⁷³. 𝘍𝘪𝘳𝘮𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰

Dianne se ne stava come al solito rannicchiata sul davanzale della finestra, a osservare. Non conosceva l'esatta ubicazione dell'ospedale psichiatrico, ma a giudicare dal numero di stelle visibili quella sera, doveva essere in aperta campagna. L'inquinamento luminoso si riduceva agli sparuti lampioni che rischiaravano il cortile, creando ombre sinistre con le sagome degli alberi che lo punteggiavano.

Le stelle non sembravano altro che dei chiodi piantati su un drappo nero, un cielo fittizio messo lì da qualche dio malvagio. Dianne ricordò di aver immaginato qualcosa del genere, quando era piccola. Che il cielo fosse la scenografia di un teatro, un ologramma ben piazzato a riempire il soffitto di Malthesia. Adorava meravigliare suo fratello Joseph con storielle assurde come quella, non di rado finendo per rabbuiarlo.

Dal palazzo nel quale abitavano da bambini, pieno zeppo di orfani come loro, non riuscivano a vedere altro che ulteriori grattacieli, altrettanto pieni di orfani. Nel loro avevano dato quasi a tutti il cognome "Smith", compresi lei e Joe. Tuttavia, almeno nel loro caso, essendo gemelli il legame di sangue era più che palese. Gli altri bambini invidiavano quel loro barlume di "famiglia", che li riscaldava l'un l'altra. Un'invidia che si era presto tramutata in odio.

Da adolescenti, il sistematico ostracismo messo in piedi dagli altri ragazzi aveva rafforzato e inviperito Dianne, ma aveva reso Joseph fragile come un bicchiere di cristallo. Mentre lei si chiedeva perché mai avrebbe dovuto passare del tempo con quelle persone, lui si domandava perché mai quelle persone non volessero passare del tempo con lui. Quando Joe era caduto nel vortice della depressione e poi dell'anoressia, Dianne aveva provato di tutto e di più per curarlo, compreso tentare la fuga dall'orfanotrofio.

Non erano riusciti a spingersi molto lontano, essendo dei quindicenni senza alcun soldo da parte. Avevano cambiato una mezza dozzina di semi-sospesi urbani, sino a raggiungere la zona costiera della capitale. Lì avevano dormito in un casolare abbandonato a ridosso del mare, uno specchio plumbeo costellato da guglie acuminate, che aveva infine riconosciuto come i palazzi sommersi dall'innalzamento delle acque.

Era stata quella la prima volta in cui Dianne aveva visto davvero le stelle. A notte inoltrata, si era imposta di fare un turno di guardia fuori dal rifugio, lasciando Joseph a riposare. La luce di quelle migliaia di astri, invisibili in città, l'aveva quasi accecata. Erano tante, troppe, e si accavallavano scalpicciando l'una contro l'altra senza ritegno. Credere che quello potesse essere lo stesso cielo sotto il quale aveva vissuto e mangiato e dormito per una vita le era risultato assolutamente impossibile.

Quando aveva svegliato Joe per mostrargli quello spettacolo, era rimasta alquanto delusa dalla sua reazione. Il suo gemello aveva alzato il naso all'insù con svogliatezza, per poi tornarsene a dormire, rannicchiando quel suo corpo scheletrico stremato dalla giornata di viaggio. In quel momento, Dianne aveva compreso che la gabbia dalla quale avrebbe dovuto liberare suo fratello non era all'esterno, ma all'interno di lui. Una prigione che aveva finito per allargarsi anche verso di lei, intrappolandola nella colpevolezza.

Con quei ricordi ad annebbiarle la mente, tornò a fissare l'interno della stanza, stringendo gli occhi. Un suono attirò il suo sguardo come una calamita: il respiro sommesso di Nicholas, che continuava a rigirarsi sul proprio materasso spoglio.

– Niente da fare, stasera il sonno non arriva – annunciò sconfortato, arrotolandosi le coperte attorno alle caviglie. – Che ore sono?

Lei alzò gli occhi al cielo, indicandosi il polso. – Vedi un orologio?

– Mi scuso – disse lui, sollevando le mani in un gesto di resa. – Guardi le stelle ogni sera, credevo le usassi per capire l'orario.

– Non sono una LaBo – rispose, sbuffando. – È solo che in città non si vedono per niente.

Una vecchia frase le pugnalò la memoria, inaspettata: "le cose inutili possono comunque essere belle. Hanno semplicemente un altro scopo". Si passò una mano sul volto, cercando di cancellare materialmente quella malinconia. Con la coda dell'occhio vide Nicholas accostarsi alla finestra, poggiando una mano sul davanzale sbeccato.

