Tᴇɴ.

Elias.

Tu,
anima selvaggia,
mi incasini le priorità.

Non dovevo essere lì.

Per nessuna ragione al mondo avrei dovuto trovarmi lì, a vagare senza una meta con le sue braccia a stringermi il busto.

Ma avevo troppe domande, troppe parole buttate all'aria senza essere concluse, troppi sussurri  soffocati in quegli occhi viola che urlavano senza fare rumore.

Ma io li sentivo, cazzo se li sentivo, come sentivo il battito che fuoriusciva dalla sua gabbia toracica e mi attraversava la schiena.

Più io acceleravo, più il battito del suo cuore aumentava.

Hai paura scintilla? O è l'adrenalina che sta salendo alle stelle?

Iniziai ad allontanarmi dalle zone trafficate di Manhattan, alla ricerca del silenzio, di un posto che spegnesse il via vai di pensieri che vagavano a trecentosessanta gradi nella mia mente.

Volevo dimenticarmi delle sue nocche spaccate, del trucco con cui aveva provato a nascondere una notte insonne e una sofferenza taciturna all'interno dell'iride, che ti taciturno non aveva niente, perché era la stessa che mi portavo addosso.

Non puoi nascondere il tuo tormento da me, non puoi perché è lo stesso che vedo riflesso nei miei occhi quando mi rivedo nei tuoi.

Rallentai con una frenata brusca, sul retro di quel posto che non aveva mai ospitato nessuno tranne me, prima di quel giorno.

Decisi di non interrogarmi, di non farmi domande a cui non sapevo rispondere in quel momento, decisi di stringere i denti per poi spegnere il motore senza togliere le chiavi.

Rimasi immobile per vari secondi se non minuti, mentre il rombo del motore smetteva di farmi vibrare le viscere e accentuava la stretta delle sue braccia su di me.

Sentivo di star per soffocare, non capivo se quel contatto mi infastidisse o meno, ma optai per la prima facendoglielo notare.

«Puoi lasciarmi adesso, non sei più in pericolo di morte.» sentii la freddezza nel mio tono di voce, tanto che me ne pentii subito dopo quando le sue mani scomparvero in un attimo.

Sentii l'aria farsi spazio con più leggerezza, ma il nodo che mi stringeva lo stomaco non mi permetteva di bearmene.

Scese dalla moto in un attimo con uno slancio, prima di abbassarsi la gonna a pieghe della divisa scolastica.

La guardai con la coda dell'occhio facendo lo stesso, mentre lei osservava le chiavi rimaste inserite nel quadro elettrico.

«Vedo che non impari mai.» mi derise, ma il divertimento non arrivava agli occhi.

Capii a cosa si stesse riferendo, visto che era riuscita a dare fuoco alla mia vecchia moto causando un corto circuito proprio grazie alle chiavi, dopo aver tagliato vari fili del quadro elettrico che lo avevano fatto andare in escandescenza.

A vederla da fuori, con quei lunghi capelli biondi tutti aggrovigliati a causa del vento sparato in faccia durante la corsa in moto, con la carnagione pallida e gli occhi da cerbiatta in quella ridicola divisa scolastica che le stava fin troppo bene - ma non si addiceva proprio alla sua persona - non dava di certo l'impressione di essere un'esperta della vita di strada.

Eppure, più sbirciavo nei meandri più remoti della sua essenza, fatta di ombre e segreti celati agli occhi dei meno attenti, più mi rendevo conto di quanto avessi sbagliato a sottovalutarla.

Mentre la guardavo non potei fare a meno di pensare alle sera prima, alle parole che mi aveva rivolto che sembravano essere un enigma ma che inconsapevolmente avevano anche la soluzione all'interno.

Ed io la soluzione l'avevo letta ma non compresa, l'avevo vista nelle sue lacrime ripiene di un rancore durato a lungo, nei suoi colpi decisi dettati dalla mancanza di autocontrollo; perché quella sera, il vaso di Pandora era stato aperto e richiuso alla velocità della luce, ma quell'avvenimento aveva cambiato le carte in tavola.

Ne io ne lei potevamo più far finta che non fosse successo niente.

