La storia di Guidiello
Guido venne alla luce a Taranto, il 22 aprile 1903. Anche lui bello e vivacissimo come il fratello Ninì, iniziò però a parlare in ritardo rispetto a lui. Prima dei 2 anni e mezzo, comunque, pare fosse in grado di farsi perfettamente capire a suon di segni. Sicuramente, poi, la favella divenne inarrestabile. Il padre lo descrive come un ragazzo di natura allegra e sveglio d'ingegno. Sempre pronto allo scherzo e alla battuta, con gli amici e con quanti, conoscendolo, restassero incantanti dal fascino particolare che aveva in sé. Un ragazzo molto più maturo di quel che si supporrebbe per la giovane età, tanto che lo stesso Colonnello ne ascoltava le parole e i consigli.
Avviati gli studi ginnasiali (che proseguì fino al liceo) presso il Collegio di Conversano, Guidino, come tanti altri giovani in quell'epoca, fu vittima della temutissima influenza Spagnola che lo costrinse a saltare due anni di scuola.
Per ben due volte, a causa della malattia e (presumibilmente) di una ricaduta, non poté infatti presentarsi agli esami previsti in ottobre. Il passaggio dal secondo al terzo liceo fu quindi conseguito all'età di 19 anni. La visita medica per la leva militare lo vide idoneo, ma volendo completare gli studi, il ragazzo fece domanda come allievo ufficiale nell'arma di Artiglieria, in modo da poter ritardare la chiamata alle armi fino al conseguimento dell'agognata licenza liceale. Licenza che purtroppo non sarebbe mai riuscito a ottenere, perché entrò in ballo la penosa malattia.
Giovanni Gabrielli riferisce che tutto ebbe inizio 13 mesi prima della morte, nel marzo 1923. I primi sintomi furono dolori passeggeri all'alluce del piede destro. Sicuramente una minuzia che passò inosservata, ancor più perché trattavasi di dolori non persistenti. Nel mese di marzo dello stesso anno, Guido, allora collegiale, fece ritorno a casa per trascorrere le vacanze pasquali in famiglia. Il padre, allarmato dal suo pallore, lo interrogò in proposito.
Il giovane riferì di sentire dolori addominali.
I medici curarono il tutto come se si trattasse di ingorgo viscerale, ma con scarsi risultati. Frattanto, dall'alluce il dolore andava estendendosi alla gamba destra. Si tentò la cura anti sciatica che non diede tuttavia alcun beneficio.
Anzi: il dolore, dalla gamba, si estese anche alla spina dorsale, con relativa diminuzione della deambulazione.
La diagnosi formulata in seguito all'ennesimo consulto medico fu di infiammazione del midollo spinale, e molto probabilmente, fu la più corretta.
Peccato che, la medicina del tempo avesse grossi, grossissimi limiti e di certo non si conoscevano tutte le cause che potessero portare il midollo spinale a infiammarsi. Di malattie midollari, dalla sla, alla sclerosi multipla, alle innumerevoli forme di leucemia oggi conosciute ma sempre esistite, ce n'erano diverse. Insomma, nessuno dei medici di allora seppe formulare una diagnosi certa. Mi strige però ancora di più il cuore pensare agli intrugli con i quali fosse stato curato questo povero ragazzo. Dal tossicissimo mercurio (che sicuramente ne accelerò la fine) a strambi preparati del tutto inefficaci. Perfino un medico un tantino più "illuminato" degli altri scongiurò diagnosi che non stessero nè in cielo nè in terra, ma ammise che la causa per allora gli sfuggisse e consigliò di continuare comunque con la somministrazione del mercurio, che ovviamente non migliorò affatto le cose. Come scrive però il padre: "Il naufrago si attacca anche a un filo di paglia". E questi poveri genitori, disperati, pur di salvare il figlio interpellarono tutte le maggiori celebrità mediche all'epoca conosciute.
Non mancarono anche medici del tutto privi di umanità, come un tal dottore che portò con sé i suoi allievi e, durante la visita, dottrinando come se stesse tenendo loro una lezione, fece comprendere al povero Guido la gravità della situazione, dandogli ben poche speranze di guarigione. Cosa, questa, che fece sprofondare il giovane in un profondo stato di depressione. Mentre, fino a quel momento, il morale era sempre stato alquanto elevato, da allora Guido non volle neanche più farsi aiutare ad alzarsi dal letto e a sedersi in poltrona, com'era sua consuetudine ogni mattina. Questo "professorone" infatti gli incusse il timore che la spina dorsale, poiché lesionata, potesse rompersi del tutto nel corso di un movimento appena più brusco.
