Fɪᴠᴇ.

Nora.

Ognuno sì uccide
a modo suo.

C. Bukowski

«Vi ho stracciate!» sogghignò Lexi, mentre si metteva al volante dell'auto, seguita da me ed Astra.

Appena uscii da quel parcheggio sotterraneo di corsa,
le vidi arrivare al traguardo sotto gli esulti della gente, così mi unii alla mischia affinché nessuno mi notasse.

Non avevo intenzione di farmi scoprire subito, il mio scopo era far impazzire Moore anche a costo di lasciarci la pelle.

Le ragazze dopo aver raccolto i soldi delle scommesse mi  notarono, convinte che le stessi aspettando per andare a bere qualcosa come avevamo deciso prima.

Alla fine accettai di seguirle pur di andarmene in fretta da lì, arrivando in un classico locale dove giocammo per gran parte del tempo a biliardo, dove appunto, la rossa ci aveva letteralmente stracciate.

«Ci riprenderemo la rivincita, non cantare vittoria!» la riprese Astra, prima che le squillasse il telefono.

Lexi mise in moto e partì, mentre la mora appena vide il mittente sbuffò e respinse la chiamata, ma non passò neanche qualche secondo che il cellulare riprese a squillare.

«Quanto lo odio.» parlò a denti stretti, abbandonando il capo contro il finestrino, attirando così gli occhi dell'amica.

Il cellulare continuò a squillare a vuoto interrottamente, vidi Lexi stringere con forza il volante e continuare a lanciare strane occhiate ad Astra.

«Non la smetterà finché non risponderai.» disse sconsolata la rossa, mentre Astra alzò il capo dal finestrino e fissò il telefono allungo, che non smetteva di squillare.

«Che vuoi?» chiese con tono glaciale, appena decise di accettare la chiamata.

«Che cosa?!» gridò, attirando gli occhi preoccupati di Lexi su di sé, che non sapeva più se guardare lei o la strada.

«Non so un cazzo della tua lurida merce testa di cazzo, chiunque sia stato non farei altro che baciargli le mani! Te lo meriti bastardo, ti meriti questo e molto altro!» urlò con rabbia, prima di staccare la chiamata e lanciare il telefono dal finestrino.

«Astra...» la richiamò Lexi preoccupata, guardandola reggersi il capo tra le mani, con le spalle che si alzavano e abbassavano a un ritmo irregolare.

«Accompagnami a casa.» disse solo.

Lexi non rispose, in silenzio fece quanto chiesto.

Avevo capito chi fosse il mittente della chiamata e non sapevo se essersene preoccupata o meno, visto che mi trovavo nell'auto di due ragazze che erano in confidenza con quel figlio di puttana, ma la rabbia che consumava Astra aveva qualcosa di familiare.

Arrivammo dinanzi ad un palazzo ripieno di graffiti consumati dal tempo, com mura ricoperte di muffa che sembravano stesserò per cadere in pezzi.

Astra non sembrava di certo una ragazza che provenisse dai bassi fondi, ma chi meglio di me poteva sapere quanto l'apparenza ingannasse a volte?

Scese dall'auto senza dire una parola, non mi aspettai un saluto, capivo perfettamente quanto lo stato d'animo mettesse in ginocchio l'essere di una persona.

Lexi mi invitò a passare avanti e senza dire una parola ripartimmo quasi subito.

«Quei tizi l'altra sera ti hanno inseguita anche fuori, è successo qualcosa?» mi chiese titubante.

«Sono ancora viva da come puoi vedere, niente che non sia riuscita a gestire.» risposi, con la voce arrochita per il troppo tempo passato in silenzio.

Lei trattene una risata, mentre io non potei fare a meno di ripensare a cosa sarebbe successo se il biondo non si fosse trovato lì.

Lo consideravo il nemico, eppure c'era qualcosa in lui, che mi faceva dubitare; la sua bocca tagliava, ma i suoi occhi e i suoi gesti dicevano tutt'altro.

«Non ti ho mai vista da queste parti.» continuò la rossa, riportando la mia mente nell'auto.

«Preferisco passare inosservata.» ribattei, che in parte era vero, ma era prima di quella sera.

Non volevo farle capire che non ero di quelle parti.