«Puoi dar fuoco anche a questa, ma la rabbia non svanirà alla stessa velocità in cui il fuoco diventa cenere.» le dissi, ripensando alla rabbia che consumava me da anni, nonostante avessi provato a spegnerla bruciando tutto quello che avevo intorno.

«Parli per esperienza?» domandò con scherno, ma la curiosità nel suo tono di voce era palpabile.

Mi persi con lo sguardo su un punto indefinito, quando ripensai alla casa che avevo immerso di benzina, quando credevo di averle dato fuoco per spegnere i ricordi ma il motivo era di gran lunga diverso.

Le avevo dato fuoco per far sì che chiunque passasse nelle vicinanze di quel posto, non ricordasse chi ci avesse vissuto, ma chi aveva smesso di vivere su quel filo legato al ramo di un dannato albero, che avrebbe dovuto reggere solo il peso di un'altalena e non di un corpo che voleva togliersi la vita.

Sbattei le palpebre e la guardai, ma non riuscii a risponderle.

«Vieni.» le dissi brusco, allontanandomi da quello sguardo che tentava di scavarmi dentro, di scoprire cosa nascondessi.

«Dove siamo?» ribatté, quando le diedi le spalle e mi avviai verso le scale battute in ferro di quell'edificio, che si trovavano sul retro.

In pieno giorno evitavo di farmi vedere, quindi questa scorciatoia era ottima per arrivare lì dove io trovavo pace.

«Sei in vena di domande, scintilla.» scherzai, visto che era molto calibrata con le parole e quasi tutte le volte cercava di scappare da me.

Iniziai a salire e dopo la prima rampa di scale mi resi conto che non mi stava seguendo.

«Hai scelto un pessimo orario per uccidermi. Siamo in pieno giorno e buttarmi dal tetto di un hotel è un po' scontato, non credi?» riflette pensierosa, poggiata alla ringhiera.

Non riuscii a trattenermi dal ridere prima di guardarla per la bizzarra riflessione.

«Vuoi anche una morte originale, selvaggia?» le domandai, con tono leggero, prima di riprendere a salire, sentendo i suoi passi seguirmi.

«No, voglio solo una morte che lasci il segno per una giusta causa e non venga dimenticata.» rispose, fin troppo seria, con gli occhi fissi sui suoi passi.

La sua risposta non mi lasciò indifferente, ma rimasi in silenzio finché non arrivammo in cima.

Sciolsi le catene dal nodo che avevo fatto l'ultima volta e lentamente mi feci avanti, con uno strano senso di disagio a serpeggiarmi all'interno dello stomaco.

Iniziai a pentirmi di averla portata lì, di averle mostrato l'unico sprazzo di pace nel mio caos, anche se lei non poteva saperlo, non poteva sapere l'importanza che aveva quel posto per me ed avrei fatto in modo che non lo scoprisse mai.

«E qui che pianifichi i tuoi colpi, Robin Hood?» domandò, osservandosi intorno, con gli occhi che vagavano sul divano ricoperto dalla plastica in caso di mal tempo o altro.

No, qui vengo per scappare da tutto quello che mi tocca fare, avrei voluto risponderle ma evitai limitandomi ad un'alzata di spalle.

«Ogni tanto.» rimasi sul vago, andando verso il lieve rialzamento che incorniciava il tetto.

«Non ho molto tempo da dedicarti, dimmi quello che hai da dirmi e finiamola qui.» andò subito al punto, strappandomi un sorriso mentre mi affiancava guardando il resto dei grattacieli visti dall'alto.

«Che problemi hai con Walter?» le chiesi, mentre una follata di vento partì a raffica, quando il cielo iniziò a scurirsi per l'arrivo di un temporale.

«Io nessuno, è lui ad avere un problema.» ribatté senza darmi una risposta vera e propria.

«Ti reputi una tale minaccia da sentirti un problema per lui?» ritentai, provocandola, consapevole cosa scatenassero in lei quelle parole.

«Tu non immagini nemmeno in che modo posso diventare una minaccia per lui.»

«Allora illuminami.» ribattei, trattenendo una risata.

