Lacrime di Padre Come Sigilli

A questo punto delle ricerche, nuovo blocco: avevo (per l'ennesima volta) smarrito il bandolo di una matassa che sembrava aver da poco iniziato a dipanarsi.

Sapevo che gli eredi, non vivendo a Noci, e non potendosene perciò occupare direttamente, decisero di mettere in vendita la villa-masseria.

Ricordai quanto mi disse il Dott. Giandomenico D'Onghia.

L'ultimo proprietario della villa fu Carlo Verri, allora presidente dell'Alitalia, figlio di Maria Vittoria Gabrielli e del Maggiore Gabriele Verri. Quest'ultimo, ebbe parte attiva nella celeberrima battaglia di El Alamein, rimettendoci le proprie gambe.

Una mutilazione che, evidentemente, ne modificò anche il carattere. Sempre stando a quanto mi rivelò il Dott. D'Onghia, la povera Maria Vittoria dovette quindi subirne i repentini sbalzi d'umore e scatti di collera. Il loro unicogenito, Carlo Verri perì in un tragico incidente stradale. In effetti, mi ricorda Ferruccio, Montone era di proprietà dei due fratelli Gabrielli: Gianni e Mariangela e di Carlo Verri. Questi rispettivamente figli di Ninuccio e Ninì (Mario era rimasto scapolo)

La villa, compresa di mobilio, venne venduta a Giovanni D'Ambruoso, noto imprenditore nocese nel campo dell'industria casearia. Nel 2005 vennero avviati i lavori di ristrutturazione, restauro e recupero residenziale, a cura del noto Architetto nocese Francesco Giacovelli, con il quale, aveva collaborato una nutrita equipe di esperti in campo del restauro.

Interpellare chi, a vario titolo, si fosse occupato di restituire alla villa il suo splendore? Una cosa che mi suggerirono in molti, in verità, ma io continuavo a mostrarmi titubante.

E che vuoi che ne sappiano?" – pensai- "Anche per loro sarà stato solo lavoro, come per la collega".

Poche altre volte in vita mia fui tanto felice di sbagliarmi.

Presto, infatti, avrei scoperto che tra chi si era interessato ai lavori (muratori, piastrellisti, esperti di restauro, imbianchini e perfino netturbini) c'era stato qualcuno che aveva saputo ascoltare la voce di quel dolore, così profonda da non essersi mai sopita.

E non solo s'era fermato ad ascoltarla: l'aveva lasciata entrare un po' nel proprio cuore e l'aveva preservata dal macero, da una distruzione triste e immeritata. Con molta probabilità, i familiari, quando si recarono alla villa per la divisione di quanto ci fosse all'interno, non avevano prestato attenzione a qualcosa di molto importante.

Quelle pagine vergate a mano, nella loro umiltà, pare fossero infatti passate del tutto inosservate. Chi le raccolse, non avendo contatti con gli eredi, volle comunque preservarle in attesa che fossero reclamate, che al momento giusto, il destino le facesse giungere alle persone giuste. Come si poteva avere il coraggio di gettar via il dolore di un padre e di un ragazzo così giovane, seppur già molto maturo?

Sì, credo lo abbiate a questo punto capito da voi: sto parlando proprio del manoscritto dedicato da Giovanni Gabrielli alla triste vicenda di Guidino, il suo orgoglio, il suo pupillo, il perno attorno al quale ruotava l'universo suo e di sua moglie Beatrice.

Lottai fino all'inverosimile perché mi fosse concesso di leggere quelle pagine. La persona che fece da intermediaria, non volle mai rivelarmi chi fosse il o la custode di quelle memorie, così come gli era stato imposto di fare. Sembrava che inizialmente non ci fosse alcuna propensione a darle in visione a nessuno che non appartenesse alla famiglia Gabrielli.

Però quel "libro" a cui mi aveva accennato Mariangela esisteva davvero. Era giusto a questo punto andare fino in fondo. Che senso avrebbe avuto fermarsi a un palmo dall'uscita del labirinto?

