ᴛʜʀᴇᴇ.

Nora.

"È quel mare che ho dentro
che mi crea forti tempeste."

Victor Hugo.

L'insegna luminosa di quel locale mi bloccò sui miei stessi passi, mentre una melodia che io conoscevo bene si propagava al di fuori delle mura; quella canzone apriva ogni sera lo spettacolo di mia madre.

Senza rendermene conto mi ritrovai dinanzi all'entrata, dove nonostante l'orario poco consono si intravedeva una buona mezz'ora di fila.

Mi osservai intorno, ricordando le scale a chiocciola sul retro che portavano ad un'uscita d'emergenza, direttamente dallo spogliatoio delle ballerine che ne approfittavano per fumare.

Estrassi il coltellino svizzero dalla scarpa e iniziai a giocare con la serratura, finché, senza neanche troppi sforzi si aprì.

La prima parola che mi venne in mente per descrivere ciò che mi trovai davanti fu: caos.

C' erano più di trenta ragazze che correvano all'interno di quell'enorme camerino che condividevano senza nessuna traccia di imbarazzo.

Chi si truccava, chi era per metà vestita, chi si sollevava con premura le tette all'interno di un striminzito corpetto, che modellava alla perfezione i loro corpi a clessidra.

Per un solo attimo tornai indietro a dodici anni fa, quando mi nascondevo tra gli abiti da scena e le osservavo con ammirazione, sognando ad occhi aperti che un giorno sarei diventata una di loro.

Senza rendermene conto mi ritrovai davanti ad uno specchio: osservai i miei abiti da maschiaccio, dove nessuno poteva mai immaginare che dietro quegli stracci si trovasse una ragazza, che un tempo sognava di indossare meno strati di vestiti per mostrarsi nella veste più femminile e sensuale che avesse, ma quel sogno venne distrutto con la perdita di mia madre e il modo cruento in cui me l'avevano portata via.

«Ragazze si va in scena! Tette in su e pancia in dentro. Se le avete mostratele e che diamine, magari le avessi io!» le richiamò Marsel, e non potei fare a meno di sorridere quando lo vidi nel suo smoking a strisce bianche e nere; nonostante fossero passati anni, il suo stile stravagante e le sue battute sempre pronte non erano cambiate.

Mi nascosi tra gli abiti da scena mentre il camerino si liberava dagli schiamazzi eccitati delle ragazze.

Marsel diede una pacca sul sedere all'ultima della fila come augurio di buona fortuna, esattamente come faceva un tempo, e poco dopo la canzone d'apertura su cui ballava mia madre finì, venendo seguita subito da un'altra.

Aveva uno stile jazz, quel tipo di canzone che richiamava New Orleans solo a sentirla.

Mi affrettai ad uscire per godermi lo spettacolo, attenta a non farmi vedere, e non potei fare a meno di guardare rapita l'ambiente che mi circondava: era stato tutto ristrutturato, finalmente quel locale stava ricevendo il successo che meritava ma il rosso con cui ero cresciuta che richiamava quel posto, non  lo avevano cambiato.

L'aria bar era circondata da specchi e il bancone era incorniciato da led di colore rosso, così come i tavolini dove il pubblico si accomodava per godersi lo spettacolo.

Mi accostai il più lontano possibile dalla gente, dove potei osservare tutto l'ambiente circostante senza perdermi la vita che si impossessava di quel posto quando le luci si abbassavano e i riflettori puntavano il palco.

Non so per quanto tempo rimasi immobile, so semplicemente che mi incantai, per tutta la durata dello spettacolo non avevo sentito nulla al di fuori della musica.

Quando vidi un buttafuori aggirarsi nei dintorni, mi allontanai a passo felpato andando incontro al bancone, dove trovai una ragazza dai capelli rossi e ripiena di lentiggini, con apposita divisa se tale poteva essere definita, composta da camicia e gonna di pelle, che mi riservò un sorriso dolce prima di chiedermi con entusiasmo: «Ciao! Cosa posso portarti?»

Mi guardai per un attimi intorno, indecisa sul da farsi, consapevole che non era molto conveniente restare lì allungo, senza la carta d'identità in grado di ingannare il personale del locale riguardo la mia età.

Usala solo in casi di necessità o emergenza.

La sua voce mi tornò in mente senza che io lo volessi.

Stetti per voltarmi, pronta a ringraziarla e rifilarle una qualche scusa come: "sto aspettando un amico, magari dopo", ma un viso fin troppo conosciuto, blocco ogni intento di aprir bocca.

Nell'arco della mia breve esistenza avevo capito che c'erano visi impossibili da dimenticare, visi in grado di restare quanto più allungo possibile nell'anticamera del cervello, visi che tormentavano i sogni trasformandoli in incubi, e lui, lui era il mostro che da circa dodici anni si era insinuato nelle stanze più oscure del mio subconscio senza darmi modo di chiuderle a chiave.

«Qualcosa di forte, a richiesta di quell'uomo che si è appena seduto a quel tavolo» lo indicai col capo, senza guardarla neanche per un istante.

Il suo viso, nonostante la luce soffusa del locale, mostrava perfettamente la deformazione permanente che gli era rimasta sul viso, sfigurandolo.

Sperai che gli avesse fatto male, che ogni giorno quando si ritrovava dinanzi allo specchio si ricordasse quella maledetta notte, che riconoscesse il mostro che era, in quel viso deturpato che aveva liberato il marcio del suo essere proprio sul suo viso, senza mai nasconderlo.

Ero convinta che le cicatrici non imbruttivano le persone dall'anima pura, quelle dal cuore prezioso che conoscevano i veri valori della vita, ma le rendevano più vissute, perché anche coloro che erano cospersi di tagli, profondi o superficiali, potevano rinascere negli occhi di chi sapeva guardarli dentro.