«Non farlo.» sentii il suo sguardo perforarmi il viso, quando si voltò per guardarmi.

«Cosa?» le chiesi facendo finta di niente, voltandomi verso di lei, anche se avevo capito perfettamente cosa intendesse.

Beccato.

«Non provare ad estorcermi informazioni, è successo una sola volta ma non permetterò che riaccada. Non puoi fregarmi Robin Hood, non due volte di fila.»

«Perché dai per scontato che voglia fregarti?»

«Non è forse così?» ribatté prontamente.

Riportai lo sguardo sul cielo che si scuriva sempre di più, pensando a quanto mi avesse ingannato quel giorno il tempo, facendomi credere che sarebbe stata una bella giornata.

Eppure non ne rimasi stupito, il tempo purtroppo non era stato l'unico ad avermi ingannato nella vita, ormai ci ero abituato.

«Vogliamo giocare a questo gioco, scintilla? Allora facciamo così: una domanda per una domanda.» proposi, voltandomi verso di lei, facendo il possibile per non distrarmi da quegli occhi tanto profondi quanto letali, per tutte le sfumature che vorticavano all'interno delle sue iridi.

Rimase a guardarmi per un tempo indefinito, cercando nei miei occhi qualcosa che mi tradisse inconsapevole che l'ultimo dei miei pensieri in quel momento, era fregarla.

«Va bene, giochiamo.» accettò, con una strana luce negli occhi mentre si voltava verso di me per fronteggiarmi.

«Prego scintilla, ti cedo l'onore di farmi la prima domanda.» la sfidai beffardo, consapevole che avrebbe colto l'occasione al volo e  ci sarebbe andata giù pesante.

«Perché lavori per l'assassino di tua sorella?» il modo sicuro in cui mi pose quella domanda, mi fece vacillare sui miei stessi piedi ma non mi permisi di distogliere lo sguardo dal suo.

Me lo aspettavo, anch'io come lei avevo fatto qualche indagine, anche se sembrava inesistente su ogni dannata cartella, c'era qualcuno che l'aveva riconosciuta.

La sera in cui la incontrai in quel dannato locale con il suo amico ballerino, non potei fare a meno di notare che fosse in compagnia di Astra e Lexi.

Astra era la sorellastra di Moore, per quanto lo odiava sapevo che non si sarebbe fatta nessun problema a mettergli i bastoni fra le ruote, e di certo non lo avrebbe vietato alla bionda che avevo davanti in quel momento.

Eppure quando andai da lei, feci il finto tonto, domandandole semplicemente chi fosse e come l'avesse conosciuta.

Dopo avermi spiegato cosa fosse accaduto allo Sweet quella fatidica sera, la stessa in cui avevo salvato il culo alla selvaggia, si lasciò sfuggire che Sandy - la proprietaria di quel posto - fosse sbiancata appena aveva visto la bionda all'interno del suo locale, ma non ha voluto dirle niente al riguardo.

Peccato che qualche giorno dopo io mi presentai lì, e dopo averle fatto un po' di pressione minacciandola di riferire a Moore che da circa sei mesi stavo mettendo io i soldi al posto suo visto che le cose al locale stavano andando male, iniziò a raccontarmi tutto tra un bicchiere di tequila e un altro, finché non si attaccò direttamente alla bottiglia.

«Ti sei appena risposta da sola; perché ha ucciso mia sorella. Sai come si dice, no? Gli amici tieniteli stretti, ma i nemici ancora più stretti.»

«Allora perché cazzo lo proteggi?» mi aggredì.

«Perché deve continuare a fidarsi di me! Tu non lo conosci, basta un minimo passo falso da parte mia e tutto quello che ho progettato nell'arco degli anni andrebbe in pezzi.» ammisi, forse con troppa facilità, mentre distoglievo lo sguardo dal suo per puntarlo verso il cielo ormai scuro.

«Cosa c'entrano le pietre?» continuò, strappandomi un sorriso.

«Calma scintilla, una domanda per volta. Adesso tocca a me» l'avvertì, prima di tornare a guardarla.

La stessa tempesta che sta per colpirci, vortica anche nei tuoi occhi.

