34. Un'Esperienza Che Mi Ha Aperto Gli Occhi
Traduzione fornita da @Shawnxmoon
Per fortuna, il resto del gruppo, Elton, Paul e John Holmes, aveva appena iniziato a cercare nel suo lato del parco, quindi li trovammo relativamente in fretta. E intendo davvero relativamente. Il traffico di Manhattan era arrivato a un livello nauseante a questo punto della sera; se metà di noi avesse camminato e l'altra fosse andata in macchina per raggiungere il lato nord del parco, probabilmente quelli in macchina avrebbero battuto gli altri di soli dieci minuti.
Ma eccoli lí, uniti sul sentiero biforcuto, a discutere, urlando, su quale direzione percorrere per prima. Be', Elton, come sempre il più calmo, era qualche passo indietro a guardare; John e Paul erano quelli che stavano davvero discutendo. Quando videro me e Freddie, le loro urla si trasformarono in risate dato che a quanto pare eravamo abbastanza scapigliati. Penso che qualcuno ci abbia chiamato "Scugnizzi di strada" ("Intende gatti randagi" aveva sussurrato Freddie).
In quei giorni Elton non aveva un aspetto fisico molto unico e l'uomo medio lo riconosceva solo grazie ai suoi costumi. Quando ci avvicinammo vidimo che aveva rimosso il suo berretto e i fondamentali occhiali ("Ho fatto una caz*ata," aggiunse in seguito, "non riuscivo a vedere la punta del mio naso senza parlare di voi due fuggitivi!") quindi sembrava un uomo a caso che aveva bisogno di andare dal barbiere nel giro di una settimana.
Il prezzo della fama, pensai tra me e me, praticamente devono avere una seconda identità per poter camminare tranquillamente per strada, senza che la gente sussurri o li fissi. Non riuscirei a vivere così per dei soldi.
"Per l'amor del cielo, Fred, vuoi che tutti sappiano che siamo qui o no?" Elton lo rimproverò. "Stavamo per chiamare gli sbirri.
"Questo qui stava per sclerare, vero Paul?" John rise.
Paul non disse nulla, ma non ne aveva il bisogno; quando il suo sguardo si posò su di me capii che ora avrebbe preferito uccidermi molto lentamente e dolorosamente invece che con un proiettile nel cranio. Gli sorrisi.
Ottimo. Paul è disturbato. Non mi interessa. Burn baby burn. Non mi interessa fare casini con Paul. È Mary che mi preoccupa. Oh cosa direbbe Mary vendendo Freddie che mi bacia in quel modo? So che non stanno più 'insieme', ma... E David Minsy -intendo Minns. Lui che cosa- oh Gesù...
Nessuno sembrava molto irritato dal fatto che io e Freddie gli avessimo fatti aspettare; si erano goduti un bel pasto e i loro volti erano rosei e felici per l'ottimo vino. Mi pareva che solo Paul Prenter si sentisse tradito.
"Siamo in ritardo di quasi un'ora." Ci ricordò Rudy. Era il nostro segno di entrare nella limousine. Quindi, noi furfanti, lo facemmo. Potreste pensare che un gruppo grande quanto il nostro avrebbe attirato l'attenzione, ma la maggior parte dei visitatori di Central Park era attirata dal festival. Eravamo al sicuro.
"Altro che viaggio in giornata." Mi disse Freddie. "Dovremo prendere delle stanze di hotel a Las Vegas. Sono a pezzi."
"Sarebbe stato più facile se avessimo aspettato." Mormorai.
Freddie incroció le braccia. "Vorresti averlo fatto?"
Scossi la testa.
"Bene così."
"Sto solo dicendo che ci saremmo risparmiati un sacco di problemi se fossimo rimasti lí-"
"Oh, puoi...shhhh?" Freddie mi coprí la bocca e iniziò a spingermi verso il sedile anteriore, poi si fermò. "No aspetta. Non c'è alcun motivo per cui tu stia così tanto lontana."
"Ma non c'è spazio lì dietro!" Il resto dei ragazzi aveva riempito tutti i posti.
"Guarda!" Freddie si infiló di fianco a Elton e poi indicò le sua gambe. "Vedi? C'è un sacco di spazio. Forza! Non farci perdere tempo." fece un cenno con la mano.
Con un'altra alzata di occhi al cielo (l'azione stava diventando involontaria come respirare) , mi arrampicai dentro e mi sedetti su Freddie. Mi circondó con le sue braccia, come se fossero una cintura. Peter ridacchiò e disse qualcosa simile a "La prossima volta farò io spazio per te Evie."
L'autista, che parlava con un forte accento russo, ci chiese "Allora, andiamo direttamente al JFK o dobbiamo fermarci da altre parti?"
Tutti i ragazzi erano pronti a partire dalla Grande Mela, e lo dissero. Las Vegas lí stava aspettando, come una Disneyland per adulti. Ma mi ricordai quella visione agrodolce mentre stavamo attraversando Manhattan. L'inconfondibile skyline, così diverso da quello a cui ero abituata, con cui ero cresciuta. Dovevo vederlo.
Tranquillamente dissi "Passeremo nel distretto finanziario?"