Testardo e dignitosissimo, Guido si oppose, anche con fermezza, a quanti volessero fare esperimenti a "tentoni" sulla sua pelle. Non voleva sentirsi un fenomeno da baraccone, da esibire a giovani specializzandi in medicina.
A entrare nelle sue simpatie fu non un "professorone luminare" ma un umile medico di paese che, pare sapesse il fatto suo. Qui il nome lo ricordo eccome: dottor Valente di Castellana Grotte. Il Valente aveva compreso che si potesse trattare di qualche patologia ossea, e aveva prescritto i "bagni di sole", per stimolare evidentemente la produzione di vitamina D. Considerando che le cose sembravano migliorare un po', nessuno in famiglia abbandonò le speranze, e si aspettava con impazienza la bella stagione, per ricominciare la cura dei bagni di sole.
Ho immaginato, proprio visivamente, il povero Guido nel suo lettuccio bianco, calmo e rassegnato, che affronta la sua sofferenza con grande e stoica rassegnazione, mentre nel suo corpo paralizzato, erano rimasti vivi solo il cervello, il cuore e gli occhioni neri, grandi e limpidissimi.
Immagino mamma Beatrice che lo veglia instancabilmente, senza muoversi dal suo capezzale, e papà Giovanni che gli riserva parole di coraggio. E lui, un ragazzo quasi imberbe, che insegna agli adulti come si affronta la sofferenza: senza nessun atto di stizza o di ribellione, senza maledire in nessun modo la vita, benché gli stesse riservando un calvario non certo facile da sopportare per un ragazzo di 20 anni, che avrebbe voluto tornare in collegio, tra i suoi compagni, sui suoi libri.
Avrebbe voluto sentirsi ammirato dalle ragazze, sceglierne una da condurre un giorno all'altare, e intanto, costruire un brillante avvenire. Invece, a coloro che andavano a trovarlo per fargli un po' di compagnia e portargli spensieratezza, per arrecargli un po' di sollievo, se non altro spiritualmente, Guidino rispondeva che avrebbe aspettato il dolce sole di aprile, un sole di rinascita che, assieme alla natura, avrebbe rigenerato anche lui.
Lo immagino guardar costantemente fuori dalla finestra per aver contezza, del tempo che mancasse alla sua amata primavera, dal mutare del colore della vegetazione e dallo spuntar dei primi germogli. Mi pare di vederlo tendere l'orecchio al cinguettio festoso di allodole, pettirossi o rondini, a seconda dello scorrer delle stagioni.
Quei piccoli abitanti del cielo, erano diventati evidentemente per lui gli amici più cari, e immagino che provasse a decodificare le loro voci, accogliendole come inviti all'attesa e alla speranza. I genitori, tentavano di alimentare in lui il fuoco di questa speranza con tutta la legna spirituale che era loro possibile reperire. In sua presenza si ricacciavano in gola le lacrime, si fingeva che tutto sarebbe andato per il meglio...ma sono convinta che in cuor loro, Giovanni e Beatrice fossero consci della fine, e che si lasciassero andare al pianto di nascosto.
Mi sono chiesta se anche Guidino non avesse fatto lo stesso, se anche lui, a cospetto dei genitori, avesse finto di sperare con ogni fibra del suo essere, ma di notte, quando mamma Beatrice si sopiva...è probabile che singhiozzasse il più silenziosamente possibile.
Fu proprio aprile, paradossalmente lo stesso mese in cui nacque, ad essergli fatale. Le sue condizioni si aggravarono e a nulla servirono i rimedi energici usati dal Dott. Valenti.
All'una e mezza della notte tra il 12 e il 13 aprile del 1924, Guido esalò il suo ultimo respiro. Quel 13 aprile era proprio la domenica delle Palme, una domenica che avrebbe dovuto essere all'insegna della pace, preparatoria alla Pasqua. E non oso immaginare quanto possa far male il doppio per una famiglia una simile tragedia in un giorno in cui tutti gli altri festeggiavano (come si usava soprattutto all'epoca).
Prima, che la sua anima lasciasse il corpo, Guido aveva richiamato a sé l'attenzione della madre che lo vegliava con l'amore e la cura indefessa consuete.
"Mamma, dammi un bacio"- furono le sue ultime strazianti parole. Col bacio dell'adorata madre, poté partire serenamente da questo mondo. E qui, nuovamente lo sento: lo stesso grido che ancora il vento fa rimbalzare tra le chiome degli alberi che attorniano la villa. L'urlo inconsolabile di mamma Beatrice che squarcia la notte. Una madre che ebbe bisogno di iniezioni calmanti per sopportare l'ennesima e crudelissima prova che la vita aveva voluto riservarle.
