La sedia

Harry era in sella al suo trattore. Il mezzo aveva un colore rosso sporco che indicava quanto fosse datato, ma lui non se la sentiva di rottamarlo. Funzionava ancora a dovere. Faceva il suo, insomma. A ben guardare, quel trattore era un po' come lui: vecchio e malconcio ma ancora faceva il suo. Il tubo di scarico sputava nuvolette di fumo che galleggiavano in aria e si dissolvevano, rilasciando un odore di gasolio che a Harry non dispiaceva. Ci si era abituato come all'odore di merda delle vacche e dei polli che allevava.

Il motore tossicchiò. Harry cambiò marcia e rimirò lo spettacolo che Madre Natura gli offriva da diversi anni a quella parte, da quando cioè era cresciuto abbastanza da capire che un tramonto non è solo il modo col quale la natura ti informa che il giorno va finendo ma uno dei tanti affreschi che Dio disegna per gli uomini ogni santo giorno. O almeno così gliela recitava sua madre. Gran donna, la sua vecchia. Andava a messa tutte le domeniche, col freddo e con la grandine, e si trascinava appresso Harry dopo averlo costretto a indossare l'abito della festa. Quel vestito dava il prurito manco fosse infestato dai parassiti. Harry si grattava in continuazione le cosce e sua madre lo riprendeva, schiaffeggiandogli la mano mentre gli occhi restavano fissi sul pulpito dove il reverendo Holmes predicava. Quando poi Harry tornava e si cambiava... Dio, che goduria.

Era lì che pensava a quel fatto perché era sabato e perché, prima di uscire, aveva visto sua moglie Fran che gli lisciava l'abito della festa. Questo, però, al contrario di quello che aveva da bambino non gli dava il prurito.

Ebbene Harry stava lì, in sella al suo trattore, a scorrazzare sulla striscia di terra che tagliava il vasto campo di grano alla velocità del bradipo più veloce del mondo e a godersi quella palla rossa che sprofondava dietro la linea dell'orizzonte, quando la notò: una sedia di legno, simile a migliaia di altre, piazzata nel campo. Chi ce l'avesse messa e perché, non avrebbe saputo dirlo. Di sicuro non c'era sino al giorno prima. L'avrebbe notata.

Harry fermò il trattore, spense il motore e smontò sul viottolo che tagliava in due il campo di grano come la scriminatura in una capigliatura dorata. Si inoltrò nel campo e giunse sino alla sedia. Quando le fu davanti non seppe come reagire. Guardò in tutte le direzioni e, a parte quella dalla quale era giunto lui, il grano svettava bello dritto e ondeggiava a tratti mosso dai sospiri del vento.

«Che mi pigli un colpo secco», mormorò Harry.

Si grattò il pezzo di zucca sotto i capelli grigi. Qualcuno doveva avercela portata lì, o no? Mica poteva essere caduta dal cielo o comparsa durante la notte? Cercò tracce del passaggio di qualcuno e non ne trovò. Le uniche tracce le aveva lasciate lui. Incrociò le braccia sul petto e rivolse un cipiglio alla seggiola. Dava al campo di grano un tocco artistico, come fosse il soggetto di un dipinto rurale o qualcosa del genere. Ora che la guardava bene... Sì, aveva un certo fascino.

Harry ci posò sopra il culo. La sedia lo accolse senza emettere un gemito. Seduto lì, circondato dal grano e con il Sole che colorava le nuvole di rosa, si sentì di colpo in pace. La brezza gli sfiorava le guance ispide di barba. Il grano oscillava come una marea dorata. Ricordò com'era quando a dodici anni ci si fiondava dentro e correva a destra e a manca. Le carezze del vento lo rilassarono a tal punto che chiuse gli occhi per godersi al meglio quella sensazione di rinnovato benessere che si impadroniva di lui. La sedia non sembrava molto comoda a un primo sguardo ma, più si rilassava, più diventava confortevole. La brezza, il grano che mormorava sferzato dal vento e il verso lontano di un corvo...

Per un istante si perse nel buio dietro le palpebre. Ci si perse al punto da spegnere i sensi. Li riaccese e aprì gli occhi perché avvertì una vertigine. Sbatté le palpebre più volte e, quando la vertigine passò, si alzò con un grugnito. Non gli era mai capitato di abbioccarsi così di colpo.

Mi sto invecchiando, si disse.

Tornò sul viottolo e rimase interdetto. Il trattore era sparito. Non si mosse per un lungo minuto, poi girò i tacchi e percorse a passo svelto il viottolo diretto alla fattoria. E mentre camminava pensava: ma come ho fatto a non accorgermi di niente? Quel bidone fa tanto casino che pure all'inferno...

Vide la casa patronale e rallentò. Il pensiero del trattore lasciò il posto ad una nuova stranezza che riguardava la casa patronale. L'abitazione aveva qualcosa di diverso. Sembrava... datata, fu la parola che gli salì al cervello. La mano di vernice che gli aveva dato qualche mese prima non si notava più. Era come se il tempo l'avesse cancellata in un lampo, ricoprendola con l'incuria di anni. Ridicolo, naturalmente. Doveva essere la luce del Sole che andava morendo lì dietro, ai confini del mondo conosciuto, a conferirle quell'effetto.

