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Juliette passava per le strade parigine accaldate dal sole del mezzogiorno. Si sentiva aleggiare l'odore di geranei, profumi e biscotti. Le case, ammassate le une alle altre, venivano lasciate a loro stesse da donne dall'abito stretto e setoso, che, come oche, parlano di fatti privi di intelligenza. I fiori dei loro cappelli splendevano nell'etere, illuminandosi ancor di più attraverso i raggi del sole, i quali, come bacchette accarezzavano i petali finti di ciascuna pianta posata sul copricapo.
La ragazza guardò disgustata quelle anime. Idiote. Pensavano solo a bere il tè, a ridere e a piagnucolare per motivi stupidi. Non capivano che la vita non era satura di luce? Non capivano che il buio divorava ogni cosa? Oh, lei apparteneva al buio. Nei meandri di una casa abbandonata, passava il tempo a scrivere poesie intrise di iniquità assieme ad altri ragazzi. I suoi versi gridavano ribellione, morte e rabbia. Ogni metafora, ogni rima, ogni endecasillaba narrava della sua voglia di sparire e di trasformare il mondo in una polvere di cenere.
Era una poetessa maledetta.
Come Baudelaire.
Come Arthur Rimbaud.
Come Paul Verlaine.
Da giovane, avendo ammirato i loro versi, sognava di essere come loro. Voleva bagnarsi le labbra dell'assenzio, lasciare che quel liquido entrasse in lei e la lasciasse urlare. Avrebbe voluto sempre avere una raccolta di versi che parlava del lato oscuro della vita. Oh sì, avrebbe voluto tutto questo! Invece di venire educata a ricamare pecore e a stare seduta su un divano come una sfinge, poteva andarsene per il mondo con la propria amante e parlare di cose che potevano essere reinventate. Come l'amore, il desiderio e i sogni. A volte si chiedeva perchè fosse nata in un orfanotrofio, in una casa piena di bambini urlanti e suore imbecilli. Ma era il suo destino. Il fato si prendeva e si sarebbe preso gioco di lei per il resto della sua vita.
Con questi pensieri nella sua testa, Julienne si fermò ad un bar. Il piccolo, insulso edificio aveva un'insegna nera , decorata da qualche scritta eccessivamente accurata. Le tendine verdi dondolavano nella brezza, emanando un canto impercettibile. Dalle vetrine si vedevano liquori dai liquidi vitrei, dolci fuori moda e cioccolatini con ricamati sulla superficie l'iniziale del bar. Tavolini e sedie erano sparsi disadorne su tutta la strada. La ragazza si sedette il più lontano possibile, attenta a non farsi scoprire dalle altre dame, le quali nell'individuarla cominciarono a ridere assieme ai loro amanti e a indicarla.
Svergognata.
Sgualdrina.
Feccia.
Quelle parole erano così perfide e vere. Strisciavano nei mattoni della strada, si arrampicavano sulle gambe del tavolo e si insinuavano lentamente nelle orecchie di Juliette. La ragazza cercava di non ascoltare il perfido ronzio contenente quelle parole così crudeli, ma non ci riusciva. Aveva capito, col tempo, che quelle parole erano vere. Ferivano come una spada e succhiavano l'autostima e il coraggio di qualsiasi donna che avrebbe intrapreso la sua strada. Ma era diversa. Non ci aveva mai fatto caso a quelle offese e, nonostante dividevano in piccoli frammenti la sua anima, non avrebbe pianto. No.
Mentre aspettava l'arrivo del cameriere, una ragazza androgina e dai capelli corti sempre spettinati, le corse incontro. Portava una camicia da uomo, dei calzoni scuri e degli stivali impolverati. La zazzera di capelli neri incorniciava il viso da contadina e i denti cerulei.
-Ehi Juliette! Sei tu?- chiese la ragazza. La poetessa si alzò dal posto e le venne incontro. Sul volto esangue comparve un sorriso malinconico.
