Spettro

Puliva la pistola nella stanza al primo piano, alla luce dell'unica lampada a cherosene. La proprietaria della pensione, Edna Clifford, gli aveva detto di non abusare del combustibile. Ne era rimasto poco e Mort Cunningham, il tizio che la riforniva, non sarebbe passato prima di un paio di giorni. Ma il rito della pulizia era qualcosa di troppo necessario per Warren. Lo faceva sentire al sicuro. E non è a questo che servono i rituali, anche i più meschini?

Prese il tamburo e lo vuotò. L'arma era sparsa sul tavolo. Pezzi piccoli e più grandi. Un'arma così letale ridotta al silenzio e all'inutilità. Ma gli piaceva lo stesso. Gli piaceva ridurla in pezzi per poi assemblarla. Gli piaceva pulirla e oliarla, prendersene cura. La fiamma della lampada proiettava sulla superficie del tavolo le ombre di ogni pezzo. Dalla finestra aperta entrava una brezza fresca che gonfiava le tende sottili e pallide. Nel gonfiarsi si separavano quel tanto che bastava per guardare la luna in alto e la via polverosa in basso. Pensò: chissà come se la cava Buster? Probabilmente dormiva in un box con la sua razione di biada.

Le dita di Warren danzavano da un pezzo all'altro: la canna, il calcio, il tamburo... Zampe rosa di un ragno cieco e alieno che esplorava con il tatto un mondo di minuscoli relitti. Warren alzò la testa di scatto. Era l'eco di uno sparo quello che sfumava in lontananza?

Un cowboy ubriaco, pensò e tornò al suo rituale.

Le dita ripresero a danzare. Il ragno rosa a esplorare. Il rituale era a metà. Non che contasse i minuti. Era speciale proprio per quello, perché demoliva lo spazio e il tempo. Però faceva freschetto. Anzi, faceva proprio freddo. S'alzò, urtato da quelle brevi interruzioni che spezzavano la sacralità del suo rituale e andò alla finestra. La brezza gonfiò le tende, le separò al centro e Warren vide la via polverosa. C'era qualcuno che passeggiava. Una donna. Indossava una veste lunga, col disegno avvolgente di fiori rossi. I capelli li portava raccolti in una crocchia austera. La faccia era bianca come se indossasse una maschera di cipria. Camminava in modo strano.

Le tende ricaddero e, mentre si richiudevano come un sipario, Warren ci arrivò: la donna non camminava, fluttuava.

Gli si gelò il sangue. La brezza gonfiò di nuovo le tende, il sipario si divise e Warren la vide. La lunga veste non si gonfiava mai all'altezza delle ginocchia. E ora che ci faceva caso, non vedeva i piedi pestare la via. Anzi, lo spazio tra l'orlo della veste e la polvere era vuoto. C'era solo aria, lì.

Giù il sipario.

Warren sentì che il cuore galoppava come un puledro imbizzarrito. Rimase a lungo impalato come un totem, a fissare lo spazio chiuso tra le tende. La fiamma della lampada rimpicciolì come se avesse paura. Le ombre nella stanza si allungarono, strisciarono sul tavolo e sui pezzi della pistola, sulle lenzuola e sulla carta da parati.

Spettro.

Una parola che resuscitava terrori primitivi. Una parola spaventosa al pari di stupro, matricidio o esorcismo. Gli attraversò la mente, tornò indietro e lì rimase a brucare.

Spettro.

Come una verità inoltrata da Dio. Gli vennero in mente le storie da bivacco, che cambiavano in base a chi le raccontava ma avevano tutte un elemento in comune: gli spettri senza piedi.

Ma sono storie, si disse e gli sembrò una considerazione sensata, che quasi lo convinse.

Poi la brezza sollevò e separò le tende e la realtà si ribaltò di nuovo come una calza vecchia e puzzolente. Warren guardò in basso e vide la donna che fluttuava nel mezzo della via polverosa. Guardava davanti a sé, come se ci fosse qualcosa di interessante più in là, dove lo sguardo di Warren non arrivava. Di colpo si voltò verso la finestra. Due occhi neri, nei quali non palpitava vita, fissarono Warren con odio infernale. Warren sobbalzò, fece un passo indietro, urtò col tallone il bordo di un asse un poco rialzata e cadde col culo per terra. Fece un bel tonfo. Il pavimento tremò. Warren si morse il labbro e si lamentò: era caduto sull'osso sacro.