Animato da quel pensiero, Harry ritrovò un po' di coraggio e andò spedito verso la casa patronale. Mise piede sul portico e diede una rapida occhiata alla sua destra. Fu quello il momento in cui si rese conto che il dondolo era scomparso, svanito come in un numero di magia. Non c'erano neanche i buchi per i ganci che sostenevano le catene della seduta.

Ma che diavolo succede? pensò mentre una vertigine lo faceva barcollare.

Non ebbe il tempo di formulare un'ipotesi che la porta di ingresso si aprì e Harry era già lì lì per chiedere a Fran che fine avesse fatto il dondolo, salvo poi bloccarsi perché sulla soglia non c'era Fran. A riempire il rettangolo della zanzariera c'era una donna che non era certo sua moglie. Sembrava più vecchia e inoltre...

«Salve», disse la donna. «Ha bisogno di qualcosa?»

Nel momento in cui parlò, la mente di Harry andò alla deriva.

«Se è qui per vendermi una di quelle Bibbie rilegate...»

Bibbie rilegate? pensò Harry mentre lo coglieva una nuova e più violenta vertigine. Mi ha preso per un venditore porta a porta. E poi, come se fosse quello il punto importante: ma perché, ci sono ancora tizi che vendono Bibbie casa per casa?

La donna continuò a parlare ma Harry non la udì. La testa gli girava come una giostra impazzita. Non riuscì a fermarla e, quando barcollò all'indietro, la donna aprì la zanzariera e venne avanti con una certa apprensione. Harry le lanciò un'ultima occhiata e, prima di svenire, pronunciò una sillaba: «Ma'.»

* * *

«Chi diavolo è?» udì, ma non se la sentì di aprire gli occhi. Aveva troppa paura.

«Non lo so», rispose una voce, la stessa che gli aveva detto di non aver bisogno di Bibbie rilegate. «Può essere un venditore porta a porta.»

«Quelli vanno in giro con il... campionario, lì, o come diavolo si chiama», disse il vocione burbero.

«La smetti di imprecare?»

Un sospiro irritato. La voce di donna disse: «E comunque non aveva niente appresso.»

«Forse si è solo perso.»

«E se fosse un delinquente?» chiese con ansia malcelata la voce femminile. «Uno di quelli che diceva il notiziario alla radio.»

Silenzio per qualche secondo. «Non c'ha l'aria del gangster», fece il vocione.

«Perché, tu ne hai mai visto uno?» La risposta fu un grugnito. «E se ha un coltello o una pistola?»

Harry udì un fruscio sommesso, poi lo investì un odore che ben conosceva: sudore misto a fieno. Due mani cominciarono a tastarlo. Percorsero tutto il corpo come ragni curiosi alla ricerca di una mosca grassa e dopo un'accurata ispezione si ritirarono.

«Non ha niente addosso a parte quel poco di pelle azzeccata alle ossa», disse il vocione.

«Magari è il caso di chiamare lo sceriffo.»

«Non è una catt... aspe', si sta svegliando.»

Harry aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu il soffitto. La seconda, quando si voltò, fu la coppia in piedi, accanto al divano dove stava disteso. Erano entrambi accigliati. La donna fece mezzo passo indietro, nascondendosi dietro l'omaccione. Trovarli lì, quando sapeva – anzi, ricordava – di averli seppelliti una ventina di anni prima, non gli fece nessun effetto, ma solo perché era ancora rintronato.

«Ben svegliato», fece suo padre.

Indossava una camicia a scacchi verdi e bianchi.

«Che è successo?» chiese Harry e gli sembrò che fosse una versione diafana di sé a parlare.

«Mi sei svenuto sul portico.»

«Sul serio?»

«Sei andato giù come un sacco di patate. Se vai a vedere ci trovi ancora l'impronta.»

Era proprio un omone, anche se lo ricordava più grosso. Forse perché nella mente i ricordi cambiavano col passare del tempo, s'allungavano o ritiravano.

«Che sei venuto a fare?» chiese suo padre.

Harry fu a un passo dal dire: qualcuno mi ha fottuto il trattore, ma si trattenne.

«Sei un venditore porta a porta?»

«A-ha», rispose e, quando annuì, una folgore gli attraversò la nuca.

Fece una smorfia e strinse i denti.

«Meglio se non ti agiti», disse suo padre. «Non avevi né una valigetta, né un catalogo né niente appresso.»

«Come?» chiese Harry quando la folgore passò.

«Hai detto che sei un porta a porta, ma non c'hai i ferri del mestiere.»

«Li ho... lasciati in macchina.»

«E la macchina dov'è?»

Harry pensò in fretta. «S'è scassata mentre venivo. L'ho abbandonata sul ciglio della strada e me la sono fatta a piedi.»

«A che altezza?»

«Come?»

«A che altezza ti si è rotta la carrozza?»

«Non mi ricordo, so solo che ho fatto un po' di strada a piedi.»