Ma quelli come lui, erano marci dentro ed erano marci fuori, le cicatrici non potevano far altro che evidenziare il nero che gli sporcava l'anima, ovunque li guardassi, potevi riconoscere la bruttezza del loro essere, che non c'entrava assolutamente niente con l'aspetto.

Riusci finalmente a distogliere lo sguardo da lui per incontrare gli occhi della ragazza, che non si era ancora mossa per mettere in atto la mia ordinazione.

«Sei sicura?» domandò titubante, l'entusiasmo di prima aveva lasciato spazio ad un espressione preoccupata.

Non capii il perché di quella domanda, ma pensai fosse un cliente fisso e che la sua fama, se tale poteva essere definita, lo precedesse.

Mi limitai ad un cenno del capo e lei iniziò a muoversi ancora poco convinta.

Mi osservai intorno, mettendo in atto un piano in grado di farmi avvicinare abbastanza senza dare nell'occhio.

«Ecco qui il tuo drink.»

La ringraziai e afferrai il bicchiere contenente qualche intruglio alcolico che non mi fermai ad identificare, le luci del locale si abbassarono nuovamente dando inizio ad un altro numero che mi permise di muovermi senza preoccuparmi di essere vista.

Afferrai uno dei vassoi lasciati sul bancone, ci poggiai sopra il bicchiere attenta a tenerlo in equilibrio, mi accertai che non ci fosse nessuno con lo sguardo posato verso la mia direzione e mi avvicinai all'obiettivo mentre i riflettori puntati sul palco, cambiavano colore a distanza di pochi secondi.

Stringeva un sigaro tra le labbra, mentre ascoltava divertito l'uomo che aveva di fronte.

«Adesso basta con le cazzate, Ulisse. Che sai dell'incontro a Venezia?» domandò, tornando improvvisamente serio.

Mi ero avvicinata abbastanza da sentire la conversazione, il loro era un tavolo privato che poteva essere nascosto dietro un'apposita tenda che aveva giocato a mio favore.

L' uomo continuava a ridere senza una vera motivazione, dava segni di squilibrio ed i suoi occhi confermavano la mia ipotesi: era completamente strafatto.

Aveva i capelli rossi che gli arrivavano poco più giù delle spalle, un viso ovale dai tratti comuni, con un naso non proprio proporzionato al suo volto.

«L'incontro è stato programmato fra tre settimane, ci saranno pezzi grossi.» rispose con un ghigno sul volto.

«Bene. Domani sera iniziamo la trattativa con Isak e Brian, ci riuniamo tutti al fireside. Attento a quello che fai Ulisse, non possiamo sbagliare, quei due hanno a terra merce da milioni di dollari!» lo avvisò, avvicinandosi di più.

«Stai tranquillo, non succederà niente! Delle pietre, invece? Cosa mi dici?» aguzzai le orecchie ma non potei ascoltare oltre, sentii il peso del bicchiere svanire dal vassoio, quando qualcuno lo afferrò per berlo tutto d'un fiato.

Sbatté il bicchiere ormai vuoto sulla superficie metallica e mi scontrai con gli occhi di un ragazzo poco più grande di me, che mi squadrò da capo a piedi grattandosi il lieve strato di barba.

«Hai altro da offrire sotto questi stracci, bambolina?» domandò avvicinandosi per farsi sentire, prima di scoppiare a ridere.

A causa della luce soffusa che andava e veniva non riuscii a metterlo completamente a fuoco, ma sembrava totalmente ubriaco se non fatto, o entrambe le cose molto probabilmente.

«Se sarai convincente, magari terrò la bocca chiusa sul fatto che stavi origliando.» continuò, squadrandomi da capo a piedi.

Iniziò ad avvicinarsi ancora e io non potei far altro che qualche passo indietro, consapevole del rischio a cui andavo incontro se solo avessi osato colpirlo.

Non attirare l'attenzione su di te.

Ancora una volta la sua voce, tormentò i miei pensieri.

«Lasciala in pace, Dylan!» sentii una voce femminile, provenire dalle mia spalle.

Quando mi voltai, una ragazza dai capelli corvini e lo sguardo fermo sullo stronzo che mi stava importunando, scavalcò il bancone e si avvicinò con sicurezza.

«Fammi divertire, Astra!» ribatté, afferrandomi una ciocca di capelli per rigirarsela tra le dita.

Calma Nora, non reagire. Non reagire.

«Trovatene un'altra, testa di cazzo!» lo spinse, allontanandolo di poco da me.

«E levati dalle palle!» ringhiò lo stronzo di rimando, spingendola a sua volta ma molto più forte, tanto che la ragazza perse l'equilibrio e sbatté contro il balcone.

Fu questione di un attimo, prima che alzassi il vassoio in metallo facendo cadere il bicchiere, per sbatterglielo in faccia con tutta la forza che avevo.

Perse l'equilibrio e andò a finire contro due ragazzi che parvero riconoscerlo, e quando sollevarono lo sguardo verso di me capii di essere nei guai.

Lo stronzo tornò ad avvicinarsi, con i due alle sue spalle, e quando mi vide fare qualche passo indietro, scoppiò a ridere di gusto.

«Che c'è? Adesso hai paura?» domandò divertito, pulendosi un rivolo di sangue che gli colava dall'angolo della bocca.

No idiota, ho solo bisogno di spazio, avrei voluto rispondergli, prima di girare su me stessa, sollevando la gamba e colpirlo direttamente in faccia.

Gli altri due non persero tempo ad avvicinarsi e mentre ne misi uno fuori gioco con un pugno dritto in faccia, che mi provocò una fitta di dolore, mi distrassi quando mi resi conto che due dei buttafuori si stavano avvicinando proprio a noi.