Si portò una mano lì dove gli doleva e udì passi in corridoio. Passi frettolosi. Si avvicinavano.

Spettro.

Stavolta non fu una parola ma un'immagine, quella del viso coperto di cipria dal quale spuntavano due occhi neri e piccoli come uvette. S'era introdotta in casa e voleva lui, voleva punirlo per averla spiata e chissà cosa gli avrebbe fatto. I passi si fermarono dietro l'uscio. Warren vide il baluginio di una luce gialla sotto la fessura della porta. Lo spettro bussò.

«Signor Marsh?»

Conosceva quella voce.

«Va tutto bene?»

Warren riprese a respirare. «Sì, signora Clifford», disse.

«Posso entrare?» e aprì la porta senza aspettare un "sì".

Un'ombra magra scivolò dentro. Edna fece capolino. Il cerchio di luce del lume che aveva in mano le imbrigliava il volto e le conferiva un aspetto cadaverico.

«Che ci fa lì per terra?»

«Sono inciampato su un'asse rialzata.»

«Oh, buon Dio. Dirò a Clint di sistemarla. È il mio tuttofare e si occupa lui di queste cose. Io sono troppo vecchia per i lavori di carpenteria.»

Warren si rialzò. Una scossa gli risalì dall'osso sacro. Si portò una mano lì e grugnì.

«Le fa molto male?»

«Abbastanza.»

«Vuole che chiami Doc?»

«Non serve, passerà.»

«Come mai era in piedi?»

«Stavo pulendo la pistola, poi mi sono alzato per chiudere la finestra e...»

Si azzittì. Quella conversazione gli aveva cancellato la memoria per un attimo. Ma ora che ci era tornato su, le suggestioni sopite lo aggredirono. Guardò le tende che si gonfiavano. Edna lo vide cambiare espressione, seguì la direzione del suo sguardo e disse: «Faccia finta che è una signora un po' picchiata che cammina solo di notte.»

Warren si voltò a guardarla, stupito e disorientato.

«Io faccio così. È l'unico modo per non impazzire.»

L'espressione di Warren non mutò.

«Stavo scendendo di sotto a farmi un tè. Se vuol venire, le spiego. Le cose diventano meno spaventose davanti a una tazza di tè.»

Aprì del tutto la porta come per invitare Warren a uscire, quindi girò i tacchi e si incamminò. Warren la seguì sulle scale, dolorante e smarrito. Edna gli stava davanti e illuminava il tragitto. Con quella lampada spianata verso il buio pareva una traghettatrice di anime. Arrivarono al piano di sotto, attraversarono il salotto e si spostarono in cucina. Lì i clienti della pensione consumavano i pasti. La colazione era libera, ma pranzo e cena avevano orari prestabiliti ed Edna ci teneva che fossero tutti puntuali. Anche lei aveva i suoi rituali e ne rispettava la sacralità.

Posò la lampada sul tavolo e ne accese un'altra. Warren prese posto.

«Immagino che sia turbato», disse Edna.

«Turbato non rende abbastanza», fece Warren.

Edna annuì come se capisse. Fece per dire qualcosa, ma poi sentì rumore di passi al piano di sopra e si fermò.

«Mi sa che non siamo gli unici a soffrire di insonnia», disse.

I passi si spostarono sulle scale. Una luce sgorgò nel salotto. Videro il cerchio di luce del lume che galleggiava nel buio. Nella luce c'era un volto anziano con due occhi luminosi. Il nuovo arrivato si fermò sulla soglia della cucina.

«C'è un'epidemia di insonnia?» chiese.

«Signor Marsh, le presento il professor Hans Berger.»

«Edna insiste con la storia del professore, ma la verità è che sono in pensione da una vita.»

