¹⁷. 𝘓𝘦 𝘧𝘪𝘢𝘮𝘮𝘦

L'odore del fumo si era fatto insopportabile. La strada verso casa sembrava un inferno di torce accese: auto che bruciavano consumandosi nella notte. Lui correva a piedi nudi, e non sentiva più i vetri infranti che gli si conficcavano nella carne, penetrando più a fondo a ogni passo.

Correndo accanto a una vetrina, scorse di sfuggita la propria immagine: aveva i capelli castani e ricci legati in un piccolo codino, incrostato di sangue. I suoi vestiti erano luridi e aveva le braccia coperte di graffi, che si era fatto sgusciando attraverso i rovi del parco cittadino. Si era rifugiato lì dopo aver guadato il fiume, per sfuggire ai rivoltosi.

Osservandosi nel vetro, il lampo spaventato che vide nei suoi occhi grigi lo immobilizzò per un attimo, ma non poteva permettersi di fermarsi. Le auto in fiamme lo guidavano verso casa sua, la villa a due piani dove sperava di trovare sua sorella, la sua ragazza e i suoi genitori al sicuro.

Non vedeva nessun membro della sua famiglia da dieci ore. Amélie quella mattina sarebbe dovuta andare a prendere Nadine alla scuola di danza. Sapeva che i suoi genitori erano entrambi al lavoro, nella zona B. Lui invece aveva deciso di andare a farsi "curare" a uno dei padiglioni itineranti. Era da circa un'ora in fila presso un hub della zona A, con altre centinaia di persone giunte a compiere il proprio "dovere".

Chi non riusciva più a sopportare le discriminazioni contro i "procreatori", ai quali si era già iniziato a vietare l'accesso ad alcuni luoghi e ad alcune cariche, aveva deciso di farsi sterilizzare. Non che avessero qualcosa da perdere: il pianeta era quello che era, e mettervi al mondo dei figli non allettava più nessuno. Inoltre, da tempo la Chiesa del Giudizio attuava una pressante propaganda contro la mancanza di risorse e l'"egoismo" dei procreatori, usandoli come capri espiatori per la situazione mondiale.

Osservando la mole di persone che si erano presentate al padiglione, lui aveva detto ironicamente al suo vicino di fila che a quel punto la Chiesa avrebbe potuto anche renderla obbligatoria, la sterilizzazione. E poi era arrivato. Un semplice comunicato vocale tramite interfono.

"Attenzione. La Chiesa del Giudizio, con il patrocinio del suo beneamato Presidente Karl Abramizde, dichiara che le procedure per la cura della fertilità umana sono da oggi obbligatorie. Si prega la gentile popolazione di Malthesia di collaborare".

Era tutto lì, non una parola di più. Quello che dapprima era stato un processo su base volontaria da parte degli adepti, era improvvisamente diventato un dovere. Un provvedimento che aveva tutta l'aria di essere un colpo di stato. Lui aveva visto le persone in fila storcere il naso, poi alzare la voce, poi provare ad allontanarsi. Le stesse persone che sino a un momento prima erano completamente convinte di voler compiere quel passo, adesso, per il solo motivo che gli veniva imposto, sembrava avessero iniziato a pentirsene.

Quelli che si erano allontanati erano stati insultati nei modi più disparati: "folli", "bestie da riproduzione", "egoisti bastardi". Qualcuno aveva iniziato ad alzare le mani. La situazione era precipitata di colpo quando la strada delle prime persone che avevano cercato di abbandonare l'area era stata sbarrata da un muro di Caschi Rossi, il neonato corpo dei Sorveglianti. In seguito avrebbe sentito dire che i fucili erano carichi solo di siero per la sterilizzazione, ma lui aveva visto lo stesso molte persone cadere per terra in una pozza di sangue.

Erano le nove di mattina. Da quel momento aveva iniziato a correre, e non si era più fermato.

Quasi vent'anni più tardi, quella giornata sarebbe stata nota al mondo come "Giorno dell'Espiazione". Eppure, mentre la stava vivendo, la coscienza di ciò che stava accadendo lo raggiungeva solo a tratti. Aveva dei pensieri fissi che lo trafiggevano come chiodi. Nomi che continuava a ripetersi, destreggiandosi tra i cocci. Nadine, mamma, papà, Amélie. Nadine, mamma, papà, Amélie. Quel mantra non lo aiutava poi molto, ma non riusciva a disfarsene.

Arrivò di fronte alla propria casa senza neanche accorgersene, tanto che la saltò e finì a quella a fianco. Il vialetto alberato si era ridotto a una serie di tizzoni ardenti, che si rivolgevano verso il cielo come guglie di fuoco. Una sirena suonava in lontananza, spezzando la notte col proprio stridio acuto.