– Posso farti una domanda?

Dianne sbuffò. – L'hai appena fatta.

– A-ha – disse lui, distendendo le rughe in un sorriso sarcastico. Senza lasciarle il tempo di ribattere, continuò a parlare, mutando espressione. – Le stelle. Le guardi perché ti ricordano lui?

Lei stette in silenzio, lasciandosi ferire da quelle parole. Non chiese di chi l'uomo stesse parlando: sapevano entrambi che si riferiva a Florian. Una settimana prima, quando Nicholas era stato mandato in isolamento assieme a lei, all'uomo erano bastate poche informazioni, come il suo nome e il suo mestiere di operaia, per identificarla con la stessa donna che uno dei suoi pazienti stava frequentando. E così avevano trovato in Florian un ulteriore anello che li legava, oltre a quello della loro insensata prigionia.

Dianne sbuffò, evitando il suo sguardo. – Lasciami in pace, Nicholas. È tardi per queste stronzate.

L'anziano premette il naso sul vetro, scrutando il firmamento a propria volta. – Invece la notte è uno dei momenti migliori per parlare. In fondo, mi pare che sia stata proprio quella conversazione notturna in biblioteca a farti interessare al tuo pianista.

Nicholas calcò un leggero tono canzonatorio sull'ultima parola, che lei gli aveva raccontato essere il soprannome dato a Florian dalla sua psicologa. Lo vide portarsi una mano alla fronte, nella grottesca imitazione di un saluto militare.

– Niente "stronzate" – le disse, serio. – Te lo prometto.

Lei lo fissò imbronciata. Dannata volpe. Tuttavia, non poté far altro che dargli ragione. Da che ricordasse, di notte riusciva a esternare cose che di rado sarebbe riuscita a esprimere di giorno. Inoltre, una parte di lei fu addirittura felice della sua insistenza: sapeva che se non avesse vomitato quei pensieri, presto l'avrebbero sfregiata dall'interno.

– E va bene. Ma solo perché neanch'io riesco a dormire.

Nicholas rimase col volto accostato alla finestra, sorridendo di sbieco. Dianne lo guardò in tralice un'ultima volta, prima di proseguire.

– Le stelle non mi ricordano solo lui, ma anche mio fratello. Si chiamava Joe – disse, tutto d'un fiato. – Pensandoci, è ironico. Ian avrebbe dato qualsiasi cosa per poterle guardare senza star male, e mio fratello poteva osservarle ogni volta che voleva, ma non gli interessavano.

Nicholas fece svolazzare una mano, sospirando. – Le opportunità e le aspirazioni non sempre si equivalgono. – rispose. Dianne pensò che stesse valutando di farle anche una qualche domanda sul suo gemello, che tuttavia non arrivò. Di questo, gliene fu silenziosamente grata.

– Quindi sapevi della sua apeirofobia – continuò lo psichiatra, sgranchendosi la schiena.

– Parli della paura dello Spazio? – chiese, confusa.

– Già. Del cosmo, dell'infinito. Di qualsiasi cosa sia talmente grande da non poter essere immaginata dalla mente umana. Anche se a un certo punto iniziai a farmi una teoria, su questa cosa. Ne parlai anche con lui.

Dianne alzò lo sguardo sul medico. – Cioè?

Nicholas si grattò leggermente la barba canuta, ormai cresciuta di un paio di centimetri. – In realtà, non credo di potertene parlare. È un segreto professionale.

Lei sospirò, incredula. – Non sai neanche se morirai in questa topaia, e mi parli di segreto professionale.

– Non hai tutti i torti – disse lui, ridacchiando. – E va bene.

Lo vide prendere un grosso respiro, assumendo uno sguardo deciso. La sua voce si abbassò in un tono grave, che sembrò appesantire la piccola stanza.

– Ebbene... Gli dissi che, a mio parere, la sua paura di guardare le stelle rifletteva quella di prendere posizione. Come se stesse vivendo per procura, senza gettarsi a fondo nelle cose. In cinque anni di terapia, l'ho sempre visto raschiare la superficie dell'esistenza in maniera lenta e cauta, come un debole fiumiciattolo intimorito dagli scogli.

Nicholas fece una pausa, scrutandola nel buio. – Ma io sapevo che non era così. Più che un fiumiciattolo, Florian mi è sempre sembrato un torrente impetuoso. Un fiotto imbrigliato dalle limitazioni che dava a se stesso, nei vani tentativi di apparire "normale". Al di là degli sforzi per nascondere le malattie mentali, era come se gli mancasse un luogo nel quale esprimersi. Ma negli ultimi tempi era cambiato, come se avesse trovato quella vallata sicura che gli permetteva di scorrere... Di trasformare la sua esistenza in vita.