L'autista scosse la testa. "Non è nel nostro percorso. Vuole andare anche lì?"
Guardai Freddie. "Freddie ti andrebbe bene?"
"Perché vuoi andarci? È troppo tardi per gli scambi commerciali, credo."
"Voglio vedere il World Trade Center."
"Perché? Sono solo degli edifici molto alti. Ce ne sono un sacco-"
"Freddie ti prego," lo pregai dolcemente "devo vederle. È importante."
Aprí la bocca, forse per convincermi che non era così importante come credevo. Cercai di sembrare sincera; Freddie era meno eccessivamente zelante per l'idea. Sapevo che sarebbe stata una battaglia faticosa. Ma mi guardò negli occhi e vide qualcosa- qualcosa che lo fece intenerire. Lessi una goccia di preoccupazione sul suo volto. Sentii i battiti del mio cuore accelerare e fremetti. Non avevo mai visto quello sguardo.
"Mi servono solo due minuti, lo giuro." Dissi.
"S-sì, certo." Balbettò Freddie, facendo fatica a rimettersi la sua maschera. "Possiamo farlo. Non chiedi mai nulla, almeno questo possiamo farlo. Ci dobbiamo solo passare in macchina, giusto?"
Annuii. Tutti sbuffarono, borbottando a riguardo del tempo e della distanza, ma Freddie li ignoró. Lui era il conduttore, era stata la sua idea- e quindi era l'autorità finale che decideva dove si dovesse andare. Freddie diede il permesso all'autista.
Ci misi mano un sacco, devo ammetterlo, per arrivare alla zona di Wall Street. Ma una volta che bevono girato l'angolo, e le Torri Gemelle incomberono su di noi nella loro fantastica totalità, il mio corpo sembrò intorpidirsi. Ci avvicinammo, il complesso del World Trade Center consumava un'immaginabile parte della città. Lo osservai, paralizzata, il mio cuore batteva all'impazzata.
Lo farò. Devo. Se va bene a Freddie va bene a me.
"Okay eccoli," disse John Holmes tirando su col naso "grandi palazzi, grandi business, grande quantità di soldi, grande dramma caz*o. Ora possiamo-"
Aprii la porta della limousine in movimento e corsi verso le Torri Gemelle.
"Oh ma dai!" Lì sentii urlare. "Non di nuovo!"
Non corsi molto lontana, o molto in fretta. Il traffico era più lento di me. Mi fermai davanti alla Torre Nord che era la più vicina alla strada. Guardai in alto, seguendo il muro di acciaio protendente verso il cielo, arrivava così in alto che non riuscivo a vederne la cima. Non immaginavo che fossero così grandi. Nelle vecchie foto le Torri Gemelle dominavano tutto quello che le circondava ma solo quando me le trovai davanti realizzai quanto fossero enormi. Migliaia di persone dovevano trovarsi in quei palazzi in quel preciso momento, nonostante fosse tardi.
Avevo memorie confuse di quel giorno, avevo solo quattro anni. Ma nonostante fossi così piccola, ero consapevole del fatto che fosse successo qualcosa di orribile- e l'orrore degli attacchi di quella mattina di Settembre, che tutti gli americani avrebbero ricordato come il giorno in cui la Terra era stata sconvolta, divenne paura, la violenza del mondo finalmente in mostra. Si formò un nodo nella mia gola.
Dio mio. Tutte quelle persone. Quanta male c'è nel mondo. Oh buon Gesù, perché?
Mi avvicinai. Con le mani tremanti toccai il muro di cemento davanti a me. Trasalii. Più di tremila persone. Perdute. E non lo sapevano. Ma io sí. Fui avvolta da un sentimento di incapacità. Sapevo cosa sarebbe successo- sapevo qualcosa che avrebbe potuto salvare più di tremila persone. E non c'era niente che potevo fare. Chi avrebbe creduto ad un'innominata ragazza senzatetto con una folle storia su un aereo dirottato e questi colossi indistruttibile che cadevano al suolo come i blocchi del Jenga ventiquattro anni dopo?
"Eve?" La voce di Freddie penetró cautamente la mia mente.
Mi girai verso di lui e provai invano a ingoiare il nodo. Il braccio di Freddie mi circondò le spalle. La limousine era ancora bloccata nell'oceano di auto. Freddie osservo la torre come avevo fatto io momenti prima, poi mi guardò, confuso.
In una voce cauta e tranquilla, mormorò "Eve, che cosa vedi?"
La mancanza di dubbio, di incredulità, nella sua voce mentre me lo stava chiedendo, mi colpí. Potevo dirglielo? Mi avrebbe creduto? Che cosa diavolo avrebbe fatto in modo che mi credesse? Guardai nei suoi occhi per vedere lo stesso dolce sguardo. Voleva saperlo. Voleva condividere il mio dolore. Potevo dargli la possibilità di farlo?
Vedo persone morte, pensai. Ma fu la seconda parte di questo pensiero a ferirmi, e tese ovvio il fatto che non fossi ancora abbastanza forte:
E tu sei uno di loro.