Mi voltai solo quando il secondo mi afferrò la spalla e spinse qualcosa di appuntito contro il mio fianco destro.

Quando abbassai lo sguardo la lama del coltello stava già entrando in collisione con la mia carne.

Mi mancò il fiato ma riuscii a sollevare un ginocchio per
colpirgli l'inguine, ma quando si piegò su se stesso estraendo la lama, vacillai sui miei stessi piedi.

Mi voltai completamente stordita con l'intento di arrivare all'uscita.

Nello stesso istante vidi tornare di corsa la ragazza che aveva provato a difendermi.

«Ho chiamato la sicurezza!» esclamò guardandomi le spalle, ed io andai completamente nel panico, non sapevo se ringraziarla o colpirla per non essersi fatta gli affari suoi.

«Devo uscire!» mi limitai a ribattere, facevo fatica a respirare.

Iniziai a correre tra la calca di persone, con alle spalle quella ragazza che inspiegabilmente correva con me, tenendomi per un braccio.

Improvvisamente fui costretta a voltarmi quando la sua mano mi tirò all'indietro, perché bloccata da uno di quegli stronzi.

La ragazza mi lasciò, afferrò in fretta una delle grandi bottiglie di liquore esposte sul bancone e lo colpì con forza, prima di voltarsi verso di me e urlare: «Vai!»

Non me lo feci ripetere due volte.

Uscii di corsa dal locale, sfuggendo alla presa dei buttafuori, prima di sentire tanti passi rincorrermi e solo in quell'istante iniziai a percepire il dolore della ferita che mi tagliava il respiro, ad ogni passo che facevo.

***

Sentivo tutto ovattato, la testa girava e avevo caldo.

Mi avevano presa?

Tentai di aprire gli occhi ma li richiusi quasi subito quando una forte luce mi accecò la vista.

Ero distesa su una superficie dura, provai ad alzarmi ma il fianco non me lo permise.

Crollai nuovamente e sentii di star per soffocare da un momento all'altro.

Qualcosa o qualcuno mi sollevò il capo e riconobbi il collo di una bottiglia di vetro quando mi venne poggiata sulle labbra.

Stetti per voltare il capo per sfuggire al contenuto, ma il liquido era già scivolato a piccole quantità entrando in contatto con il mio palato.

Strinsi gli occhi resistendo alla tentazione di tossire, quando compresi fosse alcool.

Lo mandai giù a fatica e subito dopo ne arrivarono altri, mi lasciarono un bruciore terribile alla gola e un formicolio lungo tutto il corpo, che attenuò il dolore.

Non so quanto tempo passò nel frattempo, so semplicemente che la mia mente iniziò letteralmente a delirare.

Alternavo momenti di totale squilibrio, dove ricordavo mia madre ballare per la stanza, sorridere senza sosta mentre afferrava le miei mani portandomi con sé a ritmo di musica.

Poi quell'attimo tutto ad un tratto svanì, la stanza si rabbuiò, io la chiamavo ma lei non rispondeva.

Cominciai a camminare nel buio, camminavo, camminavo e più andavo avanti più sentivo freddo.

È colpa tua.

Mi voltai di scatto quando sentii quelle parole sussurrate all'orecchio.

Il cuore batteva all'impazzata, il freddo cominciò a bloccarmi gli arti tanto da provocarmi dolore, mentre stringevo i pugni con forza conficcandomi le unghie nei palmi delle mani.

È colpa tua.

Vigliacca.

Non hai reagito.

I sussurri continuavano ad aumentare, ripetevano sempre le stesse cose come una cantilena, mentre il buio mi inghiottiva.

Giravo su me stessa tentando di seguire quegli innumerevoli sussurri che sembravano moltiplicarsi ogni volta, prima che il buio sotto i miei piedi mi lasciasse cadere nel vuoto.

Mi sollevai di scatto a corto di fiato, prima di sussultare per il terribile dolore che mi perforava il fianco.

Strinsi i denti per non piagnucolare, mentre tentavo di asciugarmi la fronte imperlata dal sudore.

«Hai avuto un incubo?» chiese qualcuno, e solo in quell'istante rammentai di non essere a casa della signora Josslyn, nella stanza che aveva messo a disposizione per me.

Mi sollevai di scatto dal divano su qui fino a qualche attimo prima ero distesa, ma non feci neanche mezzo passo che crollai a terra.

Cercai di attutire la caduta lasciandomi andare con tutto il peso sui palmi delle mani mentre i miei occhi annebbiati cercavano di mettere a fuoco il pavimento estraneo del posto in qui mi trovavo, prima di darmi una spinta per sollevarmi.

Tentai di appoggiare il piede destro a terra quando mi ritrovai in piedi, ma la fitta che mi attraverso il fianco mi tagliò il fiato e stetti per cadere nuovamente, prima che
due braccia mi afferrassero saldamente.

«Sei proprio una selvaggia, dannazione!» ringhiò lo stesso stronzo che mi aveva messo con le spalle al muro, mentre mi scrutava rabbioso con quegli occhi petrolio, una sorta di miscela verde scuro, molto simile alle foreste immerse dal buio quando il sole calava.

Mi strinse ancora di più quando tentai di divincolarmi ed a me mancava il fiato.

Una ciocca di capelli ricci gli sfuggiva dal codino, mentre i suoi occhi continuarono a scrutare il mio viso con insistenza.

Non mi guardare.

Non ho cicatrici, ma di marcio ne ho ovunque.

«Un grazie non guasterebbe.» la rabbia prese il sopravvento, accaldandomi ancora di più.

Tutti vogliono qualcosa da te, nessuno fa qualcosa per niente. Ricordalo.

Le sue parole tornarono di nuovo, dando una spallata alla mia coscienza che molto spesso rimaneva in silenzio.