Soprattutto, però, sarebbe stato giusto e doveroso che il tutto fosse consegnato alla famiglia, poco importa se interessasse o meno. Sfortunatamente, non so che fine abbia potuto fare l'originale, dacchè seppi proprio non molto tempo fa che la persona che le custodiva, già molto anziana non è più in vita. M'impegnerò perciò a riportare quello che riesco a ricordare, avendo avuto il tutto in visione per un tempo assai limitato.

Alla fine, fu ben chiaro a chi di competenza, che il mio fosse un interesse fortemente umano più che la semplice curiosità annoiata di chi non abbia nient'altro a cui pensare. Insomma: una testarda questione di cuore.

Non mi verrebbe in mente altro modo per descrivere tale sentimento. Probabilmente, fu proprio tale interesse, il fatto che la vivessi come un qualcosa che avessi già vissuto (perdonatemi il gioco di parole) a convincere chi di dovere a darmi in visione il materiale. Ovviamente, sotto lo sguardo vigile, attento e cronometrato di chi "mediava".

Divorai quelle pagine nel pochissimo tempo che mi fu messo a disposizione per farlo. Fortunatamente, sono sempre stata dotata però di una buona memoria. La prima cosa che notai, con mio grande stupore, fu che il manoscritto iniziasse con il titolo "Ricordi di Ninì".

Pensai: "Ma non è che si sono confusi loro stessi? Mi avranno dato il manoscritto sbagliato?".

Niente di tutto ciò. Scorrendo le pagine, di Guido si sarebbe parlato più avanti. La prima parte di quel manoscritto, il Colonnello aveva voluto dedicarla al figlioletto Ninì (Nicola) morto a soli 5 anni, pare a causa di una meningite.

Nicola - Ninì: un nome e un diminutivo che erano identici a quelli del mio adorato nonno, chiamato da tutti in famiglia, da nonna in primis, per l'appunto "Ninì".

In realtà il bimbo, nato il 17 novembre del 1899, fu battezzato con 4 nomi: Nicola, Michele, Mario, Gabriello. Per primo gli fu imposto Nicola, proprio in onore del Santo originario di Myra, diventato patrono di Bari. Una scelta motivata da un voto fatto da Mamma Beatrice, affinché il parto andasse a buon fine. Prima di Ninì, questi sventurati genitori avevano perso, subito dopo la nascita, ben due figli: un maschio e una femmina.

Racconta infatti il Colonnello: "Ricordo che tanta fu la nostra allegria, che per tre giorni e tre notti, lo guardammo estasiati, mia moglie ed io. Non credevamo ancora alla nostra felicità".

Dai capelli biondissimi e dagli occhioni neri, Ninì era dotato, considerata la tenerissima età, di un'intelligenza, di un'astuzia e di una favella inimmaginabili, a quanto si evince dagli episodi narrati dal padre. Come ad esempio il suo correre per i campi assieme alla cara amichetta Antonietta. Quando a villa Montone furono ospiti per un certo periodo i figli di alcuni amici di famiglia, Ninì raccomandò ad Antonietta: "Tu non uscire, resta a casa tua, che io devo scherzare con gli altri bimbi più grandi".

Una tenerissima dimostrazione d'amore: Ninì doveva tenere così tanto ad Antonietta, da volerla tenere "solo per sé", senza condividerla con gli altri amichetti più grandi.

Ed ancora, si fa menzione del suo richiamare, di buon mattino, l'attenzione della madre, mentre Beatrice era ancora assonnata. "Mamma la pipì"- esclamò il bimbo che pur poco prima aveva espletato la fisiologica funzione. Al padre, che gli chiese perché mai avesse detto quella bugia, Ninì rispose candidamente: "Perché la mamma non apriva gli occhi!"

Gabrielli precisa a chiare lettere che la motivazione di quelle pagine è il mantenere vivi, nel proprio cuore di padre ma soprattutto in quello di mamma Beatrice, i ricordi più dolci del loro Angioletto volato via troppo presto. Scrive il colonnello: "Lasciate che sgorghino le lacrime amare, poiché nel mondo non v'è dolore più puro, più santo, più gentile e più grande di quello che strazia il cuore di una madre che ha perduto il suo bambino".