Suo padre sospirò. «Va bene, ecco che facciamo. Aspettiamo che ti passa quel mal di testa, poi andiamo a cercare la tua carrozza e vediamo che si può fare per sistemartela. Forse la dobbiamo trainare in paese o forse no, posso metterci mano io se non è grave, ma se non ti fai venire in mente dove l'hai mollata...»

La mamma di Harry strattonò un lembo della camicia a scacchi. Il suo vecchio si voltò con un cipiglio.

«Che vuoi?» chiese infastidito.

«Vieni un attimo», mormorò la mamma di Harry.

«Che?»

«In cucina. Devo parlarti.»

«Scusa un attimo», fece suo padre e uscì dal campo visivo di Harry in compagnia della moglie.

Li sentì allontanarsi e, mentre confabulavano, ebbe tempo di pensare a quella situazione. Era svenuto davanti alla sua vecchia e aveva appena parlato col suo vecchio.

Deve essere una specie di sogno lucido, si disse.

Peccato che il dolore alla testa lo smentisse. Troppo reale per essere parte dell'esperienza onirica.

E allora che spiegazione hai? Che sei tornato indietro nel tempo, a quando i tuoi genitori erano ancora vivi e tu eri un marmocchio che si divertiva a giocare nel fienile?

Era folle, eppure era al momento sembrava la spiegazione più razionale che avesse a disposizione. Ma come era successo?

La sedia, pensò. Mi ci sono seduto, ho chiuso gli occhi ed è successo.

Diverse domande gli fecero visita. Tra queste ce n'erano un paio

(che diavolo ho trovato, una specie di macchina del tempo travestita da sedia? E chi ce l'ha piazzata nel mio campo?)

alle quali avrebbe voluto trovare risposta. Ma non poteva farlo di certo in quel momento, con la testa dolente e con i padroni di casa, i suoi

(defunti)

genitori che tornavano dalla cucina per parlargli. Harry si dispose ad ascoltarli.

«Allora», fece il suo vecchio, «prima di fare tutte le robe che t'ho detto mi serve sapere un paio di cose sul tuo conto. E ti conviene rispondere sinceramente, perché so riconoscere uno che mi rifila stronzate.»

Lo so bene, pensò Harry.

Ricordava come il suo vecchio gli sgamasse ogni bugia. Era molto abile a metterti sotto pressione e farti crollare con domande semplici e dirette. Domande che non t'aspettavi. Domande collaterali le chiamava, usando con orgoglio quello che per lui era un parolone. Nel crescere Harry aveva capito che l'abilità del padre consisteva più che altro in un connubio di imponenza fisica e autorità patriarcale. Lui, Harry, che all'epoca era un ragazzino magro e brufoloso, poteva poco o nulla davanti a quel gigante ombroso e al suo piglio deciso.

Ma le cose sono cambiate, pensò. Non sono più un marmocchio.

L'aveva già fatto fesso con la storia dell'auto e del venditore porta a porta.

«Mi hai capito?» fece il suo vecchio.

«A-ha», rispose Harry e si fermò un attimo prima di annuire e procurarsi una nuova folgore.

«Secondo mia moglie sei un venditore porta a porta, e per come sei conciato potrebbe pure essere...»

Ma perché, come sono conciato? pensò Harry e si concesse un attimo per abbassare gli occhi e guardarsi.

Ora che lo faceva, notò che indossava una camicia bianca con le maniche scorciate sino al gomito e un paio di calzoni scuri con la riga. Ai piedi aveva scarpe marroni e lucide. La cosa lo lasciò basito, tanto che si perse quello che il suo vecchio stava dicendo.

«Ohè, mi ascolti?» fece il suo vecchio.

«Che? No, mi sono... distratto un attimo», disse Harry.

Il suo vecchio sollevò un sopracciglio mentre increspava l'altro. Sospirò spazientito.

«Come si chiama quello che sforna le Bibbie che vendi?»

«Non capisco...» fece Harry.

«L'editore», disse sua madre.

«Oh, Saint Joseph», rispose subito Harry.

Era il nome stampato sulla copertina rigida della Bibbia che sua madre aveva in casa, sul comò accanto al letto. Harry l'aveva ancora.

Il padre di Harry si voltò verso sua moglie e la interrogò con gli occhi.

«È lo stesso di quella che abbiamo noi», disse al marito.

«Ti è andata male per la vendita, ma hai risposto giusto.»

«Cosa ho vinto?» scherzò Harry.

Il suo vecchio sollevò di nuovo il sopracciglio. «Hai vinto che ora ti faccio un'altra domanda e se rispondi bene forse non piglio il fucile e ti sparo nel culo.»

«Non ho molta voglia di farmi sparare nel sedere.»

«Buon per te. Adesso dimmi che modello è la macchina che ti ha lasciato a piedi.»

«Una Ford», rispose rapido Harry.

«Colore?»

«Verde moccio.»

«Moccio?»

«Mio figlio l'ha battezzata così», fece Harry, stupendosi della propria abilità di cazzaro. «È una specie di scherzo.»

«Hai un figlio?»

«A-ha.»

«Anni?»

«Dodici.»

«Nome?»

«Harry.»

