza, "Non avevo preso in considerazione una simile eventualità, ma penso di poterlo fare."
"Ottimo!", si rallegrò Alatar, "Come procediamo?"
"Portali qui entrambi, addormentali in modo che non possano opporre resistenza e poi convocami; penserò io al resto."
"Sarà una cosa breve?"
"Richiederà soltanto pochi minuti."
"D'accordo. Te li porterò al più presto. Ora torna al tuo posto."
La figura d'ombra s'inchinò e tornò a sprofondare nel pozzo. A quel punto, Alatar tornò indietro e risalì lentamente la lunga scala a chiocciola alla luce del lume magico. Era soddisfatto: tra poco avrebbe potuto lasciare quel posto che, per quanto lo avesse accolto favorevolmente, non era casa sua; ed inoltre avrebbe acquisito tanto potere da sconfiggere Sauron, cosa che lo avrebbe reso un eroe più grande persino di Tulkas. Tutti gli avrebbero reso onore: gli Ainur, gli Eldar e tutti gli altri popoli della Terra di Mezzo, per averli definitivamente liberati della minaccia dell'Oscuro Nemico. Lui sarebbe stato Alatar il Liberatore, la cui fama avrebbe superato quella di ogni altro in tutta la storia di Arda. E per prevenire la comparsa di un altro Sauron, egli stesso sarebbe divenuto il signore del mondo, governandolo con una tirannia illuminata e magnanima. Tutti lo avrebbero adorato.
Era talmente convinto d'aver completamente in pugno il demone, da non rendersi conto che il suo ragionamento aveva un'unica, fatale pecca: Khorakûn non gli aveva chiesto niente, in cambio del suo aiuto...
L'angolo dell'autrice:
Pur nella sua grande saggezza di Istar, Alatar sta commettendo un enorme errore di giudizio, sottovalutando quello che lui crede soltanto un demone minore; e ancora non sa che sta sottovalutando anche Nerwen... Che accadrà? Lo scopriremo nel prossimo capitolo... ;-)
Lady Angel
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