E ancora: "Non è bello il pensiero che invita a tracciare le pagine per riunire i pochi ricordi del caro Angioletto che più non è? Una madre non scorderà il suo amato figliolo, ma il tempo, questo distruttore eterno, attenua le tinte, nel mentre, ad ella, rileggendo nei giorni a venire queste note, parrà di rivivere più intensamente quei giorni in cui se lo stringeva al petto e ne ricambiava i baci, e il libro servirà a serbarne più intatta e più chiara la memoria".

Non rammento le precise parole dell'iscrizione che fu apposta sulla lapide del bimbo, e che Gabrielli riportava testualmente, ma il senso era appunto questo: chi gli aveva dato la luce, era sprofondato nelle tenebre a causa della sua morte.

In foto sopra, Giovanni Gabrielli e Beatrice Re David col figlioletto Ninì nella piscina di Villa Montone nel 1904.  Fonte: fototeche dell'attuale proprietario della Villa

Arrivai finalmente alle pagine che riguardavano Guido, il centro del mio interesse. Notai che il manoscritto, in alcuni punti fosse macchiato. No, non macchie d'inchiostro o di altro. Qualcosa che sembrava acqua, ma che in realtà non lo era. Proseguendo nella lettura avrei compreso.

Lacrime: ed era il Colonnello stesso a specificarlo. "Ne scriverò piangendo, poiché mi sento piagato nel cuore!"- così egli scrive in riferimento alla morte di Guido, un dolore ancora più grande della perdita di Ninì e delle due creature morte poco dopo la nascita.

Del resto è naturale: quando cresci un figlio fino ai 21 anni, già intravedi il futuro radioso che potrà avere, riponi in lui, adesso figlio maggiore ed erede, tutte le tue speranze.

I vent'anni sono l'età più bella, quella in cui è impensabile dover morire. Si preferirebbe morire subito, ma non a vent'anni. I segni di quelle lacrime, credetemi, sono stati una delle cose più strazianti e preziose che io abbia mai visionato in vita mia Non dimentichiamoci che parliamo di un'epoca dove gli uomini, e in special modo i militari, dovevano essere "tutti d'un pezzo", integerrimi e dignitosi, senza mai tradire alcuna emozione. In una società dove guai a veder piangere un uomo (era considerato segno assoluto di debolezza) un Colonnello di Artiglieria con diversi sottoposti, non ha vergogna ad ammettere di continuare a piangere per la morte del figlio. Addirittura, non teme di lasciare quelle lacrime impresse come sigilli su quei fogli. Ecco quello che si dice essere un grande uomo!

1Giovanni Gabrielli al fronte con il cognato, Colonnello Ferruccio Leo, marito della sorella Francesca. Fonte: fototeche dell'Arch. Ferruccio Ciulli.


Disicuro, Giovanni Gabrielli, uomo d'armi che visse appieno il Primo Conflittomondiale, alla morte doveva ben essere abituato. L'aveva vista, toccata erespirata a pieni polmoni.  

Mi è stato raccontato, da chi ha visionato altri suoi scritti oltre a "Primordi di Noci", che al fronte fosse solito sedersi lì a lume di candela e mettersi a scrivere personalmente alle famiglie dei giovani soldati che avevano perso la vita sul campo. Quanto dev'essere stato difficile per quest'uomo trovare le parole giuste in tali tristissime circostanze? Dopo tutto, lui era un padre che aveva già perso un figlioletto di cinque anni, e prima di lui, due figli che aveva forse fatto appena in tempo a vedere, dopo la nascita. Gli sarebbe toccata poi anche la sventura ancora più grande di dire addio a un figlio di 21 anni, con le ali già spiegate per spiccare il più bello dei voli.

In foto Giovanni Gabrielli (a destra) al fronte con il cognato Ferruccio Leo (a sinistra) marito della sorella Francesca. Fonte: fototeche di Ferrucci Ciulli. 

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