«Che ha fatto a tua madre?»

Sì lasciò sfuggire una risata nervosa, evitando di guardarmi.

«Parti direttamente col botto, eh?» commentò acida, ma percepii la fragilità che celava all'interno di quella battuta fatta con la voce tremante.

«Non che tu ti sia fatta qualche scrupolo prima, quando hai avuto il coltello dalla parte del manico.» la presi in giro, ma lei continuava ad evitare di guardarmi.

Passarono minuti interi, minuti in cui l'aria selvaggia che contraddistingueva la sua figura divenne un'ombra, quando una fragilità che non le apparteneva prese il sopravvento sulla sua figura.

Sembrava così... piccola.

Ero sempre stato talmente concentrato sulla sua lingua tagliente, sugli occhi sfuggenti, la rabbia repressa e i gesti sconsiderati che commetteva da quando era spuntata sul mio cammino, da non rendermi conto di quanto fosse vissuto quel gracile corpo e quel viso costantemente imbronciato come se fosse in guerra ogni giorno.

«Non ci riesco.» parlò con voce tremante, iniziando a fare un passo indietro con gli occhi puntati ovunque tranne che nei miei.

Sapevo come si sentiva; aveva paura del mio giudizio, aveva paura che le confermassi che fosse colpa sua qualunque cosa fosse successa, aveva paura di ricadere nuovamente nella stesso vortice che la divorava da tempo, inconsapevole che da quel vortice non era mai uscita.

La vidi armeggiare con la catena del portone da cui eravamo entrati, nonostante fosse messa solo d'appoggio non riusciva a toglierla tanto le tremavano le mani.

Mi avvicinai cauto, mi feci spazio e le coprii le mani con le mie prima che le togliesse come se si fosse scottata e con una calma calcolata sciolsi la catena e spalancai il portone.

«Avanti, scappa, vatti a nascondere di nuovo. Continua a vivere nel passato, continua a incolparti e continua ad agire d'impulso, ma non è così che puoi battere uno come Moore. Ti ho dato una possibilità, ti ho concesso un posto nel mio piano ma se non conosco la tua storia non posso aiutarti. Puoi uscire da qui a fare di testa tua, ma non mettermi più i bastoni fra le ruote perché una volta fuori, non sarai più graziata dal sottoscritto.» dirle tutto ciò mi costò una fatica indescrivibile, ma non avevo tempo da perdere con una persona che non voleva essere aiutata e di certo non poteva mettere in secondo piano tutto quello per cui avevo lavorato fino a quel giorno.

Scontrò i miei occhi soltanto per un attimo prima di scappare via, eppure mi bastò per vedere i suoi ripieni di lacrime che non si concesse di versare.

Strinsi con forza i denti e aggrovigliai la catena appesa al portone intorno al polso, come se potesse tenermi fermo, come se potesse trattenermi dal correrle dietro per scuoterla e dirle di fidarsi di me.

Ma chi ero io? Chi ero affinché lei dovesse fidarsi di me?

E soprattutto chi era lei, lei a cui avevo concesso una possibilità senza volere niente in cambio?

Forse perché una possibilità era tutto quello che avrei voluto anche io, un tempo.

Rimasi fermo a rimuginare ancora, sotto il rombo della moto che sfrecciava via, segno che per la seconda volta mi avesse fottuto la moto oltre che la pazienza.

Oltre che la testa.

Estrassi il telefono dalla tasca e chiamai Evan per dirgli di venirmi a prendere, e ovviamente lo stronzo non perse tempo e iniziò a prendermi per il culo.

«La bionda colpisce ancora, eh?»

«Chiudi il cesso testa di cazzo, o te lo rompo di nuovo il setto nasale.» sbuffai spazientito, prima che delle enormi gocce d'acqua iniziassero a cadermi sul viso.

Meglio di così non poteva andare.



Dopo mesi e mesi di assenza eccomi tornata, stavolta sul serio!

Tra interrogazioni, stress, esami e maturità non avevo proprio il tempo per scrivere, ma ora che è tutto finito sono pronta a riprendere questi due pazzi fra le mani.👀❤️‍🔥

Attente ai ladri!

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top