«Con quegli occhi è impossibile.» commentò con dolcezza, ed io dovetti stringere i denti per non mostrare quanto facesse male ricordare a chi appartenessero.

«Tu invece? Sei della zona?» chiesi, calamitando l'attenzione su di lei per distoglierla da me.

«Si può dire di sì, ci vivo da circa dieci anni, sono canadese in realtà.»

«Astra invece?» chiesi con leggerezza, nascondendo la mia curiosità di saperne di più.

Vidi la sua espressione trasmutare, un senso di agitazione le irrigidì i tratti.

«Astra è nata e cresciuta nel Bronx.» rispose, con voce ferma senza sbilanciarsi più di tanto.

«Il palazzo in cui vive non sembra molto raccomandabile, se il suo ex venisse lì?» chiesi, dando per scontato che quello al telefono fosse un idiota che non aveva ancora accettato che avessero chiuso.

«Oh no, quello al telefono era suo fratello, o meglio, fratellastro. E fidati, Astra è perfettamente in grado di difendersi, ha imparato a farlo.» mi spiegò, con una punta di rammarico nella voce.

Rimasi in silenzio, decisi di smetterla di fare domande per non attirare troppo l'attenzione su di me, ma l'informazione chiave ce l'avevo: Astra aveva un legame fraterno con Moore, ma c'era qualcosa che lo aveva spezzato.

Restammo in silenzio per un po', prima che mi chiedesse dove abitassi per accompagnarmi a casa.

Durante il tragitto parlammo del più e del meno, e scoprii che lavorava al Sweet&Sour da circa tre anni, mi parlò della sua passione per il canto e che ogni tanto prestava in una delle esibizioni del locale, ed io le confessai della mia passione per il ballo, anche se subito dopo mi pentii, come se avessi tradito uno dei miei segreti più reconditi.

Non parlare mai di te, ogni più piccolo dettaglio può essere un informazione importante che porta al tuo punto debole.

Arrivata davanti casa la salutai, attesi che andasse via è solo successivamente andai incontro alla mia vera casa, lontana due isolati.

Nascosi il capo dentro al cappuccio e camminai a testa bassa.

Immersa nei miei pensieri iniziai a salire le scalinate dinanzi al portico, finché non sentii dei pezzi di vetro scricchiolarmi sotto gli anfibi, mentre altri infiniti pezzi erano sparsi dappertutto.

Sollevai di scatto il capo togliendomi il cappuccio, vedendo tutte le finestre dell'entrata rotte.

Le mani mi iniziarono a tremare mentre mi precipitai all'interno.

Ogni più piccolo oggetto era in pezzi, i cassetti dei mobili buttati a terra, vetro sparso dappertutto, quadri sfigurati dai tagli di un coltello, foto di Josslyn e del marito completamente rovinate.

Iniziai a sudare freddo mentre mi precipitai nel salone lì dove l'avevo klasciata dormiente.

La vidi accasciata a terra, accanto al tavolino in vetro ormai in pezzi e la televisione completamente capovolta.

Del vetro mi scricchiolò sotto i piedi e solo così attirai la sua attenzione; alzò il capo completamente assente.

Aveva il viso stravolto, gli occhi così rossi a causa delle lacrime versate e il volto talmente pallido da stringermi la gola in una morsa che non mi permetteva di respirare.

«Vieni qui, siediti.» mi chiamò con voce strozzata, battendo il palmo sul divano.

Mi avvicinai cauta, con i piedi appesantiti dal senso di colpa e l'animo pieno di una rabbia talmente profonda da farmi tremare ogni parte del corpo.

Mi sedetti accanto a lei, incurante del vetro.

Attesi paziente che iniziasse a parlare mentre afferrava una foto immersa dai cocci di vetro, che raffigurava lei e Joseph nel pieno della giovinezza.

«Il mio Joseph faceva parte della Marina Militare quando l'ho conosciuto, è stato via per sei mesi. Avevo il terrore che si disperdesse nell'immensità del mare e non tornasse più da me.» cominciò, mentre una lacrima le solcò il viso.

Strinsi i denti e trattenni le mie, guardandola con attenzione in attesa che continuasse.