«Nessuno ti ha chiesto niente!» lo spinsi con la poca forza che avevo, ma bastò ad allontanarlo anche se rischiai di cadere rovinosamente a terra.

Afferrai saldamente il comodino che affiancava il divano e lo tenni saldo, mentre con lunghi respiri tentavo di placare il dolore che mi infuocava con insistenza il fianco.

«Si può sapere qual è il tuo problema?»

Non risposi, il sudore prese a colarmi lungo la schiena mentre stringevo i denti per non sibilare dal dolore.

Non dare mai segni di cedimento, soffri solo agli occhi di te stessa e di nessun altro.

Mi raddrizzai con le lacrime dietro le palpebre degli occhi mentre il fianco era letteralmente in fiamme e minacciava di piegarmi in due.

Le soffocai con tutta me stessa respirando lentamente con i denti stretti in una morsa.

Mi osservai alla svelta intorno, rendendomi conto di trovarmi in un ampio salone, dove non persi tempo ad individuare le grandi finestre che si affacciavano dinanzi al portico di una zona che non conoscevo.

Avevo poco tempo per riflettere e creare un diversivo, ma dopo le sue successive parole non ce ne fu bisogno.

«Ti porto un bicchiere d'acqua.» il suo tono di voce non era più alterato, ma perfettamente misurato, come i suoi occhi calcolatori che per dieci secondi buoni rimasero nei miei.

Mi stava dando consapevolmente una via di fuga, e non capivo dove fosse la fregatura.

Lo osservai guardinga, seguendolo con lo sguardo finché non scomparse dalla mia vista svoltando a sinistra.

Senza perdere tempo, mi precipitai zoppicando sulla porta scorrevole di vetro e uscii senza guardarmi indietro, solo in quell'istante mi accorsi di non indossare la mia giacca, quando il freddo mi colpì con prepotenza le braccia nude.

Vidi una Harley Davidson Iron 883 e per un attimo rimasi senza fiato, ma non per il dolore al fianco: quella moto era qualcosa di spettacolare.

Mi ridestai immediatamente consapevole di star perdendo tempo prezioso e mi avvicinai quanto più veloce possibile a quel capolavoro.

Le chiavi erano inserite nel quadro elettrico e mentre ci montavo sopra, mi chiesi con quale coraggio il proprietario lasciasse un capolavoro del genere così incustodito.

Ma mentre misi in moto e guardai verso la casa da cui ero uscita solo un attimo fa, mi scontrai con i suoi occhi già puntati su di me e capii perfettamente il perché.

Quale ladro sano di mente, avrebbe sottratto qualcosa ad un altro ladro?

Non ne sapevo molto della legge tra delinquenti nei vicoli di Manhattan, ma lasciare una moto del genere incustodita era come un segno di sfida: toccala se hai il coraggio.

Ed io l'avevo toccata eccome, ero comodamente seduta sulla sella mentre testavo la potenza del motore.

Era poggiato con la spalla sull'uscio della porta scorrevole, gli occhi fermi nei miei, un bicchiere d'acqua all'altezza delle labbra e una tacita promessa racchiusa nelle pupille: ci rivedremo presto.

Prima di quanto pensi Robin Hood, pensai, sfrecciando via.

***

Arrivai a casa letteralmente a pezzi, dopo aver lasciato a malincuore la Harley nelle vicinanze del Sweet&Sour.

Varcai la porta zoppicando, ma tentai di fare il più piano possibile per non farmi sentire, anche se la signora Josslyn aveva il sonno pesante, ero assolutamente convinta che si fosse accorta della mia assenza.

Erano quasi le cinque di mattina, avevo completamente perso la cognizione del tempo a causa della ferita e nonostante non mi avesse dato un coprifuoco da rispettare, sospettavo potesse avere qualcosa da dire al riguardo dell'orario poco consono a cui ero rientrata.

Salii al piano di sopra di soppiatto, sospirando di sollievo quando varcai la porta della mia stanza, ma avevo cantato vittoria troppo presto.

«Eleonora.» sentirmi chiamare col mio nome per intero, mi gelò il sangue bloccandomi sui miei stessi piedi.

Deglutii a vuoto, lasciai cadere la mano con cui mi stringevo il fianco ferito, raddrizzai le spalle e chiusi le
labbra per nascondere il respiro affannato.

Mi voltai senza esitazione, sperando che dalla mia espressione non trasparisse troppo il mio malore, anche se ne dubitavo visto il suo sguardo accigliato e le labbra che si schiudevano.

«Oh cielo, cara! Ti senti bene?» mi chiese preoccupata, facendo un passo verso di me con la mano posata sul petto, all'altezza del cuore.

Era avvolta da una vestaglia legata in vita, aveva l'aria stanca e perfettamente visibile che non avesse chiuso occhio.

Avevo un terribile groppo in gola che non mi permetteva di deglutire, mentre cercavo di prendere fiato e parlare.

Da lì a poco avrebbe finalmente sentito il suono della mia voce, solo per toglierle quell'espressione preoccupata dal viso.

Leggevo paura in quelle iridi ghiacciate che ogni volta che mi guardavano, riservavano calore; paura di perdere di nuovo, come se da un mese a questa parte fossi diventata qualcosa di importante.

Una parte di me faceva fatica a credere di poter valere qualcosa agli occhi di qualcuno, avevo visto così tante famiglie passarmi accanto senza degnarmi di uno sguardo, perché non ero nemmeno una possibile scelta, da non riconoscere il luccichio addolorato negli occhi di quella signora che aveva accettato i miei silenzi.

Mi guardava come se mi sentisse, come se percepisse le grida soffocate dal silenzio, che teneva a chiave l'agonia persistente della mia anima.