Solo tre giorni prima della fine, fu presumibilmente intuita la vera causa della morte. Valente (badate, non il professorone rinomato ma l'umile e competente medico di paese) ipotizzò che il tutto fosse stato dovuto a uno sforzo compiuto, o un trauma subito. E fu a questo punto che al Colonnello venne in mente un episodio verificatosi circa tre mesi prima che iniziasse la malattia.
Recatosi in collegio a Conversano per vedere i figli, Guido gli riferì che durante l'ora di ginnastica, in una torsione del busto all'indietro (e qui torna quanto riferitomi da Mariangela a proposito dell'esercizio alle parallele) avvertì un doloroso strappo alla schiena. Il dolore però passò subito e né il padre né il ragazzo ci badarono in seguito.
Oggi è perfettamente risaputo che la maggior parte delle lesioni midollari sono dovute a incidenti o a traumi come ad esempio quelli sportivi. Un distaccamento vertebrale (e dipende da quale o quali vertebre siano interessate) può non manifestare sintomi evidenti in un primo momento... ma i guai vengono in seguito.
Posso vedere questa madre gettata su quella bara, nel disperato tentativo di tenere ancora stretto a sé suo figlio, riempiendosi la bocca col suo nome, pur sapendo di non ricevere risposta. Ho anche pensato a come lo avessero detto ai fratelli.
Se Mario infatti era minore di lui di soli tre anni, Ninuccio e in special modo Maria Vittoria, erano decisamente troppo piccoli.
Facile asserire: "Guidino è diventato un Angelo, c'è anche se non lo vediamo", oppure "Il Signore lo ha voluto in Paradiso con sé!" Dei bimbi di quell'età avranno compreso solo che il loro fratellone non c'era più, che non poteva più giocare con loro. Avrebbero constatato che non poteva più calciare una palla, contendendosela con Ninuccio, né sollevare Maria Vittoria in braccio e farle fare "vola vola", o tenerla a "cavalluccio" sulle sue spalle.
Come già fatto per Ninì, Giovanni Gabrielli ha voluto raccogliere nel manoscritto, oltre a due toccanti discorsi funebri (uno dell'Avv. Enrico Gabrieli e l'altro di un certo Francesco De Caro, che pare fosse stato professore di Guido) anche lettere, cartoline e telegrammi giunti alla famiglia. Alcuni contenevano scarne parole di circostanza, di quelle che appunto si scrivono perché si deve farlo, ma da altri di questi scritti, soprattutto dalle lettere, si evincono una partecipazione e una vicinanza autentiche.
Facile dedurre che probabilmente, provenissero da genitori che avessero perso anche loro un figlio o da chi, in qualche modo, fosse stato segnato dalla perdita di un famigliare che amasse. Molti dei compagni di collegio, piansero Guidino come se fosse un loro fratello, e un suo insegnante lo ricordava non solo per l'intelligenza e il profitto, ma anche e soprattutto per l'educazione e la disciplina. Qualcuno faceva riferimento alla Pasqua imminente, a un raggio di sole che avrebbe accarezzato la sua lapide, come fosse una promessa di resurrezione.
Mi colpì in modo particolare che in molte cartoline e lettere, fosse ricorrente il riferimento agli occhi grandi ed espressivi di Guido, oltre che al suo sorriso dolce e intelligente. Riguardai la foto che mi fu inviata dalla Dott.ssa Dell'Edera: non c'era accenno di sorriso perché all'epoca, in foto bisognava essere seri e composti, ma quegli occhi... accidenti se erano penetranti.
Dopo un secolo, e attraverso una foto sbiadita, sembravano puntati direttamente in quelli di chi stesse in quel momento guardando quel ritratto fotografico. Sembravano scrutare dentro. Quello che però vi racconterò ora vi farà a dir poco venire la pelle d'oca e le lacrime. Una decina di giorni dopo la morte di Guido, Mario Gabrielli si recò in Rutigliano per prendere alcuni libri appartenuti al fratello, di tre anni maggiore, e che a lui dovevano evidentemente servire per gli studi. In uno di essi, trovò una busta chiusa, recante la scritta: "Da aprirsi dopo la mia morte".
Scriveva infatti Guido il 24 giugno del 1922, alle ore 18:30:
"Attraverso un momento cattivo: studiando del latino mi è venuto il presentimento che quest'anno, dopo essere stato promosso in tutte le materie, dovrò morire. Morirò a Rutigliano, nella camera da letto grande appresso a quella della mamma. Ma cosa devo fare per morire allegro? Non voglio morire piangendo, morirò quindi allegramente; speriamo perciò che fino all'ultimo momento, Dio mi dia lucidità di mente. Prima di morire, bacerò la mano alla Mamma e al Babbo, e poi darò ordine che tutti quelli che mi verranno a salutare già morto, bacino loro a me la mano. Ma perché devo morire così giovane? Sono stato, a dire il vero, molto cattivo; i miei genitori, quindi, se dapprima mi piangeranno, poi.... Quando sarò morto, se vado in paradiso, manderò un sogno al Babbo per dargli una quintina da giocare.