-Certo, mia dolce Vivianne! Che piacere vederti!- rispose, prima di darle un bacio sulla guancia. Le due ragazze erano amanti fin dall'adolescenza. Sebbene fosse ignorante e incline alla violenza, Vivianne cercava sempre di proteggere Juliette dalla violenza del mondo, sebbene i versi di quest'ultima ferissero più di un pugno. A volte doveva riconoscerlo. La penna uccideva più del bastone. Nessuno sapeva del loro rapporto, neanche i genitori delle ragazze e questo era un bene. Non era l'epoca giusta per alzare il capo e far riecheggiare nella brezza la frase:"Sono lesbica!"
Le due giovani si sedettero, l'una di fronte all'altra, e strinsero le loro mani. Quelle di Vivianne erano callose e bruciate dal sole. Quelle di Juliette erano delicate e frigide.
-Stai per andare nel covo?- chiese la fidanzata, prima di scoprire i denti perlacei. La scrittrice parnassiana annuì. Il covo era la tana di qualsiasi decadentista pronto a farsi trascinare nel vortice del peccato. Un posto dove si poteva dormire fino a tardi, ubriacarsi tutti i giorni e fidanzarsi con un uomo o con una donna. Era l'oratorio maledetto. Il nido della libertà.
-Lo sai che Arthur Rimbaud verrà qui?- insinuò Vivianne, prima di chiedere al cameriere baffuto un bicchiere di brandy. Lui? Arthur Rimbaud? Colui che aveva annebbiato i suoi sensi di donna per la poesia? Juliette scosse la testa, incredula. I capelli scompigliati frustavano il suo viso diafano.
-Come l'hai saputo?- mormorò Juliette, deformando un sopracciglio.
-Me lo ha detto un'amica.- disse l'amante.
-E perchè viene al covo?- chiese la letteraria, prima di addentare un saccottino al cioccolato. Vivianne si strinse nelle spalle, per simboleggiare la sua ignoranza.
-Non importa. Devo andare.- replicò Juliette, prima di baciare sulla fronte la fidanzata.
La giovane correva a perdifiato, scontrandosi a volte con qualche nobile in frac o con qualche bambinaia obesa. Non poteva crederci! Arthur Rimbaud veniva al covo?! Aveva sempre sognato quel momento. Aveva sempre voluto vedere i capelli dorati, gli occhi azzurri e la lingua velenosa di quell'autore così geniale! E come se non bastasse aveva sedici anni come lei! Forse sarebbero diventati amici, avrebbero scritto versi insieme e tutti li avrebbero chiamati "I poeti ragazzi". Lei stessa aveva una chioma cinerea e indomita, la quale si gonfiava ad ogni soffio di vento. Gli occhi chiari erano identici, azzurri e pieni di vita. Aveva sempre pensato che lei e Rambaud fossero fratelli gemelli. Erano come due angeli, ma col cuore infuocato. I minuti passarono e la ragazza raggiunse il covo. Era un palazzo austero, dalle facciate alte e gravi. Le finestre erano rotte, spaccate dalla crudeltà del tempo. Nessun arbusto, nessun fiore osava crescere davanti a quel maniero. Forse a causa della presenza di quei poeti dannati ogni lucentezza, ogni ingenuità racchiusa in quella dimora si era spenta, trasformando così quella casa in un circolo oscuro. Con il cuore sempre più rumoroso, la ragazza entrò nella casa e urla, voci che declamavano versi la investirono come una tempesta di vento. Davanti a lei si estendeva un lungo tavolo coperto ai lati da ragazzi e uomini di tutte le età. I volti massicci erano sempre gli stessi, soltanto l'età che vagava tra i quindici e i sessanta anni. La ragazza strinse al petto i fogli macchiati d'inchiostro e si sedette in disparte, per guardarsi intorno. Le pareti di mattoni erano illuminate da fiaccole dalla luce debole, le quali facevano risplendere volti disegnati in quadri antichi. Sebbene fosse stata nel covo per un anno, Juliette sentiva di varcare quella soglia per la prima volta. Non ne sapeva il motivo. Quelle tenebre strisciavano nel cervello troppo grande e e venivano cancellate dalla luce del sole e della convenienza.