«Ho conosciuto una ragazza in un locale, abbiamo bevuto un po' e ho perso la cognizione del tempo. Scusa se ti ho fatto preoccupare.» parlai piano, senza lasciar trasparire nemmeno un briciolo di emozione, consapevole che se ne avessi lasciato uscire anche solo uno sprazzo, ne sarei stata travolta in un battito di ciglia.

Ero vittima della mia stessa apatia, prigioniera di me stessa e sapete la cosa peggiore?

Resistere alla tentazione di liberarsi era la più grande sfida della vita.

La tentazione di dare le chiavi a qualcuno e smetterla di combattere contro la prigionia, era devastante per una persona che non si fidava nemmeno di se stessa.

La mia stessa essenza mi aveva tradita, quando era  rimasta ferma a guardare senza muovere un muscolo.

La signora Josslyn sembrò quasi aver smesso di respirare, i suoi occhi increduli erano fissi su di me ed io non riuscivo più a resistere per reggermi in piedi.

Stare dritta mi costava una fatica inspiegabile, ma i suoi occhi indagatori erano ancora fissi su di me.

«Sicura di stare bene, bambina?» quel nomignolo e l'apprensione nel suo tono di voce mi fecero vacillare appena, mentre gli occhi pizzicavano senza pietà al di sotto delle palpebre.

«Sto bene, solo un po' di mal di testa e lo stomaco sottosopra.» mi sforzai di sorridere per essere convincente, ma dentro, mi stavo spezzando.

In realtà, non sto bene, non sto bene per niente.
Ho rivisto l'assassino di mia madre, lo stesso che mi tormenta i sogni da circa dodici anni, lo stesso che mi tiene sveglia la notte per paura di svegliarmi in preda alle urla come succedeva quando ero piccola.
L' ho visto a piede libero mentre mia madre giace a tre metri sotto terra da troppo tempo, per colpa della mia vigliaccheria.
Mi sono presa una coltellata nel fianco come se non fossi già piena di tagli che sanguinano costantemente.
Quindi non mi guardi così, la smetta di preoccuparsi per me, la smetta di avvolgermi con quelle iridi come se volesse venire ad abbracciarmi con fare materno.
Non ricevo un abbraccio dall'età di cinque anni, l'ultimo me lo ha dato mia madre.
E non parlo di quegli abbracci leggeri con tanto di pacche sulla spalla, no, di quelli ne ho ricevuti tanti.
Parlo di quelli che ti fanno scoccare la schiena, quelli che ti lasciano senza fiato, che ti fanno scoppiare il cuore dalle troppo emozioni contrastanti; perché gli abbracci sono qualcosa di troppo, se dati dalla persona giusta, perché quando la presa si allenta, sale il panico, consapevoli che da lì a poco quel contatto finirà.

«D'accordo cara. Ora riposati, ne riparleremo meglio domani.» si arrese, ma capii dalle rughe di tensione che le incorniciavano gli occhi che non se l'era bevuta del tutto.

Attesi paziente che chiudesse la porta e mi affrettai a raggiungere il bagno.

Accesi la luce e mi scontrai con il mio riflesso esausto, quasi devastato; ero già pallida di mio, ma in quel momento avevo l'aspetto di un cadavere.

Mi appoggiai per un attimo al lavandino e ripresi fiato a fatica.

Passò parecchio tempo prima che risollevassi lo sguardo verso il mio aspetto: le occhiaie accentuate, le labbra secche e le guance più scavate della norma mi rendevano più inguardabile del solito.

Lentamente mollai la presa dal lavandino e iniziai a sollevarmi la maglia a maniche corte che indossavo, grande il triplo di me.

Sussultai quando la pelle del fianco tirò strappandomi un sibilo, ma quando mi guardai allo specchio capii il perché: lo stronzo mi aveva ricucita.

Ero così presa a scappare il più in fretta possibile da non rendermi conto di non aver perso neanche un po' di sangue.

Restai per un attimo interdetta davanti allo specchio, mentre una miriade di pensieri correvano senza mai fermarsi al centro della mia mente.

Perché mi ha aiutata?

Perché mi ha lasciata andare via?

Cosa vuole in realtà da me?

Mi liberai dei vestiti più veloce che potei, ignorando le fitte di dolore che ogni impercettibile movimento mi provocava.

Aprii il getto d'acqua, impostai la temperatura giusta e quasi urlai quando la ferita venne a contatto con l'acqua, ma almeno, avevo smesso di pensare.

***

Ero a tavola da circa venti minuti e la signora Josslyn non mi aveva ancora rivolto la parola.

Stava preparando la tavola per fare colazione quando scesi in un cucina per aiutarla, dopo di che mi accomodai, facendo attenzione a non fare smorfie sotto i suoi occhi che non mi perdevano nemmeno per un secondo.

Non mangiai granché e lei se ne accorse, ma non disse niente al riguardo.

Stetti per alzarmi, pronta a sparecchiare ma la sua mano che si posava sulla mia, facendomi cenno di sedermi nuovamente, bloccò ogni mio intento.

Mi risedetti piano e attesi che riprendesse la questione lasciata in sospeso quella mattina, ma non lo fece.

«Ho parlato con la preside della high school di Manhattan, è disposta a riceverti anche se con un mese di ritardo. Lunedì inizi la scuola.» mi fece sapere, osservandomi con attenzione.

Contando che era già giovedì, fra tre giorni esatti avrei iniziato il mio primo e anche ultimo anno di liceo, fuori dalle mura dell'orfanotrofio.

Avevo così tanti pensieri per la testa in quell'istante che per qualche lungo attimo rimasi completamente in silenzio.

Non ero pronta a nuove facce, nuovi pregiudizi, lunghe occhiate deridenti, ma avevo perso già troppo tempo, la scusa "devo ancora abituarmi a questa vita" detta di getto a Miss Harriet, non reggeva più.