Sua madre era riversa per terra davanti alle scale di casa, il volto pietrificato in un urlo muto, mentre un pezzo di metallo arrugginito le fuoriusciva dalla gamba, curvandosi con essa in una posizione innaturale. I suoi occhi fissi ci misero qualche secondo a riconoscerlo, con quel codino bruciacchiato, i piedi nudi e i vestiti a brandelli.

– Florian! – urlò verso di lui. Ripeté il suo nome più volte, come se glielo stesse dando per la prima volta.

Lui le si avvicinò di corsa, quasi inciampando sui ciottoli del vialetto, e la sollevò di peso con una forza che non credeva di possedere. Aveva vent'anni, ma non aveva mai rinforzato il proprio fisico chissà quanto.

La donna agitò le braccia per scacciarselo di dosso, incapace di parlare. Respirava irregolarmente, e il suo fiato gli arrivava interrotto a tratti da un attacco di panico. Le sue mani scivolavano sul sangue che lui aveva sulle braccia, mentre cercava di sospingerlo verso la direzione opposta. Prendendo un respiro un po' più profondo riuscì a parlare, con la gola occlusa dalle lacrime.

– La mia bambina! – disse semplicemente.

Florian si voltò. La prima cosa che vide fu il borsone della scuola di danza gettato sul marciapiede, a trenta metri da loro. Poi vide l'auto di Amélie con il muso accartocciato su sé stesso, schiacciato su un albero. Le gomme avevano dipinto delle strisce nere sull'asfalto, per via della frenata brusca. Il fumo riempiva l'abitacolo, ma le ombre di due corpi accasciati sui sedili erano chiaramente visibili.

Florian a un tratto capì. Corse, e corse, arrivando all'auto un istante prima che i vetri esplodessero, e un pezzo di essi si conficcasse esattamente nella parte morbida del suo ginocchio, impedendogli di poter essere impiegato in un lavoro fisico per i successivi anni a venire. Cadde a terra per via dell'urto, e un attimo dopo si mise a pancia in giù, ignorando il dolore lancinante. Strisciò verso l'abitacolo, mentre le fiamme iniziavano a scorrere sugli sportelli e a danzare verso l'alto, sinuose. Sentì la propria carne bruciare, e la mano che aveva toccato l'acciaio dell'auto riempirsi di bolle.

Si sentì urlare, mentre le braccia forti di suo padre, spuntato dal nulla, lo strinsero da sotto le spalle per portarlo via da lì. Un'ultima fiammata gli lambì il volto, chiudendogli gli occhi.

***

Florian si svegliò urlando. Non ricordava assolutamente nulla di ciò che era successo in seguito allo sparo nel padiglione. Le immagini dell'auto in fiamme gli si erano stampate sul retro delle palpebre, immagini che negli ultimi diciassette anni gli erano balenate in testa ogni qualvolta avesse vissuto una situazione che non riusciva a razionalizzare.

Evidentemente doveva aver corso fuori dalla sala, perché in quel momento si trovava accasciato sull'erbetta sintetica di uno dei prati che intervallavano i padiglioni per le Conclusioni, discendendo a valle da Marwoleth.

In lontananza si sentiva una sirena, e per un momento ebbe l'impressione di essere ripiombato nell'orribile sogno. Controllò il ginocchio, ma sembrava essere tutto a posto. Vide che le sue mani erano graffiate e stillavano sottili righe di sangue; le premette l'una sull'altra, assaporando quel flebile dolore con indifferenza. Florian sentì qualcuno tossire, e alzò la testa di scatto.

Di fronte a lui stava una figura femminile dai contorni indefiniti, circondata da un'aura quasi celestiale. Nadine? Ian ebbe un tuffo al cuore, e tastò il terreno accanto a sé cercando i propri occhiali, che per fortuna trovò miracolosamente intatti. Li inforcò e mise meglio a fuoco.

La persona che aveva scambiato per sua sorella era la donna che aveva visto fumare all'interno della sala. Florian sospirò, sollevato dal non dover affrontare una delle sue solite visioni.

La donna si era accovacciata sulle ginocchia e lo fissava da poca distanza, sorridendo beffarda. Gli orli del suo jeans arrotolato si erano sporcati di fango, e i suoi capelli sembravano ancora più spettinati di prima. Con la mano si tastò l'interno della tasca del jeans, tirandone fuori un pacchetto di stecche Joy. Ne sfilò una e se la accese con disinvoltura. I suoi occhi si fecero immediatamente lucidi, a causa dell'allergia.

– Ne vuoi una? – gli chiese, con la sua voce rauca.

Florian si sentiva ancora intontito; doveva aver sbattuto la testa con la caduta. Gli occhi della donna continuavano a fissarlo con una luce divertita in fondo a essi.

Non si fidava affatto di lei, ma aveva bisogno di comprendere cosa stesse succedendo. L'area sembrava deserta, e non c'erano tracce di persone in fuga. Ian scrollò un po' di terra dai suoi pantaloni e decise di farle la domanda che lo stava pressando sin dalla cerimonia.