Dianne riconobbe le parole che aveva rivolto tempo prima a Florian, e che l'uomo, evidentemente, doveva aver riportato al proprio psichiatra. Senza volerlo, si ritrovò ad arrossire. Stupido idiota.

– Suppongo tu abbia capito di chi io stia parlando – disse Nicholas, rivolgendole un'espressione pacifica.

– L'ho capito – gli rispose lei, arricciando il naso. – Ma ti sbagli se pensi che io sia stata una "valle tranquilla" per lui. Diciamo più una scogliera di sassi appuntiti.

Terminando quella frase, fu colpita dall'amara consapevolezza di non aver mai ammesso ad altri quanto si sentisse inadeguata per Florian. Cosa ci fa una sociopatica come te con uno come lui? Si era chiesta in diverse occasioni. Non sei in grado di curarti di te stessa, figurati di una persona così fragile. Proprio come non sei stata in grado di curarti di Joe.

E così, anche dopo due mesi di frequentazione, anche dopo aver capito di essere ricambiata, aveva continuato a pensare di non meritare la sua compagnia, quasi cedendo all'istinto di sabotare tutto. La sua anima egoista aveva però finito per avere la meglio, correndo da lui ogni qualvolta le fosse stato possibile, seppur maledicendosi lungo il tragitto.

Una volta, osservandolo leggere alla luce del caminetto, gli aveva fatto una silenziosa promessa: non ti farò mai del male. Non lascerò che tu svanisca. Eppure, alla fine era stata lei a svanire, anche se contro la propria volontà. E, nel buio della sua prigionia, spesso l'aveva tormentata l'immagine di Florian ancora là fuori, sotto la pioggia, ad attendere un appuntamento che non sarebbe mai arrivato.

Nicholas si schiarì la voce, attirando la sua attenzione. Dianne lo vide osservarla di sghembo, quasi come se avesse assistito ai concitati scambi che stavano avvenendo nella sua mente.

– Una scogliera, dici –, le rispose. L'uomo sospirò, con un cipiglio grave. – Lo sai, l'acqua può erodere anche gli scogli più appuntiti. Ci vogliono solo pazienza e delicatezza. Doti che a lui non mancano, e che sono certo sia stato più che felice di mostrarti.

Notando il suo silenzio, continuò a parlare, addolcendo il tono. – Tu gli hai fatto solo del bene, Dianne. Gli hai fatto capire che i suoi pensieri sul mondo e sulla società erano giusti e validi.

Lei ammutolì, a disagio. Sentì qualcosa in lei desiderare di sciogliersi in quelle parole, tuttavia in superficie lasciò che a parlare fosse il peso della propria inadeguatezza.

– Non è così. Lui sapeva già quanto facesse schifo questa società. Lo sapeva come lo sappiamo tutti, e non aveva bisogno che io glielo confermassi.

– È qui che ti sbagli – la interruppe lui, puntandole un dito contro. – Anche se lo sapeva già, non aveva mai avuto qualcuno con cui parlarne liberamente. Qualcuno che condividesse i suoi sentimenti, uno "spazio sicuro". Tu sei stata quello spazio. Lui ha iniziato a sbloccarsi proprio parlando con te, e in seguito ha iniziato a farlo anche altrove, sino a riuscire a parlare con sincerità anche durante le nostre sedute.

L'uomo riprese fiato un istante, coi capelli bianchi resi ancora più canuti dal chiaro di Luna. Per un solo, doloroso attimo, Dianne lo immaginò fare le veci del padre che non aveva mai conosciuto.

– Non ti parlo da psichiatra, ma da amico. Penso che quello che hai fatto per lui sia stato molto importante. Gli hai fatto comprendere che vale sempre la pena alzare la voce, anche quando non c'è nessuno ad ascoltarci.

Per un po' stettero entrambi in silenzio, assaporando i suoni della notte. Ogni tanto giungeva alle loro orecchie il latrato di un cane, o il fruscio sinistro degli alberi che affollavano il cortile. Il vento che traspirava attraverso le grate continuava a scompigliare i capelli di Dianne, incontrando la loro e la sua indifferenza.

– Lo credi davvero? – gli chiese. In qualche modo, quella domanda le suonò ridicola.

– Sino all'ultima parola – rispose il medico. – "Niente stronzate". Te l'avevo promesso.