Il sopracciglio nero come pepe si sollevò. «Pure il mio si chiama così e c'ha più o meno quell'età lì», disse il suo vecchio.

«Che coincidenza», fece Harry.

«Infatti.»

Vediamo quanto ci mette a notare la somiglianza, pensò Harry. A parte qualche capello in meno e un po' di neve sul cucuzzolo, sono praticamente la copia sputata di quel marmocchio che adesso sta di sicuro a rotolarsi da qualche parte.

Chiese al suo vecchio: «Allora, ho superato il test?»

«Mi sembri a posto. Riesci ad alzarti?»

«Magari con un po' d'aiuto...»

Accennò un sorriso. Il suo vecchio si fece sotto. Harry si sollevò sui gomiti ma senza accompagnare il movimento con la testa. In questo modo le folgori restavano in quel limbo dal quale il suo dio personale le scagliava. Il suo vecchio gli cinse la vita mentre Harry metteva i piedi in terra.

«Al tre», fece il suo vecchio. «Uno... due...»

Lo aiutò ad alzarsi. Harry traballò un attimo ma il suo vecchio lo tenne dritto... per quanto possibile. La sua presa era salda. Harry si riempì i polmoni degli odori che seguivano il suo genitore: sudore, fieno e, ora che ci faceva caso, tabacco. Ricordò di colpo che amava fumare una sigaretta dopo aver sgobbato nei campi. La lasciava sempre a metà, però. Che marca era? Forse Camel. Ad ogni modo, quell'odore gli portò alla mente diversi ricordi.

«Se mi dai una mano pure tu, facciamo prima», disse il suo vecchio mentre lo accompagnava in cucina.

Harry si accorse che s'era praticamente abbandonato tra le sue braccia e mise in moto le gambe. Abbassò la testa e fu un errore. La folgore lo colpì. Mugugnò di dolore. Strinse le palpebre e i denti e quasi svenne. Il suo vecchio lo resse.

«Ho capito, va'», fece e lo trascinò di peso sino in cucina.

La mamma di Harry aveva già scostato una sedia dal tavolo. Harry ci cadde sopra, facendola scricchiolare, quindi sollevò gli occhi al soffitto e al piccolo lampadario che pendeva come un ragno a testa in giù.

«Hai scelto un bel momento per svenirmi davanti casa», fece suo padre. «È ora di cena. Stavamo giusto per metterci a tavola.»

E nel momento in cui pronunciò la parola cena, le narici di Harry intercettarono un odore che si spandeva per tutta la cucina. Sua madre aprì la porta che dava sul retro, quindi frappose la zanzariera. Parte del profumino cominciò a disperdersi.

«Stufato di coniglio», fece il padre di Harry.

Dal tono di voce avresti detto che si preparava per il banchetto dell'anno.

«Hai intenzione di fissare il soffitto per tutto il tempo? Sembri uno di quei pazzi che vede santi e madonne. Nella nostra chiesa ce ne sono un paio, così.»

«Harold!» fece la mamma di Harry.

Dal tono si capiva che era indignata e sorpresa.

«Che c'è? Tanto mica li conosce.»

Harry rise e abbassò piano la testa. Il movimento non gli procurò dolore. Vide che il suo vecchio aveva preso posto alla sua sinistra.

«Mica avete del ghiaccio?» chiese, anche se credeva di conoscere la risposta.

Il suo vecchio grufolò divertito. Il petto grosso sussultò: una volta.

«Sentito, Edna? Ha chiesto del ghiaccio», disse a sua moglie, che era girata di spalle e controllava lo stufato sui fornelli. Poi disse a Harry: «E come lo vuoi, in un cestello? Con una bottiglia di vino francese, magari.»

Edna rise.

«C'abbiamo a stento quel ferro vecchio laggiù», disse il padre di Harry e indicò il frigo color bianco sporco in un angolo della cucina.

«Diciamo grazie, Harold», fece Edna.

Lo disse nel tono di chi ricorda una lezione importante a un alunno indisciplinato. Harold rispose con uno dei suoi grufolii.

«A che punto è la cena?» chiese poi.

«Quasi pronto», fece Edna. «Chiamo Harry.»

«È proprio curioso che ti chiami come il mio ragazzo», fece Harold.

«Già», fece Harry.

Edna uscì sul retro. Mise piede in veranda mentre la molla della zanzariera cigolava e urlò: «Harry! La cena è in tavola!»

Harry udì una risposta lontana, quella di una voce piccola piccola, e provò un brivido.

Quello ero io, pensò.

«Non è che per caso mi stai per svenire?» fece Harold.

«Come?» chiese Harry.

«Sei bianco come latte di vacca.»

«Sto bene. Ho solo bisogno di... andare al bagno.»

«Capito», fece Harold alzandosi. «Ma ti avverto, io i calzoni non te li abbasso.»

«Harold!» disse indignata Edna.

Harry ridacchiò. «Non c'è bisogno, penso di riuscirci da me.»

Harold lo pigliò come aveva fatto in precedenza e lo accompagnò fuori della stanza. Girò a sinistra e lo indirizzò verso il bagno, che stava in fondo. Harry si poggiò allo stipite, entrò e si chiuse la porta alle spalle. Sentì suo padre che da fuori gli diceva: «Non ti chiudere dentro, che se svieni mi tocca buttare giù la porta. E vedi di centrare la tazza.»