Con questi pensieri, Juliette stava correggendo una sua poesia, quando arrivò un ragazzo dai capelli chiari e di bassa statura. Gli occhi azzurri erano schiariti da una fiamma segreta, la quale si rivelava in momenti propizi. Portava una giubba bianca, coperta da una giacca nera. I calzoni erano impolverati, quanto gli scarpini.
Il giovane si incamminò per tutta la sala per poi chiedere aspramente:-Per l'amor di Dio, c'è un posto qui?- . Tutti i presenti si voltarono e si affrettarono a trovare una sedia per lo sconosciuto. La ragazza, guardandolo, si chiedeva chi fosse.
-Monsieur Rimbaud, può sedersi vicino a mademoiselle Mullier.- disse una voce d'uomo, la quale doveva appartenere al monsieur Verlaine. Juliette sussultò. Arthur Rimbaud era qui?! Proprio qui?! Cercò di calmare il respiro agitato e il cuore inquieto, per darsi un contegno più discreto possibile. La ragazza rimase immobile, mentre Arthur si sedette vicino a lei. Il sorriso malizioso dell'altro si posava su tutti gli altri poeti parnassiani presenti, come se fosse pronto ad insultarli o a prendersi gioco di loro. Ma la poveretta si accorse che il poeta non le rivolgeva nessuna occhiata, nessuno sguardo. La stava ignorando. Juliette cercò di dominare il suo dolore, a stento.
-Monsieur Rimbaud, chi potrebbe iniziare a leggere una sua poesia?- domandò nuovamente il signor Verlaine, con il capo calvo che risplendeva nelle tenebre.
-Inizia te.- disse il ragazzo, sorridendo. L'uomo si alzò dal suo posto, per declamare una sua poesia sui gigolò. Ci furono degli applausi entusiasti, quasi urlati. Poi, vari uomini, cominciarono a leggere le loro opere. Lentamente. Fin troppo. Dopo due ore, chiuse gli occhi, desiderando con tutta se stessa di venire chiamata, di essere guardata e ascoltata. Voleva alzarsi dalla sua sedia e leggere le sue poesie. Ma non successe nulla. Arthur si complimentò con tutti gli altri poeti, dimenticandosi di lei. Come se la considerasse invisibile. Verso sera, il covo si svuotò, rendendolo vuoto. Juliette si alzò lentamente, a stento, per incamminarsi verso la toilette. Era stanca. Ed era stata una giornata orribile. Non perchè non fosse stata chiamata a leggere i suoi versi, ma perchè Rimbaud non si era degnato di nominarla, di lanciare i suoi occhi azzurri sulla sua persona. Forse era un segnale. Forse non era mai stata adatta a quel mondo oscuro. Aveva giocato a fare la poetessa maledetta, soltanto per sfuggire alla noia e alla solitudine. Pensava di avere qualcuno che la ascoltasse e che fosse gentile con lei, come Vivianne. Ma invece era tutto diverso. Non poteva nè appartenere alla società nè alla feccia. Allora chi era? Cos'era? Se non lo sapeva, era meglio che si uccidesse.
Juliette entrò nel bagno. Aveva pareti scrostate. Ogni mattoncino era caduto e aveva lasciato spazio a lavandini lerci e ad un pavimento consunto. Più in là, vide una sedia e una corda. Come guidata da una forza misteriosa, la ragazza si avvicinò ad essa e la prese delicatamente, per appenderla al soffitto. Che stai facendo, sciocca? Scendi dalla sedia! Scendi! No, non poteva scendere. Doveva sparire. Si guardò intorno, attenta a non farsi vedere da nessuno. Pensa a Vivianne! Come si sentirebbe alla notizia della tua morte? Che importava! Tanto avrebbe trovato un'altra amante. La ragazza prese il cappio, per avvolgerlo attorno al collo, come una collana.
Durò un secondo.
La sedia venne scagliata su una parete. Gli occhi divennero vitrei, così come i sogni.
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