«Ma alla fine tornò, mantenne tutte le sue promesse e si presentò davanti alla porta con due stecche di zucchero filato.» rise, mentre altre lacrime le riempivano gli occhi e scorrevano lente lungo le sue guance scavate.

Il mento inizio a tremarmi dolorosamente, stavo lottando contro le mie stesse lacrime, contro la mia stessa sofferenza, percependo tutta la nostalgia che le soffocava la voce.

«Con sé porto anche qualcosa di prezioso, una gemma dello stesso colore dei miei occhi. Avevano fatto un immersione, alla ricerca dei compagni che non ce l'avevano fatta durante una bufera. Cercarono i corpi in lungo e in largo nelle profondità dell'oceano, ed è lì che trovarono una sorta di cassa ripiena di vecchi oggetti preziosi, come anche gioielli provenienti dall'antichità che valevano un sacco di soldi. Oggetti che Joseph e i suoi compagni non consegnarono alle autorità. Non so come fecero, non erano soli durante l'immersione ma riuscirono a nascondere la scoperta di quegli oggetti preziosi, tornandoci senza la presenza delle forze militari che li tenevano d'occhio. Si misero d'accordo, estrassero quel tesoro dalle profondità del mare e contrattarono con un nobile aristocratico di Londra. Era un affare illegale, ma i soldi che potevano ricavare da quell'uomo erano molti di più di quelli che potevano guadagnarci da parte delle autorità, che volevano avere più della metà che spettava. Quella pietra fu l'unica cosa che si tenne Joseph, mentre tutto gli oggetti vennero sparsi per il mondo da quell'uomo.» finii, con gli occhi persi nel vuoto.

Mi osservai intorno, guardai minuziosamente tutta la distruzione avvenuta all'interno di quella casa e iniziai a comprenderne il perché.

«Hanno preso la pietra.»

Josslyn rimase in silenzio.

«Se nessuno sapeva di questo oggetti di valore, perché sono venuti a cercarli?»

«Sono passati quarant'anni da allora ragazza mia, chi ne ha una fetta non si accontenta, ne vuole ancora e ancora ed è disposto a tutto per averla. Qualche pezzo grosso che ne ha avuto una parte ha deciso di volere tutto, anche a costo di mettere sottosopra il mondo.»

Strinsi i pugni con forza e feci per alzarmi ma le sue mani mi trattennero.

«Non so cosa tu abbia combinato, ma non devi immischiarti con queste persone per me. Ho ceduto il primo oggetto prezioso ricevuto dalla persona più importante della mia vita, l'ho fatto perché non sarà di certo una pietra a tenere in vita il ricordo di mio marito, l'ho fatto perché non voglio che ti accada niente di brutto.» confessò, guardandomi con occhi lucidi.

Rimasi in silenzio ad osservare quel senso di protezione e affetto che le scaldava le iridi, rimasi ferma ad assorbirne la profondità, rimasi per un ultimo attimo a godere di quel sentimento che avevo provato solo tra le braccia di mia madre.

«Ti hanno minacciata.» dedussi, e l'unica risposta che ricevetti furono due occhi ripieni di lacrime e una paura vivida sul volto.

«Riportami in orfanotrofio.» parlai con voce dura, stringendo i denti per non vacillare mentre trattenevo le lacrime che mi stavano soffocando.

La mia presenza la stava mettendo in pericolo, ma io non potevo tirarmi indietro non quando avevo a portata di mano l'assassino di mia madre.

La signora Josslyn mi guardò sconvolta per un tempo indefinito, ed io stavo facendo fatica a reggere il suo sguardo ferito dinanzi alle mie parole.

«Come puoi chiedermi una cosa del genere?» domandò con un filo di voce.

La guardai sofferente, incapace di reggere ancora per molto il suo sguardo, ma l'unica cosa che potevo concederle era una spiegazione.

«Mia madre non è morta di overdose, non ha mai toccato una pasticca o qualsiasi tipo di droga.» parlai, distogliendo lo sguardo, non volevo percepire le sue emozioni, le mie mi stavano già uccidendo.

«Mia madre è stata uccisa. Ed io ho assistito, ero lì.» confessai con voce tremante.

Ero lì ma non ho fatto niente.

«Avevi... Avevi cinque anni.» balbettò la signora Josslyn, potevo sentire l'incredulità nel suo tono di voce.