«Ti chiamo professore non perché vai in un edificio tutte le mattine, ma perché hai le risposte a tutte le domande.»

«Magari fosse così.»

Hans prese una sedia, posò la lampada e la spense. C'era abbastanza luce.

«Allora, che ci fate in piedi a quest'ora? Una passeggiata sul viale dei ricordi?»

«L'ha vista», disse Edna.

Hans non reagì. Si limitò ad annuire.

«Immagino che avrà parecchie domande», disse a Warren.

«Immagina bene», rispose Warren.

«Allora coraggio, non sia timido.»

Warren ci pensò su. Hans non gli mise fretta. Capiva il suo stato d'animo. Diavolo, lui stesso se l'era quasi fatta addosso la prima volta. Lasciò a Warren il tempo di elaborare le sensazioni che gli strisciavano dentro e di organizzarle in qualcosa di coerente.

«Quella donna...» fece Warren. «Che cos'è?»

«Credo che lei lo sappia», disse Hans. «Si capisce dalla domanda che mi ha fatto. Poteva chiedermi chi è e invece mi ha chiesto che cos'è.»

«È uno spettro?»

Hans annuì. Edna sospirò, tuffò una mano nella scollatura della veste da notte e prese a giocherellare col crocifisso.

«Ha uno strano vestito. E poi la faccia... Sembra tutta coperta di cipria.»

«Perché è un fantasma giapponese.»

Warren reagì con un cipiglio. Hans sorrise, non riuscì a trattenersi. La conversazione lo richiedeva.

«Come sa, tanti anni fa i giapponesi ci invasero», disse Hans. «Provammo a ricacciarli oltre il mare, ma si rivelarono più tosti del previsto. Quei loro samurai erano in gamba. Ci conquistarono con le spade e l'astuzia. L'acciaio e il cervello si rivelarono più forti del piombo e della forza bruta. Dopo la vittoria cominciò l'esodo. Arrivarono navi piene di gente. L'arcipelago dal quale venivano si svuotò nel giro di un paio d'anni. Sulle isole rimase solo un pugno di anziani, troppo vecchi o malati per un viaggio così lungo.

«Edna, cara, potrei avere un sorso d'acqua?»

Edna smise di giocherellare col crocefisso e si alzò a prendere caraffa e bicchiere. Versò l'acqua e la diede a Hans, che bevve.

«Grazie. Dov'ero rimasto?»

«All'esodo», disse Warren.

«Giusto. Ecco, credo che l'esodo sia il motivo per cui abbiamo un fantasma giapponese che passeggia di notte sulla via principale. Quando quelli si sono trasferiti qui, le loro leggende li hanno seguiti.»

Warren reagì con un altro cipiglio.

«Lo so che sembra una follia, ma è l'unica spiegazione che abbia un minimo di logica. Prima che i giapponesi si trasferissero qui, non c'erano spettri come quello lì. Ha notato che non aveva i piedi?»

«Sì...»

«Ho parlato con il signor Chang, che ha una drogheria qui in paese, e mi ha detto che gli spettri delle leggende giapponesi non hanno i piedi. Anzi, per essere precisi non hanno proprio le gambe.»

Warren era sempre più stranito. Gli pareva di vivere in un sogno.

«Ma come è possibile?» riuscì a chiedere. «Voglio dire... sono leggende. Storie inventate. Non sono reali.»

«Lo credevo anch'io», disse Hans. «Eppure lì fuori c'è una donna con un kimono e la faccia incipriata che se ne va a spasso come un aquilone trasportato dal vento. Come se lo spiega?»

Warren ebbe un moto di frustrazione. Strinse i pugni.

«Lo stai facendo agitare», disse Edna.

«Sto bene», borbottò Warren, ma i pugni restarono serrati come fiori ostinati a non sbocciare.

«Le storie, signor Warren, hanno il potere di solcare i mari e le montagne. Spesso arrivano in terre lontane e mettono radici. A volte qualcuno le scrive, così sopravvivono a lungo.»

«Ma quella donna non è una storia», insisté Warren.

«Lo è e non lo è.»

Warren si passò le mani sul volto e sospirò. Hans sorrise.