«Va bene.» mi limitai a rispondere, distogliendo lo sguardo dal suo, rimasto perplesso, per perdermi tra le nuvole grigiastre che si affacciavano dalla finestra.

Rimasi per qualche attimo così, consapevole che avesse altro da dirmi ma per qualche strana ragione rimase zitta.

Mi alzai poco dopo, quando compresi che non avrebbe detto altro, rintanandomi in camera mia, con la musica a palla pronta a sovrastare i pensieri che mi tormentavano da quando ne avevo memoria.

Rimasi ad osservare il soffitto per ore in compagnia delle cuffie, prima di voltare il capo contro la sveglia che avevo sul comodino che segnava le otto di sera.

Domani sera iniziamo la trattativa con Isak e Brian, ci riuniamo tutti al fireside.

Quell'incontro tornò a galla nella mia mente e senza perdere tempo mi sollevai dal letto, andando verso l'armadio.

Afferrai le prime cose che mi capitarono sotto tiro e iniziai a vestirmi.

Afferrai i miei amati anfibi, che mi rifiutavo di buttare via nonostante il loro aspetto logoro, dopo di che infilai la mano sotto al comodino afferrando il coltellino svizzero per infilarlo nella scarpa destra.

Presi il cellulare, le sigarette e i fiammiferi, spensi la luce e lasciai la stanza il più piano possibile, consapevole che verso quest'ora la signora Josslyn era completamente assorta dal suo programma televisivo preferito, dove quasi ogni volta cadeva vittima del sonno.

Come sospettavo la trovai distesa sul divano, completamente addormentata, mentre stringeva ancora il telecomando nella mano destra.

Afferrai la coperta ai piedi del divano, le presi con delicatezza il telecomando dalla mano per abbassare un po' il volume e la coprii fino alle spalle.

Accesi l'antifurto, nel caso fosse accaduto qualcosa in mia assenza e dopo averla guardata un'ultima volta, uscii con una sola meta nella mente.

***

Un'ora dopo ero fuori dal fireside, ad escogitare un piano per entrare senza farmi vedere dai buttafuori.

«Ehi forestiera, sei ancora in cerca di guai?» una voce conosciuta mi fece voltare e la ragazza dell'altra sera, insieme alla rossa che si trovava dietro il bancone, mi si materializzarono davanti.

Erano entrambe agghindate nel tipico modo delle ragazze della mia età, e mi ci vollero tutte le mie forze per non abbassare lo sguardo sugli stracci che stavo indossando.

«Hai la faccia di una che vuole entrare ma non sa come
farlo.» commentò divertita la mora, con i suoi occhi furbi fissi su di me è un sorriso sulle labbra.

«E tu hai la faccia di una che sa perfettamente come farlo.» ribattei con sicurezza, ricambiando il suo sguardo.

Bastò quell'attimo di complicità affinché ci avviassimo tutte e tre verso l'entrata del locale, dove senza metterci in fila proseguimmo senza fermarci.

La mora, che scoprii si chiamasse Astra, fece un cenno al buttafuori ed entrò senza perdere tempo seguita da me e dalla rossa, che si chiamava Lexi.

La musica ad alto volume faceva vibrare le pareti, ed in un attimo fummo catapultate tra una calca di persone che urlavano come pazze, mentre le luci a neon ruotavano senza sosta per tutto il locale che scoprii fosse a due piani.

Lentamente, si iniziò a intravedere un sorta di palco al centro del locale, dove un sacco di persone erano raccolte intorno a fare il tifo per qualcuno.

Seguii Astra, finché non arrivammo proprio lì davanti dove un ragazzo dai capelli scuri ballava in un modo da togliere il fiato.

«Vai, Geco!» sentii urlare Astra, seguita da altri innumerevoli urli mentre la versione mixata di Candy shop iniziò a propagarsi per tutto il locale.

Si mimetizzava col ritmo della musica in una maniera sorprendente, riusciva ad attirarti lì sul palco insieme a lui.

Restai imbambolata fino alla fine dell'esibizione, finché due ragazze afro non presero il suo posto mentre lui usciva di scena, andando incontro proprio ad Astra, indossando un berretto al contrario dopo averlo recuperato dalle mani di qualcuno.

«Ma guarda chi si vede!» urlò, abbracciandola.

«Sei stato pazzesco, come al solito! Hai visto mio fratello?» chiese Astra, mentre un po' del suo sorriso scompariva come anche quello del ragazzo.

«Solito posto.» indicò verso l'alto, al piano di sopra.

Il tipo quasi come percepisse il mio sguardo su di sé, si voltò, mostrandomi un sorriso amichevole, squadrandomi da capo a piedi.

Mi aspettai il disprezzo, qualche commento stupido sul mio modo di vestire come molte volte mi era già capitato, ma niente di tutto ciò accade.

«Io sono Joshua. Per le belle donzelle, solo Geco.» ammiccò con tanto di occhiolino.

«E tu chi sei bella pupa?» chiese con un mezzo sorriso sulle labbra.

«Nora, solo Nora.» dissi, con una punta di imbarazzo che mascherai meglio che potei dietro il tono apatico.

Mentre non conoscevo nessuno, ero con tre paia d'occhi puntati contro.

«Vado un attimo da mio fratello, resta qui con Geco e non fare danni.» mi disse, calcando di più sull'ultima parola come se sapesse già cosa fossi capace di fare, e in effetti, un po' lo sapeva.

La guardai allontanarsi insieme a Lexi e nel frattempo un braccio mi avvolse le spalle.

«Allora pupa, sai ballare?» mi chiese Geco, ed io non potei fare a meno di sorridere.

«Sì, ma non bene quanto te.» ribattei, mentre lui lasciò la presa per afferrarmi la mano e attirarmi verso il centro della folla.