Harry sorrise mentre adagio si avvicinava al lavandino rosa sormontato dallo specchio quadrato. Ruotò il pomello dell'acqua fredda e, siccome abbassare la testa gli provocava capogiro e altri fastidiosi inconvenienti (tra cui la nausea), si inumidì le mani e poi se le passò sul viso. Mentre compiva l'operazione buttò un occhio allo specchio e ciò che vide lo gelò. L'immagine che il vetro rifletteva era quella di un estraneo.

Harry sentì le braccia farsi molli e ricadere come pesi morti. Le dita sbatterono sul bordo di ceramica rosa, ma lui non se ne accorse. Guardava quel volto nello specchio che lo fissava. Si impose di non svenire e solo mordendosi il labbro inferiore riuscì a restare in piedi. Chiuse gli occhi e serrò con forza le palpebre, lasciando che il buio mitigasse lo choc. Quando le riaprì, l'estraneo era ancora imprigionato nello specchio. Aveva il viso magro e sbarbato, i capelli sottili e i tratti delicati.

La sedia. È stata lei a cambiarmi aspetto.

Non sapeva perché ma ne era sicuro. Mentre si allungava per prendere l'asciugamano cercò una spiegazione e ricordò di aver visto un film, una volta, in cui due tizi andavano indietro nel tempo e uno dei due diceva all'altro di stare lontano dal se stesso del passato, perché a incontrarlo avrebbe fatto saltare per aria l'universo. Forse quelli che avevano costruito la sedia volevano evitare che uno sprovveduto, incappato per sbaglio in un viaggio a ritroso nel tempo, distruggesse accidentalmente l'universo.

Cristo santissimo.

«Tutto bene lì dentro?» udì da fuori.

«Sì», rispose sforzandosi di tener ferma la voce.

«Sei riuscito a calarti i calzoni?»

Harry sorrise suo malgrado. «Sì», rispose.

«E allora qual è il problema? Devi convincerla a uscire?»

Il sorriso si ampliò.

«Un minuto ed esco», fece Harry.

«Si fredda la cena.»

E in quell'impazienza Harry lo riconobbe. Quando arrivava una certa ora doveva appagare le rimostranze dello stomaco. Se sgarrava, anche di poco, diventava nervoso e persino irascibile.

Harry mise a posto l'asciugamano e uscì. Il suo vecchio gli fece scivolare il braccio intorno alla vita.

«Mi stai costringendo a fare gli straordinari», disse ad Harry.

«Mi spiace, ma le giuro che non avevo in programma di svenire e battere la testa», fece Harry.

Il suo vecchio grufolò. Lo riportò in cucina e lo piazzò sulla sedia. Proprio in quel momento la zanzariera sul retro si aprì e la molla cigolò. Harry alzò lo sguardo e si ritrovò a fissare un ragazzino in pantaloncini e maglietta a righe orizzontali, i capelli a scodella arruffati e le ginocchia sporche. Il piccolo Harry entrò tutto baldanzoso e sorridente. Si accorse dell'estraneo seduto al tavolo della cucina e si congelò sulla soglia.

«Guarda come sei conciato», fece Edna.

«Ho fame», disse Harold sedendosi.

Edna guardò il piccolo Harry, posò i pugni sui fianchi e in tono contrariato gli disse di prendere posto.

«Ma appena hai finito, fila di sopra a lavarti», aggiunse.

Il piccolo Harry sedette, abbassando lo sguardo e alzandolo solo di sfuggita per dare un'occhiata all'estraneo che invece lo fissava apertamente, come se non avesse mai visto un marmocchio di dodici anni coi capelli a scodella. Edna servì suo marito per primo, quindi l'ospite inatteso e infine Harry e se stessa. Prese posto e giunse le mani. Harold aveva già impugnato il cucchiaio e stava per affondarlo nello stufato fumante, ma un colpo di tosse e una successiva occhiataccia di sua moglie lo fermarono. Era una scena che si verificava spesso: suo padre aveva fame ma sua madre doveva dire la preghiera. E tutti dovevano dirla con lei prima di toccare cibo. Era un rituale al quale non ci si poteva sottrarre. Dovevi parteciparvi, anche passivamente.

Harold fece una smorfia e mollò il cucchiaio con un gesto di stizza.

«Ti ringraziamo, Signore, per il cibo che metti sulla nostra tavola...» fece Edna.

«Non ce lo mette mica Lui, sono io che mi spacco la schiena tutto il giorno», mormorò Harold.

Edna lo ignorò e continuò alzando la voce di un paio di tacche, così da coprire quella del marito, e lanciandogli una nuova occhiata al vetriolo.

«... e per i doni quotidiani che ci offri. Amen.»

Harold afferrò il cucchiaio e ci diede dentro. Harry pigliò una cucchiaiata e se la portò alle labbra. L'odore era già invitante ma il sapore era anche meglio.

«Alla faccia», disse.