Dianne sorrise, divertita da come quell'espressione potesse contrastare con la persona di Nicholas. Sentì il petto riempirsi di calore, simbolo del sollievo al quale si era inconsapevolmente arresa. Spostò di nuovo lo sguardo oltre le vetrate, lasciando che il nero della notte l'aiutasse a celare l'imbarazzo.

– Anche lui ha fatto molto per me –, iniziò. Si fermò un istante, cercando le parole giuste. – Prima ho ricordato una sua frase. Mi disse che le cose possono essere utili o essere belle, e che la società tende a far coincidere le due cose in un verso, ma mai nell'altro. Eppure, come esseri umani abbiamo bisogno della bellezza, ogni tanto. Anche se poi non la accettiamo.

Nicholas la fissò incuriosito. – Che intendi?

Intendo – rispose lei, sospirando – che nella vita quotidiana sembra non ci sia spazio per la bellezza. Eppure, ce n'è così tanta attorno a noi. Prima di conoscere Ian non ci facevo neanche caso, e i miei giorni si consumavano in fabbrica, tutti uguali. Ma quando vidi come si entusiasmava lui quando parlava dell'Universo, dei libri, della musica, realizzai che nella mia vita mancava qualcosa. Una persona come lui, forse, ma soprattutto la bambina che ero, e che vedevo nei suoi occhi. La stessa che guardò le stelle con suo fratello per la prima volta, chiedendosi se sarebbero esplose, talmente tremolavano forte.

Dianne sentì la propria voce incrinarsi come un ramo spezzato, ma si costrinse a proseguire.

– Ci sono attimi che non vivremo mai più, persone che non vedremo mai più. È per questo che non accettiamo la bellezza, e la chiudiamo in un angolo: perché nel momento in cui realizziamo quanto sia provvisoria, inizia a intrecciarsi con il dolore.

Nicholas annuì, lasciando che quelle parole lo colpissero in pieno volto. Sembrò chiudersi in un pensieroso silenzio, prima di aprirsi in un grosso sorriso. Dianne lo vide accennare un applauso, unendo assieme le sue mani grinzose.

– I miei complimenti. Se fosse stata una vera seduta, stai certa che ti avrei tolta dallo status di Attenzionata.

Lei sbuffò dell'aria dal naso, sarcastica. – Non ci crederai, ma la mia psicologa mi aveva detto qualcosa del genere, prima che questi bastardi mi rapissero. Anche se non credo di averle mai parlato con così tanta sincerità.

– La notte fa miracoli – rispose Nicholas, ghignando. – Anche se grazie ai metodi medievali della Chiesa del Giudizio, la sincerità è una valuta obbligatoria, nella terapia per i Disallineati. Personalmente, ho sempre trovato le macchine per la verità un ostacolo, più che un aiuto.

– Già – disse lei, spostandosi una ciocca di capelli dal volto. – Soprattutto perché sono così facili da raggirare.

Lui parve leggermente smarrito. – Beh, non credo sia così semplice. Sono pressocché infallibili.

Dianne rispose al suo sguardo, altrettanto confusa. – Eppure, Ian mi raccontò di averne "rotta" una proprio davanti a te.

Nicholas sembrò cadere dalle nuvole, risvegliandosi poi all'improvviso. – Mi stai dicendo che quella volta la rese inutilizzabile volontariamente?

– No, quella volta no. Ma dopo riuscì a mentire senza problemi. C'era una cosa che aveva letto su un libro: "un poligrafo non riconosce se il soggetto che parla stia mentendo a se stesso". Gli bastò intendere a modo proprio la domanda, e poi convincersi che quella fosse l'interpretazione giusta.

Notando la perplessità del medico, Dianne non poté far altro che ridere sotto i baffi. – Ah, non lo sapevi. A quanto pare adesso sono io quella con un segreto professionale.

L'uomo stette in silenzio, riflettendo. Senza alcun preavviso, si alzò in piedi, iniziando a camminare in tondo per la stanza, sino ad arrestarsi di fronte a lei. – Hai detto che neanche a te hanno comunicato perché tu sia qui. Mi sbaglio?

Dianne incrociò le braccia al petto. – No, te l'ho già detto. Non lo sapevano neanche loro.

– Siamo in un ospedale psichiatrico – disse lui, ragionando ad alta voce. – Avranno sicuramente un poligrafo, da qualche parte.

Lei scese i piedi dal davanzale, sentendo il pavimento freddo contro le piante, che si gelarono all'istante. – Si può sapere che ti prende? – gli chiese, cercando di seguirlo nei suoi movimenti concitati.

Il medico si gettò sul materasso, con uno strano guizzo a illuminargli gli occhi. – Mi è appena venuta un'idea per andarcene da qui.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top