«È difficile da comprendere, me ne rendo conto...»

«Difficile è beccare una bottiglia a una gara di tiro mentre il tuo cavallo scantona», disse Warren. «Questa è roba da fusi di testa.»

Hans guardò Edna senza perdere il sorriso. «Pensa che siamo fuori di testa.»

«Lo penserei anch'io al suo posto», disse Edna.

Warren capì di averli offesi. «Non volevo dire che voi due siete fuori di testa, ma che questa storia delle leggende che seguono i cristiani lo è.»

«È un po' la stessa cosa, visto che la teoria l'ho elaborata io. Comunque non ci siamo offesi. Mica è la prima persona che ci prende per matti.»

«E non sarà neanche l'ultima», disse Edna.

«Già, ne passa tanta di gente qui. Molti di quelli che si fermano per più di una notte la vedono. E quando ci chiedono di lei, io gli racconto la mia teoria e quelli mi guardano come se avessi un occhio sulla fronte. All'inizio mi infastidiva, ma col tempo ci ho fatto il callo. Ho imparato a mettermi nei panni degli altri.»

Guardò Edna e si sorrisero. In quei sorrisi identici si nascondevano conversazioni e stati d'animo condivisi nel corso di notti insonni. Warren si sentì escluso per un momento. Poi Hans riportò i suoi occhi da furetto su di lui e la sensazione passò.

«Penso che le storie siano vive», disse Hans. «E credo che siamo noi a renderle tali. Un bravo narratore può dar vita a una storia, letteralmente. Anche chi ascolta può farlo, a patto che abbia sufficiente immaginazione. I bambini sono maestri in questo. Ha mai fatto caso a come ti fissano mentre gli racconti del drago che si china sul cavaliere? Hanno due occhi grandi così, lucidi e pieni di ansia, ma anche pieni di speranza. Vedono il drago chinarsi, vedono la sua ombra gigantesca coprire il cavaliere e la sua bocca aprirsi e aspettano di sapere se il cavaliere se la caverà. Non pensano che stanno ascoltando una storia, ci vivono dentro. Per loro è reale quanto la terra sulla quale camminano.»

«Mi sono perso», disse Warren.

Hans non se la prese. Si limitò a sorridere come se fosse in possesso di una verità che Warren ignorava. Il suo era il sorriso di chi ha attraversato più volte una tempesta e sa come affrontare quelle che arriveranno.

«Quella donna è reale perché tante persone credono che lo sia, e a furia di crederci l'hanno resa reale. E quando se ne sono andati, quella cosa si è sentita trascurata e li ha seguiti.»

Warren si girò verso Edna, in cerca d'aiuto. Edna, che teneva il mento posato sul palmo, rispose con un sorriso stanco. Warren tornò ad Hans.

«Voi ci credete davvero.»

Non era una domanda.

«Proviamo a spiegare qualcosa che non capiamo. Quella donna è un mistero, un po' come Dio. Ma almeno lei sappiamo che esiste», disse Hans.

Edna gli rivolse un'occhiata di biasimo.

«Scusa cara, lo sai come la penso.»

Le inviò un sorriso dolce come un cucchiaino di miele. Edna rispose come l'immagine in uno specchio. Warren ebbe la sensazione che tra quei due ci fosse del tenero.

«Io non riesco a crederci», disse di punto in bianco. «È una storia troppo assurda.»

«Lo capisco», rispose Hans.

Sembrava sincero, come se avesse fatto quella conversazione e dato quella risposta dozzine di volte a dozzine di persone.

L'orologio a pendolo, sistemato in un angolo del salotto, suonò quattro rintocchi.

«Se n'è andata», disse Hans.

Warren si accigliò.

«Lo spettro», spiegò Hans. «Appare alle tre in fondo alla via e scompare alle quattro in punto come un miraggio.»

«Come sa che sono le quattro?»

«La pendola ha suonato quattro rintocchi.»

Warren spinse la sedia all'indietro e s'alzò. Si scusò in modo affettato e disse che voleva farsi almeno qualche ora di sonno prima di ripartire.