«Adesso tu,» mi attiro di scatto verso di sé, facendo scontrare i nostri petti.

«Balli con me.» finì, dandomi le spalle senza mai lasciarmi la mano.

«Cosa?! No! Aspett-» le parole mi morirono in gola quando si fermò di scatto e io sbattei contro la sua schiena.

Le stesse ragazze afro che erano sul palco poco fa, ci stavano dando dentro sulle note di Renegade di Aaryan Shah.

I loro passi erano lenti, a tratti veloci ma sempre sensuali.

In un attimo Geco mi trascinò con lui, senza darmi modo di tirarmi indietro.

Iniziò a muoversi senza far caso a chi aveva intorno, mentre io rimasi ferma lì in mezzo, come bloccata.

Ed io ci provai, giuro, che ci provai a non chiudere gli occhi quando la musica prese a pulsarmi nelle vene, trascinandomi nella sua trappola come le sirene con i pescatori, ma persi in partenza.

Attirai Geco, con un sorriso stampato sulle
labbra che lui non tardò a ricambiare.

«Fammi vedere che sai fare!» esclamò, e non me lo feci ripetere due volte.

Mi voltai, scontrando le spalle con il suo petto solido mentre la sue mani non persero tempo a raggiungere i miei fianchi, iniziando a muoversi insieme a me.

Non capii come riuscissimo ad essere così coordinati in ogni passo, so solamente di non essermi resa conto di sorridere fino a quando la canzone non finì.

Ci guardammo a corto di fiato e nello stesso istante scoppiammo a ridere senza controllo.

Il fianco pulsava, ma tentai di non pensarci troppo.

«Sto morendo di sete.» ammisi, osservandomi intorno.

«Vai da quella parte e dii al barista che ti mando io, prendi quello che vuoi.» disse, indicando un angolo all'interno del locale.

Mi avvicinai facendomi spazio tra la calca di persone, e a poca distanza intravidi il bancone bar, dove un ragazzo faceva roteare tre bottiglie contenenti qualche intruglio alcolico come un giocoliere.

Stetti per raggiungerlo ma una chioma bionda attirò la mia attenzione, bloccandomi sui miei stessi passi mentre venivo spintonata a destra e a manca, facendomi sussultare ogni tanto per via del fianco.

Riconobbi la sua stazza senza nemmeno applicarmi, insieme al codino basso che teneva insieme quel groviglio di capelli ricci.

Iniziai a seguirlo alla svelta tenendo una mano sul fianco, attenta a non farmi spintonare proprio da quel lato mentre lo seguivo con lo sguardo.

Lo vidi andare incontro alle scale che portavano al piano di sopra e rimanendo ad una distanza di sicurezza, attenta a non dare nell'occhio, lo seguii passo passo.

Salutò alcuni ragazzi, o meglio loro vennero verso di lui dandogli qualche pacca sulla spalla ma niente di più.

Contrariamente al piano di sotto, il piano di sopra possedeva tavolini bassi e innumerevoli poltrone in pelle nera.

Si guardò furtivamente intorno prima di varcare una porta su cui vigeva il divieta alla clientela.

Lasciai passare qualche secondo e lo seguii, avvistandolo a qualche metro di distanza lungo il corridoio semi buio.

Mi appiattii contro il muro quando lo vidii scendere delle scale, che portavano verso una sorta di seminterrato.

Arrivati giù delle voci accompagnate da risate, rimbombavano forti e solo allora mi resi conto che non ero un seminterrato, ma un enorme parcheggio sotterraneo, completamente vuoto e poco illuminato.

Robin Hood si avvicinò al gruppetto dei tre uomini che parlavano tra di loro, affiancandone uno in particolare che attirò la mia attenzione più degli altri per via di quell'aria famigliare.

Mi osservai intorno, alla ricerca di una strategia che mi desse modo di spostarmi per poterli guardare in faccia.

Notai le saracinesche abbassate, dove quasi sicuramente erano parcheggiate altre macchine, e a passo felpato iniziai ad andarci dietro, attenta a non farmi sentire mentre gli giravo intorno.

Lentamente li affiancai stando in penombra, nascosta dietro la saracinesca abbassata, e vidi di profilo due uomini di colore con un sacchetto bianco tra le mani.

Spostai lo sguardo sul terzo uomo, quello che affiancavo il biondo e il fiato prese a mancare.

Non è possibile.

Non può essere.

Continuavo a ripetermelo come una cantilena, ma i fatti dimostravano il contrario.

Walter Moore era lì, e insieme lui, c'era anche lo stesso stronzo che si era intrufolato nella casa della signora Josslyn.

Una coincidenza? Non poteva essere.

Come diamine è possibile?

Il sacchetto arrivò tra le mani di Walter
e dopo averci immerso il mignolo se lo infilò in bocca, testandone la mercanzia.

Sorrise e fece un cenno del capo al biondo, che senza dire una parole andò verso un angolo ad afferrare una borsa che successivamente lanciò ai piedi dei due uomini.

Uno dei due si abbassò per vedere il contenuto della borsa, afferrò due mazzetti da cento dollari esaminandoli poi guardò l'altro uomo in piedi di fianco a a lui, facendogli un cenno del capo.

L'uomo in questione fischiò e poco dopo qualcuno con l'aiuto di una macchina da magazzino, trasportò una pedana di legno completamente colma di quei sacchetti bianchi in forma più grande.

Cocaina.

I due che sembravano gestire l'accordo si strinsero la
mano, e poco dopo, uscirono quando la saracinesca
che portava fuori venne alzata.

Attesi paziente finché non venne richiusa, e lentamente, dopo essermi assicurata che non ci fosse nessuno mi feci avanti, osservando attentamente la merce a terra.