Harold ed Edna si girarono a guardarlo: l'uno con un cipiglio nervoso, l'altra con uno interrogativo. Anche il piccolo Harry guardò, incuriosito dalla reazione.

«È buonissimo», fece Harry. «Non me lo ricordavo così...»

Si accorse di quel che aveva detto e si interruppe.

«Volevo dire che non ricordo di averne mai assaggiato uno così buono.»

Riprese a mangiare sentendo gli occhi dei presenti su di sé. Consumarono il pasto perlopiù in silenzio. Ogni tanto Harry alzava lo sguardo sul dodicenne che gli sedeva dinanzi. Guardare se stesso era come infilare la testa nel sogno di un altro. Era una roba strana e allo stesso tempo esaltante. Il piccolo Harry spazzolò tutto lo stufato e fece pure la scarpetta quando sua madre gli offrì del pane. Non appena finì di mangiare, sua madre lo mandò di sopra a lavarsi lo sporco dalle ginocchia. Lui si alzò e, lo sguardo basso, camminò svelto, accelerando quando passò accanto allo sconosciuto ben vestito. Lo sentirono correre su per le scale, sino al piano di sopra.

Harry avrebbe voluto tanto andare con lui. Era curioso di rivedere la propria stanza, fare un salto nei ricordi e nelle vecchie fantasie assassinate dal tempo. Che sogni aveva quando era un dodicenne magro e dalle ginocchia sporche? Non se lo ricordava. I suoi sogni di bambino erano ormai un sedimento di sabbia sul fondo... No, erano tesori seppelliti sotto il sedimento di sabbia sul fondo della clessidra. A scavare li avrebbe ritrovati, ma chi aveva voglia di scavare così a fondo? Tuttavia rivedere se stesso aveva riacceso una piccola scintilla. Qualcosa che dormiva da tempo e che aveva tirato su la testa quando aveva visto il piccolo Harry. Ma che cos'era di preciso? Ricordò che gli piaceva il baseball ma anche che non era molto bravo. Era uno scricciolo che correva veloce, ma quanto a battere beccava forse una palla su dieci. No, non era il baseball. Era qualcos'altro. Dio, possibile che l'avesse seppellita così in fondo?

Sollevò gli occhi perché sua madre gli stava parlando.

«Come?» chiese.

«Ho detto che se vuole può telefonare a sua moglie. Se l'aspetta per cena, si preoccuperà non vedendola arrivare.»

«Oh, faccio sempre tardi», disse Harry, sbrigativo, e tornò ai suoi pensieri.

Non notò lo scambio tra Edna e Harold, con lui che scuoteva le spalle in risposta alla domanda muta che lei gli rivolgeva con gli occhi.

Che diavolo era? Continuavano a tornargli in mente le ginocchia sporche del piccolo Harry ma non riusciva a collegare. Poi, d'un tratto, ci arrivò: voleva fare l'esploratore. Non ricordava le circostanze precise, aveva forse a che fare con qualcosa che aveva imparato a scuola, ma ricordava che quell'idea gli si era insinuata nel cervello per un po'. Più tardi aveva scoperto che il mestiere che più si avvicinava a quell'ambizione era l'archeologo, un tizio che scavava alla ricerca di antiche civiltà scomparse. Aveva così cominciato a esercitare, convinto che sotto ogni zolla di terra potesse esserci un tesoro nascosto.

Ma sì, ricordò di colpo.

Scavava buche come un cane alla ricerca di un osso. A un certo punto era diventata un'ossessione. Doveva trovare qualcosa. Perché poi gli era passata la fantasia? Quello non lo ricordava. Fatto sta che gli era passata come passa un'influenza. Era guarito e la sua vita era andata avanti. C'erano stati altri sogni, altre ambizioni mancate e alla fine, come spesso accade, si era ridotto a fare la cosa più facile. Aveva ereditato il mestiere e la casa del suo vecchio, si era sposato e la vita era andata avanti su quel binario.

«Come va la capoccia?» chiese Harold.

Strappato alle sue elucubrazioni, Harry rispose: «È ancora tutt'uno col resto, almeno per il momento.»

Harold annuì. «Tienila sul collo ancora per un po', che mo' andiamo a recuperarti la carrozza. Tempo di un caffè, mi sa che ne avrò bisogno.»

Rivolse a sua moglie uno sguardo. Edna raccolse l'informazione negli occhi di Harold usando quella particolare telepatia che intercorre tra marito e moglie e mise mano alla moka.

E mo' che mi invento? si chiese Harry. Non c'è nessuna auto da riparare... a meno che quei tizi che hanno costruito la sedia non me ne abbiano lasciata una per salvare le apparenze, ma non credo proprio che...

La sedia! gli urlò una voce. Doveva tornare alla sedia, posarci il culo sopra e attendere che lo ritrasportasse nel presente.

Fece per alzarsi.

«Devi andare di nuovo al bagno?» chiese Harold protendendosi per aiutarlo. «Hai la vescica più piccola di quella di mio figlio.»

«Stavo pensando che un po' d'aria fresca mi può far bene alla testa», fece Harry.

Harold fece per alzarsi, sebbene l'espressione del volto dicesse che ne aveva già abbastanza di tutti quegli sbattimenti, ma Harry lo fermò con un gesto della mano.