«Dov'è diretto?» chiese Hans.

«Dove c'è lavoro per le mie pistole», rispose Warren.

Girò i tacchi e raggiunse la soglia, ma Edna lo fermò: «Prenda la mia lampada. S'è già fatto male una volta, stasera.»

Warren le lanciò uno sguardo indecifrabile, s'allungò verso il tavolo a prendere la lampada, la accese e lasciò la stanza. Lo sentirono salire le scale e spostarsi di sopra, lungo il corridoio. Il suono di una porta che si chiudeva disse loro che s'era barricato nella sua stanza.

«È un bravo figliolo, ma non ha immaginazione», disse Hans senza malanimo. «Dev'essere perché è un pistolero.»

Edna si alzò. «Mi faccio un tè. Ne vuoi?»

«Preferirei un po' di quel bourbon che tieni sottochiave», fece Hans.

Edna poggiò i pugni sui fianchi, arricciò gli angoli della bocca e gli rivolse quello sguardo da genitore paziente.

«Solo un goccio», disse Hans. Sollevò pollice e indice e li avvicinò fin quasi a toccarsi. «Tanto così.»

Edna sospirò, prese una lampada, aggirò il tavolo e andò in salotto. Hans sentì lo scatto di una serratura, poi un tintinnio di vetri. Si leccò le labbra pensando al sapore forte del bourbon sulla lingua e al calore che gli diffondeva quando scorreva nello stomaco. Edna riapparve con una bottiglia in una mano e un bicchiere nell'altra. Aveva lasciato la lampada in salotto. Il chiarore del lume disegnava le sagome ombreggiate del mobilio.

«Un dito», disse Edna, poggiando bottiglia e bicchiere accanto a Hans. «Anzi, mezzo.»

«Non ci faccio neanche i gargarismi con mezzo», protestò Hans.

«O così o lo rimetto in cassaforte.»

Hans sospirò. Edna andò a riprendere la lampada e si mise a cercare il bollitore. Udì Hans sospirare come un innamorato in pena e sorrise. Mise a bollire l'acqua e sedette ad attendere. Hans aveva versato mezzo dito di bourbon e lo guardava come se pensasse di alzarne il livello con la forza del pensiero. La cosa fece sorridere Edna. Hans se ne accorse.

«Ti diverte vedermi soffrire?» chiese.

«Un po' sì.» Hans sorrise, poi tornò a fissare il bicchiere. «Che pensi?»

«Che se la mia teoria è corretta, siamo stati fortunati.»

Edna si accigliò. «In che senso?»

«Potevano invaderci gli inglesi invece che i giapponesi, e a quest'ora avremmo vampiri e altri mostri a scorrazzare per la via invece che una geisha con gli occhi indemoniati.»

«Ringraziamo i giapponesi, allora.»

Hans sorrise. Sollevò il bicchiere e bevve tutto il bourbon.

«Posso averne ancora?»

«Hans...»

«L'ho vista passare e me la sono quasi fatta addosso. Stavo per rimettermi a letto, poi ho sentito voi e mi sono detto: magari Edna è di buon umore e mi concede un doppio bourbon.»

«Che ci facevi in piedi?»

«La finestra era aperta e sentivo freddo. Mi sono alzato per chiuderla e ho fatto l'errore di buttare l'occhio in strada.»

Edna lo vide tremare. Prese la bottiglia di bourbon e gli versò due dita di liquore.

«Grazie», mormorò Hans.

Sollevò il bicchiere.

«Aspetta», fece Edna.

Hans fermò la mano e le scoccò un'occhiata interrogativa. Lei si alzò, prese un bicchiere dal pensile e si versò un mezzo dito di bourbon. Hans la seguì con un'espressione sorpresa.

«Clyde diceva che porta male bere da soli.»

«Tuo marito era un uomo saggio.»

«Il Signore lo abbia in gloria.»

Hans sollevò il bicchiere. «A Clyde.»

«A Clyde», fece Edna.

I bicchieri tintinnarono. Bevvero tutto il bourbon, poi Edna prese l'acqua che bolliva e si preparò il tè.

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