– Sei una Sorvegliante? – gli uscì bruscamente.

La donna fece una risata sommessa, continuando a stare accovacciata.

– Credi che se lo fossi te lo direi? – gli chiese, ridacchiando.

Lui si sentì improvvisamente sciocco; la testa continuava a pulsargli, impedendogli di ragionare.

La vide estrarre la placchetta di metallo che riportava la sua ID. Florian lesse il nome della donna, che si chiamava Dianne. Il suo cognome era Smith, cosa molto comune per chi cresceva senza una vera famiglia, ed era nata nel 2055, un paio di anni dopo di lui.

A un tratto, fu colpito da un dettaglio: la piccola "A" che segnalava l'Attenzionamento da parte del Regime. Alzò gli occhi su di lei, osservandola meglio. Dianne sollevò un sopracciglio e si riprese in fretta l'ID, strappandoglielo dalle mani. Si rimise in piedi, continuando a fumare.

– Sei Attenzionata – disse Florian, facendo più un'affermazione che una domanda.

– Già. Anche tu – rispose lei. Ian controllò di avere la propria ID ancora in tasca e la trovò in fretta, anche se il metallo era leggermente ammaccato in un angolo.

– Hai frugato tra le mie cose? – le chiese, incredulo.

– In realtà avrei anche potuto derubarti, usando l'impronta del tuo pollice da imbecille svenuto. Ma sono una brava persona – disse, facendo un breve inchino.

Florian la guardò perplesso. – Non hai il mio codice. –

Ma lei sembrava già aver perso interesse in lui. Rivolse lo sguardo a valle, seguendo il suono delle sirene. Ian si girò a sua volta, notando delle sottili strisce di fumo sollevarsi in lontananza. Non di nuovo. Sentì l'emicrania colpirlo come un punteruolo appuntito, e si portò una mano alla testa. Le immagini dei ricordi che aveva sognato continuavano a balenargli in testa come un crudele slide show. Dianne notò il suo movimento, e si accovacciò nuovamente accanto a lui.

– Allora, cos'hai? PTSD, disturbi dell'alimentazione, bipolarismo? – gli chiese. Teneva la stecca Joy dritta davanti a sé, lasciando che la cenere cadesse sull'erba sintetica. Lui si ritrasse da quella vicinanza, gettando le mani all'indietro.

Questa qui è fuori di testa, si disse. Snocciola i nomi delle Malattie Mentali come se non fosse illegale parlarne.

– Non credo siano affari tuoi – le rispose, cercando di apparire risentito. Non si fidava per nulla, ma ancora di più non riusciva a comprendere il motivo di tutta quella confidenza.

– Sai che anche solo nominando le Malattie Mentali potresti essere denunciata e costretta a fare una Riforma Avanzata. Perché ti fidi di me? –

La donna inalò un po' di fumo e lo guardò dritto negli occhi, abbandonando la propria espressione di scherno.

– Semplice istinto. –

Florian continuò a fissarla, dubbioso. – Non basta – le rispose. – Non in una situazione come questa. Non in una società come questa. –

Dianne gli rivolse un'occhiata carica di interesse, come se lo stesse vedendo davvero per la prima volta. Spostò nuovamente lo sguardo verso la città, sbuffando ogni tanto del fumo dal naso.

– Mi fido di te perché tu sei come me. E non parlo solo dell'Attenzionamento. Prima sei stato l'unico a guardarti attorno quando sono comparse le immagini della spiaggia inquinata. Gli altri potranno anche averlo notato, ma hanno comunque fatto finta di nulla. Tutta quella benevolenza che ci viene richiesta, quel chiudere gli occhi di fronte all'evidenza. Conosco persone che ci sguazzano, in questa maniera di vita. Ma vivere e lasciarsi esistere sono due cose diverse. –

Lui ammutolì. Erano decenni che non sentiva parlare qualcuno in quel modo, con così tanto astio e sincerità. A un tratto, la donna chiamata Dianne gli sembrò terribilmente simile a lui, e ne fu turbato. La sua ultima frase iniziò a rimbombargli in testa come un'eco continua: vivere e lasciarsi esistere sono due cose diverse.

Dianne si alzò in piedi e gli porse una stecca Joy, prendendola dal suo pacchetto. Florian si sollevò a sua volta, superandola con la propria altezza. Si passò una mano sulle cicatrici del viso, incontrando la loro solita resistenza al tatto. Poi, senza dire nulla, le sfilò la sigaretta dalle dita sottili e l'accese col proprio accendino.

Con la coda dell'occhio vide che lei gli stava sorridendo, non avrebbe saputo dire se con sincerità o ironia. Rimasero a fumare in silenzio, mentre di fronte a loro, a valle, Malthesia stava bruciando.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top