«Ce la faccio, lei resti a bere il caffè. Faccia con comodo, ci vediamo di fuori.»

«Cerca di non svenirmi un'altra volta», borbottò Harold.

«Farò il possibile», disse Harry e muovendosi come un matusa uscì dalla cucina e si avviò verso l'ingresso.

Scese i gradini del portico e si avviò piano verso il campo di grano, ma prima si voltò per dare un'ultima occhiata alla casa. La luce morente del tramonto la incendiava tutta. Ora, sapendo quel che sapeva, Harry la vide per quello che era: la casa dove aveva trascorso l'infanzia. All'epoca il dondolo non c'era ancora. Era stata un'idea di Fran e lui aveva provveduto a montarlo.

Alzò gli occhi al secondo piano e si accorse della sagoma alla finestra. Era il piccolo Harry. Quando lo vide, l'Harry del futuro che viaggiava sotto mentite spoglie sollevò la mano in segno di saluto. Il piccolo Harry fece lo stesso, anche se un po' titubante. L'Harry del futuro sorrise e gli inviò un messaggio mentale, convinto chissà perché e chissà per come che l'altro l'avrebbe ricevuto. Gli disse di credere nei suoi sogni di bambino e di ascoltare quella voce interiore che a tutti parla, prima o dopo, perché quella voce sapeva quel che diceva.

Lo sa meglio di te, e sa cosa ti occorre per essere felice, disse mentalmente.

Poi girò i tacchi e andò verso il campo di grano. Si immise sul sentiero che lo tagliava in due e cercò la sedia.

E se non la trovo? gli venne da pensare a un certo punto. Se quei tizi che l'hanno piazzata lì se la sono ripresa?

Perché avrebbero dovuto? gli domandò un'altra voce, più razionale.

Così, per divertirsi. Magari ora sono lì che mi osservano e se la ridono.

Ebbe l'assurda visione di esseri dalle fattezze aliene che lo guardavano dallo spazio come si guarda una cavia da laboratorio che arranca in un labirinto. Se ne stavano nel loro disco volante e lo scrutavano da un telescopio o da qualche altro aggeggio super tecnologico mentre arrancava nel campo, alla ricerca vana di...

La vide. Era ancora al suo posto. Tirò un sospiro di sollievo che spazzò via fantasie e dialoghi interiori. Il grano le si raccoglieva intorno come se volesse nasconderla. Chissà che cos'era mai quell'affare e, soprattutto, chi l'aveva piazzata lì. Forse erano stati davvero gli omini verdi e lui era davvero una cavia di un qualche esperimento.

Chissene, voglio solo tornare a casa, si disse.

Prese a farsi strada, scostando il grano che cresceva rigoglioso, quando lo raggiunse il vocione del suo vecchio: «Ohè, amico, ma dove diavolo vai?»

Si voltò e lo vide sul portico di casa, poggiato a una colonna di legno. Harry non perse tempo a rispondere: raggiunse la sedia, ci posò il culo sopra, chiuse gli occhi e attese. Non accadde nulla per un bel pezzo. Quando riaprì gli occhi, la voce del suo vecchio si stava spostando e grondava irritazione.

«Ma che fai, ti metti a giocare a nascondino? Lo vuoi riparare quell'accidenti di trabiccolo o no?»

Perché non funziona? si domandò Harry.

Cercò di ricordare cos'era successo la prima volta. Aveva fatto qualcosa di diverso oltre che sedersi e chiudere gli occhi?

Pensa, accidenti a te, pensa.

S'era seduto, aveva chiuso gli occhi e...

«E che cazzo, smettila di giocare!»

Si stava alzando una brezza fresca e le parole del suo vecchio ci viaggiavano sopra come un surfista, arrivando sino alle orecchie di Harry.

«Okay, mi hai rotto i coglioni! Al diavolo te e quel tuo trabiccolo di merda! Vado a prendere il fucile e giuro su Dio che se non hai sloggiato le chiappe dal mio grano, quando ti trovo te le riempio di buchi! Mi hai sentito?»

Era più vicino o si trattava solo di un effetto creato dal vento? Harry non seppe deciderlo ma fu grato del silenzio che seguì. Cercò di non pensare al fatto che il suo vecchio stava proprio in quel momento recuperando il fucile e si concentrò. Che diavolo aveva fatto? Doveva aver fatto qualcosa per attivare quel cacchio di congegno a forma di sedia, una cosa che sul momento forse gli era parsa di poca impor...

Ci arrivò: prima che la sedia lo sparasse nel passato stava pensando alle scalmanate nel campo di grano. Aveva visto se stesso, ancora dodicenne, mentre correva a destra e a manca. Ecco come aveva fatto. Per tornare al presente avrebbe dovuto pensare al dondolo sul portico, a Fran che gli stirava i calzoni, alle vacche e ai polli, al trattore scassato, al reverendo Donovan e ai suoi barbosissimi sermoni...

La vertigine giunse rapida.