Annui soltanto, mentre iniziai a torturami le mani rivivendo quella notte.

«Non devi uscire per nessuna ragione, mi hai capito? Qualsiasi cosa tu senta devi rimanere qui, hai sentito nuvola? Promettimelo!» mi scosse per le spalle con forza prima di tendermi il mignolo, in attesa che glielo stringessi.

«Ho paura, mamma.» confessai con la voce che tremava.

Lei mi afferrò il viso con determinazione, si specchio nei miei occhi, senza nemmeno un accenno di paura.

«Non devi, niente può toccarti! Finché ci sono io nessuno può farti del male!»

Quella fu la prima volta che rimpiansi con tutta me stessa di aver mantenuto una promessa.

Non l'avrei salvata, avevo cinque anni in fondo, ma almeno non avrei vissuto con questo senso di colpa nel corpo e nell'anima.

Ma ero vicina al pareggiare i conti e non avevo intenzione di fermarmi, mia madre aveva dimostrato coraggio fino all'ultimo momento, adesso toccava a me.

«Tu sai... chi l'ha uccisa?» mi chiese piano l'anziana.

Sorrisi, con gli occhi puntati sullo spacco irregolare della finestra che si affacciava fuori, seguendo il tratto irregolare delle rottura, che diventava sempre più profonda mentre arrivava al colpo che l'aveva fatta a pezzi.

«Lo so, e sto per rendergli la vita un inferno.» risposi, voltando il capo verso di lei per guardarla negli occhi.

«Nora, sei arrabbiata e ti capisco, ma sei solo una ragazzina, non puoi farti giustizia da sola. Perché non andiamo dalla-»

«Polizia?» la anticipai con scherno.

«E dove cazzo era quando mia madre era squarciata come un maiale sul pavimento e loro hanno deciso di scrivere come "causa della morte": overdose?» quasi urlai, avvicinando il viso al suo.

La vidi arretrare spaventata, sconvolta dal mio atteggiamento totalmente diverso dal solito.

Ma lei non sapeva, non sapeva cos'ero diventata in quei dodici anni passati in orfanotrofio, non ero una ragazzina arrabbiata con il mondo, non ero mai stata una ragazzina, la vita non me lo aveva permesso.

Ero un accumulo di rabbia verso me stessa, volevo farmi giustizia da me perché di giusto nella vita non c'era niente, volevo vendetta con il rischio di pagarne le conseguenze perché non mi sentivo meno colpevole dell'assassino.

Ero rimasta ferma, ero rimasta immobile a guardare convincendomi che stessi rispettando una promessa quando in realtà, avevo solamente paura.

Ero stata una vigliacca, una vigliacca che adesso sperava di poter ripagare la vita di sua madre macchiandosi mani e anima, con il sangue di colui che l'aveva uccisa.

«Non posso fermarmi, non voglio fermarmi.» scandii con forza le parole mentre la guardavo negli occhi, con una lacrima solitaria a rigarmi il volto.

«Riportami in orfanotrofio, cambia casa, vai in un posto lontano da qui e non cercarmi.» le dissi con voce tremante, mentre altre lacrime iniziarono a bagnarmi le guance.

«No! Non se ne parla!» ribatté, continuando a negare col capo.

«Guardati intorno, hanno distrutto tutto e non solo per la pietra.» provai a farla ragionare.

«Non m'importa, ho scelto di averti con me, non ho intenzione di lasciarti, tu più di chiunque altro meriti di avere una famiglia. Io so di non essere il massimo, insomma ma-ma posso impegnarmi e-» senza darle modo di continuare, l'attirai a me e l'abbracciai, la strinsi più forte che potei e le sussurrai: «Tu sei perfetta, non avrei desiderato famiglia migliore anche se per poco.»

«Io non ti lascio.» mi sussurrò, stringendomi a sé ancora più forte, inconsapevole che mi stesse spezzando dentro.

«Lo so, per questo devo lasciarti io.» le sussurrai a mia volta, tentando di non vacillare.

«No, non puoi.» si staccò, guardandomi con occhi spaventati.

«In orfanotrofio avevo un tutore con cui sono rimasta in contatto. Domattina lo chiamerò e ti farò trasferire, se ti rifiuterai chiamerò io stessa l'orfanotrofio per farmi portare via.» le dissi, diventando il più seria possibile trattenendo le lacrime.

