Autoritratto

«Certo che è brutta», fece Merle.

«Altro che brutta, fa cascare i coglioni», disse Vinnie.

«Dici che era proprio così un cesso?»

«Ma chi?»

«Quella che l'ha dipinto. Ho sentito che è un autoritratto.»

«Allora la scimmia deve essere il figlio. Sono sputati.»

Il fascio di luce inquadrò per un momento la piccola scimmia dietro la spalla della donna.

«Guarda che cazzo di sopracciglia», fece Vinnie, illuminando il volto della donna. «E c'ha pure i baffi. Più la guardo e più mi viene voglia di prenderla a calci nel culo, 'sta qui.»

«Mica lo so se è ancora viva.»

«Viva o morta, resta un cesso. E noi vogliamo rubarla.»

«Vale un sacco di quattrini.»

«Seh, magari c'hai pure ragione, ma non riesco a immaginare chi la vorrebbe nel suo salotto. 'Sta qui fa scappare la gente. Dovresti metterla fuori la porta, almeno ti spaventa i testimoni di Geova.»

Merle ridacchiò.

«Allora, vogliamo fottercela o restiamo qui a parlare di arte e depilazione?» fece Vinnie.

Posò la torcia e Merle lo aiutò a rimuovere il quadro dalla parete. Lo posarono sul divano e Merle ridacchiò.

«Cosa?» fece Vinnie.

«Stavo pensando che se la faccia è così pelosa, la fica deve essere come la testa di Jimi Hendrix», disse Merle.

Vinnie grugnì. «Fa così schifo che neanche il mostro dei Goonies se la sbatterebbe.»

«Non so mica. Una bottarella gliela darei.»

«Per te basta che respirino. Ti faresti andar bene pure il culo di un'anatra mestruata.»

«I pennuti non mi tirano.»

«Solo dalle asine in su, tu, eh?»

«Fottiti.»

«Sempre meglio che fottere lei», fece Vinnie, indicando l'autoritratto di Frida Kahlo con un cenno del capo.

Merle recuperò il borsone. Lo tenne aperto e Vinnie ci ficcò dentro il quadro.

«Ѐ stato facile come ficcare l'uccello in un buco», disse Vinnie.

«Te l'avevo detto», fece Merle, gongolante.

«Mi hai sorpreso, Merle, devo ammetterlo.»

«A volte c'ho la sensazione che pensi che sono un mezzo scemo.»

«Eh.»

«Allora la prossima volta ce li procuri tu, i codici del sistema d'allarme. Mi sono sbattuto come un negro in una piantagione di cotone per averli.»

«A proposito, come hai fatto? Non me l'hai mica detto.»

«Che ti frega? Tanto sono un idiota.»

«Me lo dici dopo, quando ti passano le mestruazioni. Leviamo il culo da qui.»

Vinnie fece scorrere la zip, si mise il borsone a tracolla e si congelò. «Sentito?»

«Credevo di averla soffocata», disse Merle.

«Non parlavo delle tue cazzo di scorregge. Ascolta.»

Merle aguzzò l'udito. «Io non sento...»

Una specie di raglio metallico. Sembrava distante chilometri, ma in quel silenzio mortifero lo udirono chiaramente. Corsero alla finestra e videro il cancello d'ingresso della villa che si apriva. Una berlina nera entrò e percorse il sentiero disegnato nell'enorme prato.

«Avevi detto che stavano via una settimana», sibilò Vinnie.

«Così sapevo», disse Merle.

«Fanculo. Nascondiamoci.»

Schizzarono fuori dalla stanza al secondo piano e infilarono la prima porta che gli capitò a tiro. Era la camera da letto di una mocciosa. C'erano carillon, bambole sedute su una mensola – le gambe di pezza che penzolavano nel vuoto –, un cavallo a dondolo, un baule ai piedi del letto e altre cianfrusaglie.

«Ne avevo uno uguale», disse Merle, indicando il cavallo.

«Fanculo a te e a quel cazzo di coso. Te lo sfascerei in testa, se non avessimo faccende più urgenti a cui pensare», fece Vinnie.

Si guardò in giro. L'occhio gli cadde su quello che sembrava l'ingresso di un piccolo ripostiglio. Afferrò Merle per il collo della maglia e lo tirò via. Aprì la porta e si ficcarono dentro.

«Merda, non ci stiamo», fece Merle.

«Ѐ 'sto cazzo di borsone», disse Vinnie.

Uscì mentre dabbasso aprivano la porta di ingresso. Raggiunse il letto, si chinò, ci fece scivolare sotto il borsone e tornò in quello stanzino grande come il buco del culo di un pesce rosso.

«E se si accorgono che manca il quadro?» fece Merle.

Dovevano essere ciechi per non vedere lo spazio vuoto sopra il divano. A quel punto potevano solo pregare che ai padroni di casa non venisse voglia di mettere il naso in quella particolare stanza.

«Incrociamo le dita», disse Vinnie.

Udirono un vociare indistinto al piano di sotto, poi rumore di passi su per la scala e lungo il corridoio.

«Ma non ho sonno!» piagnucolò una voce di bambina.

«Su, su», fece un'altra voce, ben più matura.

Una luce si accese. Vinnie e Merle fecero mezzo passo indietro. Dagli spazi vuoti di quella che era una porta a persiana, videro le gambe di una donna e quelle di una mocciosa.