Harry strinse gli occhi per un lungo momento, poi li aprì. La brezza muoveva il grano e il tramonto lo incendiava. Guardò in basso e la felicità lo seppellì quando si accorse che indossava la sua solita salopette. Camicia e calzoni con la riga erano spariti, così pure le scarpe.

«Ce l'ho fatta...» mormorò.

Si alzò e si voltò subito a guardare la

(macchina del tempo)

sedia. Rinculò come se avesse davanti un animale pronto a mordere e mise piede sul viottolo. Vide il trattore e quasi urlò di gioia. Raggiunse il mezzo e fece scivolare le dita sulla griglia che riparava il motore, come per accertarsi che fosse reale e, prima che se ne rendesse conto, correva verso casa. Arrivò in vista del portico che aveva il fiato grosso. Il dondolo gli confermò che era tornato. Anche la facciata esterna della casa aveva riassunto il suo aspetto familiare. Aprì la zanzariera. La porta dietro era spalancata. Mise piede in casa e un odorino invitante lo accolse. Lo stomaco rumoreggiò. Fran fece capolino dalla soglia della cucina, richiamata dal cigolio della molla della zanzariera e dai passi.

«Stavo giusto per chiamarti», fece.

Lui le andò incontro e la cinse tra le braccia.

«Harry, che...?» Ti prende? stava per aggiungere, ma lui le chiuse la bocca con un bacio. Quando si scollò, lei lo guardò come se avesse di fronte un'altra versione dell'uomo che conosceva.

«Che ti prende?» gli chiese.

«Sono felice di vederti», fece Harry.

Sorrise.

«Oookay, mi sa che qualcuno ha lavorato troppo», disse Fran. «Vieni a tavola e mangia qualcosa. Vuoi una birra?»

«Male non ci starebbe.»

Prese posto allo stesso tavolo dove solo pochi minuti prima era seduto, in compagnia dei suoi genitori e del piccolo Harry. Fran pigliò una birra dal frigo e gliela porse. Harry rimosse la linguetta e bevve. Era fresca e corroborante. Fran appoggiò il suo grazioso sedere sul bordo del piano cottura e lo guardò.

«Hai qualcosa di... diverso», gli disse. Lo guardò meglio. «Sì, sembri diverso.»

Lo saresti anche tu se fossi tornata indietro nel tempo, a quando eri una marmocchia, e avessi ricordato che avevi dei sogni e che bastava pensare a quei sogni per galleggiare a mezzo metro da terra, avrebbe voluto risponderle.

«Ah sì?» disse invece, sornione.

«Cos'è quel sorrisetto?»

Non si era accorto che stava sorridendo. Rispose con un'alzata di spalle. Fran incrociò le braccia sul petto e lo sogguardò, la testa un po' inclinata. Non disse niente, ma a Harry quasi parve di leggerle i dubbi usando quella speciale telepatia che due menti affini condividono.

«Sarà l'aria della sera», disse Harry.

«L'aria della sera...» ripeté Fran. Stavolta fu lei a lasciar andare un sorriso. «Va bene, Mr. Furbetto, se non vuoi dirmelo...»

Si voltò, aprì lo sportello del forno e lasciò uscire una nuvola di vapore. Tirò fuori la teglia. Il pollo riposava sul un letto di croccanti e dorate patate. Tagliò una coscia per sé e un pezzo di petto per Harry e li mise nei piatti con le patate. Servì la cena e sedette. Mangiarono e a Harry mai nessun pasto era parso migliore. Una volta finito, annunciò a sua moglie che sarebbe andato a farsi una fumatina di fuori. La lasciò a rassettare e andò sul portico. Si rollò una sigaretta e la sfumacchiò all'in piedi, lo sguardo rivolto ai campi. Lì in mezzo, nascosto tra il grano, c'era un oggetto che non era quel che sembrava. Aveva le sembianze di una sedia ma era qualcos'altro. Come fosse arrivata nel suo campo e chi l'avesse creata erano speculazioni sulle quali la mente di Harry si arrovellò, arrivando sempre alla stessa conclusione: dietro c'erano gli omini verdi.

Qualunque fosse la verità, non poteva lasciarla lì. C'era il rischio che qualcuno, magari un monello (ce n'erano diversi che andavano a giocare nei campi), ci si sedesse sopra e finisse sparato dritto in un'altra epoca.

E allora sai le risate.

Decise che l'indomani, di buon'ora, avrebbe ficcato quell'aggeggio infernale in un posto più appartato, dove le chiappe dei monelli non potessero arrivare. Per un attimo pensò persino di sfasciarla e bruciare i legni, ma poi come l'avrebbero presa gli omini verdi quando fossero venuti a recuperarla?

Si incazzerebbero come bisce.

Tremò pensando a quell'evenienza.

Meglio nasconderla, decise alla fine. L'avrebbe ficcata nella rimessa, che aveva un lucchetto nuovo di zecca. Era il posto più sicuro. Nessuno ci metteva mai piede a parte lui.

Finì la sigaretta, lanciò un'ultima occhiata ai campi e lanciò via il mozzicone con una schicchera.

Mentre rientrava in casa, una luce piccola come quella sul culo di una lucciola si accese nel cielo e lo attraversò a gran velocità.

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