Ero diventata abbastanza brava a reprimere le lacrime intorno a Freddie, non sapevo come l'avrebbe gestito. Temevo che sarebbe stato impaziente, forse indifferente. Poi, la mia faccia è bruttissima quando piango; il mio naso diventa rosso, i miei occhi si gonfiano, divento un piagnucolio vivente e quella era l'ultima cosa che volevo far vedere a Freddie. Ma quella fu l'ultima goccia nel vaso. Iniziai a singhiozzare.
Agí in fretta. Freddie mi circondò con le sue braccia e mi strinse al suo petto. Lo strinsi a me, affondai il volto nella sua spalla, le mie lacrime macchiarono la sua maglietta. Tremai e gli dissi con una voce acuta "Mi-mi dispiace. Li sto facendo aspettare-"
"Shhh." Sussurrò. "Lasciali aspettare. Non ci muoveremo da qui finché non ti sarai sfogata."
"Ma-"
"Piangi, angelo mio, piangi." Premette le labbra contro la cima della mia testa.
Non riuscivo a reggere quanto fosse dolce in quel momento. Ero un rubinetto. Lacrime di stanchezza, lacrime di dolore, lacrime di rabbia, lacrime di debolezza. Tutti i fragili momenti dell'ultima settimana- li versai mentre mi stringeva. Ero così impotente, così debole; solo otto (o forse nove? Non avevo ancora capito bene per via dei fusi orari) giorni fa mi credevo una così tanto determinata maga della mente. Freddie mi aveva dimostrato il contrario.
Non so per quanto rimanemmo lì, ma era il tempo necessario perché la limousine ci avesse raggiunto in modo che una volta che Freddie fosse stato convinto del fatto che mi fossi completamente sfogata avremmo dovuto camminare solo per un paio di metri e rientrarci.
Quando i ragazzi mi videro in tutta la mia gloria piangente, si creò un silenzio imbarazzante. Tutte le battutine sull'averli fatti aspettare di nuovo morirono nelle loro gole. Ero seduta in silenzio sul ginocchio di Freddie, le mani incrociate. Nessuno parlò per un bel po'.
"Scusatemi ragazzi." Alla fine interruppi il silenzio.
Elton fece un mezzo sorriso. "Hai smesso di saltare giù dalle auto per un po'?"
Annuii. "Siamo in autostrada quindi sí."
Qualcuno ridacchiò fra sé e sé, ma non riuscii a capire chi. Di nuovo, cadde il silenzio. Il russo guidava, noi ci giravamo i pollici, non più vogliosi di andare a Las Vegas, soprattutto io.
E poi, senza avvisare nessuno, Freddie iniziò a cantare.
"Hey Jude," inizió, la sua voce a cappella era limpida e dolce, "Don't make it bad...Take a sad song/ and make it better..."
Sentii un sorriso comparire sulle mie labbra. Le sue mani, che erano intorno alla mia vita, iniziarono a tenere il tempo. "Remember to let her into your heart/ Then you can start/ To make it better."
Prima che potessi fermarmi, mi unii a lui nella seconda strofa. "Hey Jude, don't be afraid/ You were made to/ Go out and get her."
Elton, che si era infilato i suoi famosi occhiali, sorrise e iniziò a cantare. Peter offrí la sua versione delle armonie e Rudy, fantastico guardiano del ritmo, batteva il piede contro il pianale. Mi calmai, i nostri sorrisi e la nostra energia erano di nuovo i benvenuti. Paul rimase lì seduto come un palo, sforzandosi di sorridere (come una lucertola). Ma nessuno gli prestò attenzione.
"Remember, to let her under under your skin/ then you'll begi-in/ to make it better, better, better..." cantammo finalmente, diventando sempre più insopportabile ad ogni better finché non ci ritrovammo ad urlare a squarciagola il "YEAH" che introduce la parte che fa "nah nah". Continuammo a cantare allo stesso volume fino all'aeroporto. Non diede fastidio al nostro amico russo; cantava forte come noi. E da lì in poi, ebbi la sensazione che Peter ed Elton mi avessero accettata.
Ancora oggi, non riesco ad ascoltare "Hey Jude" senza ricordarmi le stridenti improvvisazioni di Peter o la voce leggermente nasale di Elton invece che quella di Paul McCartney. E soprattutto, riesco ancora a sentire la limpida voce da tenore di Freddie che mi vibra nell'orecchio. È uno dei miei ricordi preferiti.
Quando scendemmo dalla limousine baciai Freddie sulla guancia e sussurrai "Non ti stanchi di salvare sempre la situazione."
Non rispose. Con un occhiolino, mi prese per mano e disse "Seguimi."
Quello che non sapevo era che ora Freddie mi stava guardando più da vicino. Avevo lasciato trapelare qualcosa davanti alle Torri Gemelle, qualcosa che ora lui stava cercando. Solo il tempo avrebbe rivelato quello che ero stata così sciocca da fargli vedere.
Arriverà l'occasione, pensai mentre ci avvicinavamo alla Starship, se non succederà nelle prossime ventiquattro ore, glielo dirò. Potrebbe odiarmi. Ma devo dirglielo. Devo.
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