Basta: saluti, baci"-
Guido Gabrielli.
Rispondeva il Gabrielli al figlio ormai morto:
"Tu non sei stato mai cattivo, figlio mio, e ti piangiamo e ti piangeremo sempre, e ti ricorderemo come la nostra più cara gioia perduta. Se il Paradiso veramente esiste, tu colà stai: ti aspetto in un sogno".
Cosa avesse portato Guido a nutrire questo presentimento mentre era intento a studiare latino, non potrà dirmelo nessuno, ormai.
Che fosse stato in qualche modo segnato dall'influenza Spagnola contratta? Che l'avesse segnato la scomparsa di qualche suo compagno o compagna di collegio a causa delle patologie all'epoca diffusissime che colpivano soprattutto i giovanissimi? Forse, in un certo senso, le anime più sensibili sono in grado di percepire in anticipo l'accadimento di determinati eventi...compresa la loro morte.
Certo, che un ragazzo di quell'età prepari una lettera che dovrà essere aperta solo dopo la sua morte e predisponga il tutto nei minimi dettagli, non può lasciare indifferenti.
E a quel punto della lettura, ho seriamente rischiato di macchiare il manoscritto anche con le mie lacrime, fondendole con quelle di papà Giovanni, anche se in un'epoca completamente diversa. D'accordo, la fine sarebbe arrivata non nel 1922, ma due anni dopo, però a me fa ugualmente rabbrividire. Soprattutto per il candore con cui Guidino si chiedeva perché dovesse morire così giovane, e cosa dovesse fare per morire allegramente, e non piangendo.
Probabilmente intendeva anche il lasciare con spirito sereno i suoi cari, il "morire non facendo piangere, più che il non morire piangendo". Eh, Guidino mio, cosa impossibile morire non lasciando nel dolore più atroce chi ci ama, ma forse si può morire, se non allegramente, almeno serenamente. E credo che in questo tu sia riuscito. Mi intenerisce anche il pensiero di mandare, dal Paradiso, un sogno al tuo Babbo con i numeri di una cinquina vincente, quasi a volerlo ricompensare di tutti i sacrifici fatti per te.
Ho avuto modo di sentire, qualche tempo fa, l'Avvocato Flora De Caro (a molti questo cognome dirà sicuramente qualcosa, perché nell'ambito nocese Don Ciccio De Caro era un'istituzione). E la famiglia De Caro, imparentata con i Gabrielli, ha potuto ritrovare anche una grande parte di sé nella storia di Guidino. Da Flora, persona simpaticissima e appassionata ricercatrice e custode di tutto ciò che riguardi le proprie radici, ho appreso che l'autore del discorso funebre tenuto in memoria di Guido fosse proprio suo Nonno Francesco Paolo. Nato nel novembre del 1901, era quasi coetaneo del protagonista delle mie ricerche e la cosa più curiosa, è che sia stato anche suo compagno di collegio. Io e la Dott.ssa De Caro ci siamo arrivate assieme nell'esaminare il manoscritto quando è stato poi reso alla famiglia. I due giovani erano legati non solo dalla comune esperienza del Convitto, ma anche da un'amicizia fraterna, sincera e profonda. Del resto, nessuno che non avesse con la persona venuta a mancare un legame veramente forte avrebbe potuto scrivere parole tanto profonde. Parole che sono in grado di riuscire a farvi leggere integralmente, dacchè solo mentre questo mio lavoro era ancora in fase di stesura, la persona che custodiva il manoscritto ha deciso di palesarsi e darmi la possibilità di leggerlo con calma, previa consegna dell'originale. Francesco Paolo De Caro sognava di diventare giornalista da ragazzo, ma il regime fascista spezzò le ali a questo sogno. Questo mi ha permesso di fare una riflessione molto dolorosa: quando in un paese muore la libera informazione, quando si deve passare al veglio di una censura che deve distorcere o addirittura cestinare quello che è vero solo per non far comodo, allora si può considerare morto anche lo stesso paese, triturato dalle tenaglie della dittatura.
Non sottovalutiamo la possibilità di poter fare e ricevere libera informazione, di poter esprimere il nostro pensiero. Il peggio che potrebbe capitarci, sarebbe l'incontrare chi dovesse dissentire, chi non condividesse le nostre idee. Resta il fatto che mai e sottolineo MAI qualcuno dovrebbe imbavagliare ancora la nostra bocca o la nostra penna.
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