Così, il pezzo di merda aveva continuato la sua vita da delinquente, nuotava beato nella ricchezza, sfruttava il denaro sporco e i suoi traffici illegali buttando nel dimenticatoio chi aveva sacrificato per essere dov'era.

Ma ben presto, i suoi giorni di gloria sarebbero finiti.

Sentii il rombo di un'auto, poi di un'altra e un'altra ancora, e intravidi oltre i pori della saracinesca che varie auto da corsa erano raccolte sul cigli di una strada che sembrava deserta.

Cercai una via d'uscita e la discesa per le auto da dove entravano ed uscivano dal parcheggio, mi aiutò nell'impresa.

In un battito di ciglia fui fuori e mi bastò poco per individuare Astra e Lexi, alle prese con un'auto.

«Mi sono giocata le ovaie che ci avresti trovate. Ti va una corsa, Nora?» chiese Astra, mentre riforniva l'auto, con qualche intruglio infiammabile.

Quel pensiero mi mando letteralmente in fiamme il cervello mentre stringevo tra le dita la scatolina di fiammiferi che avevo nella tasca.

«Passo, magari un'altra volta.»

«Quando vuoi, le corse le organizzo io.» mi fece sapere Astra, mentre Lexi era concentrata a sistemare le bombole d'ossigeno, se tali potevano essere definite, sui sedili posteriori.

Appena Astra finì con il recipiente lo lasciò a terra, accanto ad una tanica ancora piena che mi fece aumentare i battiti.

Stavo decisamente per compiere un enorme cazzata, ma quel pezzo di merda doveva pagare e per iniziare, avrei cominciato a rovinargli lo sballo.

«Aspettaci al traguardo, ci metteremo poco. Magari dopo andiamo a bere qualcosa.» disse Lexi con un sorriso, appena finì di sistemare le bombole sbattendo lo sportello dell'auto.

«Va bene, a dopo.» accettai, mentre loro salivano in auto e si avviavano verso la linea di partenza.

Attesi poco, e quando fui certa che non potevano vedermi afferrai la tanica ed iniziai ad avviarmi verso il parcheggio sotterraneo, mentre tutti erano distratti dai rombi delle auto pronte al via.

Mi ritrovai dinanzi alla merce a corto di fiato, aspettai che il panico mi divorasse le viscere per ciò che stavo per fare, che almeno un po' di inquietudine mi serpeggiasse lungo la pelle, ma non accadde niente.

In realtà, l'idea che lui mi cercasse, mi entusiasmava, l'idea che impazzisse senza sapere chi fosse il colpevole della malefatta mi dava soddisfazione.

A meno che, non sapesse già della mia esistenza.

Ero stanca di nascondermi, di stare nell'ombra, di lasciarlo dormire sogni tranquilli mentre i miei erano tormentati dai mostri che mi aveva lasciato.

Doveva sapere, che quella fatidica notte si era lasciato dietro un testimone.

Doveva sapere, che da adesso in poi, qualcuno, lo avrebbe tormentato allo stesso modo in cui ero stata tormentata io.

L'odore di benzina era forte, l'estremità del fiammifero era già pronta ad accendersi, quindi non persi tempo.

Esprimi un desiderio.

Mi sembrò quasi di aver sentito la voce dolce della mamma, ma io ancora una volta, non avevo nessun desiderio da esprimere, perciò lasciai cadere la fiamma, che provocò l'incendio.

Qualcuno mi scaraventò a terra quasi un secondo dopo, facendomi chiudere gli occhi per l'impatto e quando li riaprii, una ricciolo biondo mi stava solleticando il viso, mentre il suo fiato caldo, una miscela fatta di menta e tabacco, mi colpii il viso.

«Sai che cazzo hai appena fatto?!» mi aggredì scuotendomi per le spalle.

Ignorai la fitta di dolore che mi aveva provocato al fianco, capovolsi la situazione e in un attimo gli fui a cavalcioni.

Afferrai il coltellino dalla scarpa, feci scattare la lama e prima che potesse muoversi gli spinsi la punta contro la gola.

Le fiamme erano a poca distanza da noi, riuscivo a vedere la tensione sul suo viso, e molte altre emozioni contrastanti ma non ci badai.

Il fumo mi arrivò forte all'olfatto e combattei l'istinto di tossire.

«Ascoltami bene, stronzo.  Questa questione non ti riguarda, quindi stanne fuori,» spinsi la lama solo di qualche millimetro più a fondo, abbastanza da farlo sanguinare.

«O la prossima volta non mi fermo.» minacciai quasi in un sussurro, con il cuore che batteva a mille e le mani che tremavano.

Non sapevo quanto sarei stato in grado di spingermi oltre, ma avevo chiuso da così tanto tempo le emozioni sottochiave, da non provare un minimo senso di colpa mentre mi sollevavo per correre via.

Ma il sangue rimasto sulla punta del coltello, non mi lasciò indifferente.


Eccomi tornata dopo lunghi mesi di assenza con un capitolo ricco di avvenimenti.

Ho tante domande da porvi, e sono certa, che anche voi abbiate molti dubbi su alcune questioni presenti nel capitolo, ma l'unica cosa che posso dirvi è: nulla è stato lasciato al caso.✨

Non mi perderò in chiacchiere inutili, non ho intenzione di annoiarvi, ho solo una domanda da porvi: chi sarà mai la voce che guida Nora, nelle situazioni difficili?

Sbizzarritevi, ditemi tutto ciò che vi passa per la testa, sarò felice di leggere le vostre ipotesi, e se avete dubbi, chiedete senza esitazione.

Per tenervi aggiornate con possibili spoiler e capitoli in arrivo, vi invito a seguirmi sul mio profilo instagram: _crueljxx_

A presto!❤️‍🔥

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