«Non puoi farlo...» ribatté, ma nemmeno lei era sicura delle sue stesse parole.

«Io non sono quella che credi Josslyn. Ti prego, fai come ti dico, ti prometto che verrò a trovarti, ti chiamerò ogni volta che potrò e andrò a scuola come volevi, ma devi andartene da cui, non posso avere anche te sulla coscienza, non lo sopporterei.» provai di nuovo a farla ragionare, con la voce tremante a tradirmi.

Continuò a negare col capo prima di scoppiare in lacrime abbassando lo sguardo.

C'era vincita e perdita in quel gesto.

Vincita perché sarebbe rimasta in vita, perdita perché
sarei tornata di nuovo nella solitudine, allontanando l'unica persona che aveva provato a darmi affetto negli ultimi dodici anni.

Mi sollevai a fatica e salii in camera mia, aprii il cassetto e afferrai il cellulare che avevo giurato di usare solo in casi di emergenza.

Avviai la chiamata verso l'unico numero memorizzato all'interno, con la paura che non squillasse.

Con mia grande sorpresa lo fece e al terzo squillo, la voce del mio maestro di vita mi colpii l'udito.

«Sapevo che mi avresti chiamato.» parlò per primo, senza nessuna forma di saluto.

«Ho un problema.» confessai.

«Ne hai più di uno in realtà, un gangster che ti da la caccia è tra quelli.» ribatté prontamente.

«So quello che sto facendo.» lo rassicurai.

«Non è quello che ti ho insegnato.»

«Mi hai insegnato ad agire come meglio credevo e a prendermi le conseguenze, è ciò che sto facendo.» gli rammentai.

«Ti ho anche insegnato a non agire d'istinto, eppure guardati intorno: in tre giorni sei rimasta ferita, hai ammiccato un incendio e hai una taglia sulla testa, tralasciando il resto.»

Sollevai gli occhi al cielo rimanendo in silenzio, era inutile ribattere, sapeva sempre essere in vantaggio.

«Assicura protezione alla signora Josslyn, portala lontana da qui e fai sì che non sia rintracciabile. Risolvi la situazione anche all'orfanotrofio, non posso muovermi facilmente da lì, rimarrò in questa casa.»

«Altro?» ribatté.

«Per ora niente.»

«Attenta a quello che fai, io faccio solo da intermediario, non posso proteggerti.» mi avvisò, ricordandomi l'ovvio.

«Non voglio protezione, puoi stare tranquillo.» senza attendere risposta, staccai la telefonata.

Posai il cellulare e con un sospiro rilassai le spalle, prima di sentire il rombo di una moto.

Uscii dalla mia camera e scesi le scale di fretta, lanciai un' occhiata alla signora Josslyn, che sembrava essersi addormentata sul divano, incurante del casino che aveva intorno.

Mi affrettai ad uscire quando il rombo mi arrivò nuovamente all'udito, e arrivata sul portico, rimasi ferma a guardarlo in sella alla sua moto,
con i piedi poggiati a terra per rimanere in equilibrio.

Aveva i capelli legati in un codino basso con una ciocca a scendergli sul viso, gli occhi fissi nei miei e una giaccia di pelle a fasciargli le spalle larghe.

Si aspettava che andassi verso di lui, che lo sfidassi per i danni che aveva arrecato, ma io non soddisfavo le aspettative di nessuno.

Hai toccato un tasto che non dovevi toccare, pagherai a tempo debito, Robin Hood, ma per ora puoi dormire sogni tranquilli.

Accolsi la sua sfida, dandogli le spalle per rientrare in casa, pronta a mettere in ordine tutto quel casino prima di concentrare completamente le mie attenzioni su di lui.

Ciao scintille, è un po' che non parliamo!✨
So che l'attesa tra un capitolo e l'altro è tanta, ma gli impegni sono molti e il tempo libero davvero poco.
In questi giorni di festa mi dedicherò alla storia, stiamo entrando nel vivo della trama e ci sarà da divertirsi.
Spero che abbiate trascorso un buon Natale, e confido in un felice anno nuovo!
Attente ai ladri, ci sentiamo presto!❤️‍🔥

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