«Posso vedere un po' di Tv?» chiese la mocciosa.

«Sai che non è possibile», fece la mammina.

«Ma non ho sonno!»

«Conviene che te lo fai venire, allora. E vedi di calmarti, signorina.»

La mammina aiutò la piccola peste a spogliarsi, si assicurò che si lavasse i denti e poi le rimboccò le coperte.

«Voglio Fluffy», disse la mocciosa.

«D'accordo», fece la mammina.

Lo cercò in giro per la stanza. «Ma dove cavolo sta», disse dopo buoni cinque minuti di infruttuosa ricerca.

Si voltò verso la porta dello stanzino dove erano nascosti Vinnie e Merle, tirò dritto e afferrò il pomello. Vinnie era già pronto a mollarle un pugno in faccia e svignarsela.

«Eccolo!» fece la mocciosa.

La mammina mollò il pomello e si allontanò. Per poco non mollarono un sospiro di sollievo. Si guardarono e, in quello sguardo, passò una conversazione: Merle – c'è mancato poco. Vinnie – appena usciamo di qui, ti do tanti di quei calci in culo che se un'emorroide pensa di mettere il naso fuori cambia idea in un secondo.

«Buonanotte», disse la mammina.

«Anche a Fluffy», fece la mocciosa.

«Buonanotte, Fluffy.»

Le gambe della donna si spostarono e la luce si spense.

«Vuoi che lasci la porta socchiusa?» chiese la mammina.

Non udirono la risposta, ma dovette essere un 'sì', perché uno scampolo di luce si insinuò nella stanza.

«'Notte», ripeté la mammina.

«'Notte», rispose la mocciosa.

Passi che si allontanavano, un sospiro, un frusciare in sordina e poi silenzio. Vinnie e Merle attesero un'eternità. Poi Vinnie mormorò: «Andiamo.»

Aprì la porta e mise il naso fuori. La mocciosa dormiva. Una lama di luce era tesa sul volto di Fluffy. La piccola teneva il grosso coniglio di pezza stretto al petto. Muovendosi sulle punte, Vinnie raggiunse il letto, si chinò e tirò fuori il borsone. Se lo sistemò a tracolla e fece segno a Merle di levare le tende. Merle guadagnò l'uscita e mise fuori il naso. Diede un'occhiata in corridoio e fece segno a Vinnie. Uscirono, raggiunsero la scala e scesero.

Arrivati alla porta d'ingresso, sentirono dei tonfi al piano di sopra. Vinnie fece cenno a Merle, e quello si fermò, la mano sospesa a un niente dal tastierino elettronico. I tonfi si spostarono. Sentirono un ciabattare sulla scala e schizzarono in cucina. Nel mezzo della stanza c'era un'isola esagonale. Ci si accucciarono dietro, spalle alla soglia. I passi si avvicinarono, si fermarono e una luce bianca e fredda bucò la semioscurità. Vinnie capì che qualcuno aveva aperto lo sportello del frigorifero. Rumore di stoviglie. Chi aveva aperto lo sportello posò qualcosa sull'isola. Era così vicino che a sporgersi l'avrebbero visto.

Attesero. Dopo un po' i passi si allontanarono. La luce si smorzò. Tonfi su per la scala e al piano di sopra. Poi silenzio.

«Ci è andata di culo anche stavolta», mormorò Merle.

Vinnie si alzò e gli mollò un calcio.

«Che cazzo ti prende?»

«Vuoi sapere che cazzo mi prende?» sibilò Vinnie. «Come al solito ci hai messo nei casini. Alza il culo e vediamo di squagliarcela.»

Merle si alzò e seguì Vinnie fuori dalla cucina. Raggiunsero la porta d'ingresso e Merle iniziò a pigiare sul tastierino.

«Dieci... zero... quattro...» mormorava mentre inseriva la combinazione. «Uno... nove... cinque...»

Di nuovo tonfi al piano di sopra.

«Ma porca di una...» mormorò Vinnie.

Fece segno a Merle, ma quello non si mosse. «Devo inserire l'ultimo numero o scatta l'allarme», disse Merle.

«E che cazzo aspetti?»

Merle pigiò il cinque. Il led rosso si spense e quello verde si accese. Sgommarono in cucina proprio mentre i tonfi si trasformavano in passi sulla scala, e si accucciarono dietro l'isola.

«Comincio a pensare che 'sto cazzo di quadro porta sfiga», fece Vinnie.

I passi entrarono in cucina e una luce si accese. La stanza si illuminò a giorno. Qualcuno aprì il frigo e qualcun altro sedette su uno dei tre sgabelli sull'altro lato dell'isola.

«Un bicchiere di latte e poi dritta a nanna», disse la mammina. «Ci siamo capiti?»

«A-ha», fece la mocciosa.

Vinnie guardò davanti a sé e si rese conto che la parete era di vetro. Vedeva riflessa la mammina che riempiva un bicchiere di latte e lo posava sotto il naso della mocciosa.

«Fa' presto a berlo», disse la mammina.

Si versò un mezzo bicchiere di latte e sedette. Vinnie notò che il vetro deformava i volti della mammina e della mocciosa. Gli zigomi erano gonfi, i menti squadrati. Guardò sé stesso e Merle, e nei loro riflessi non vide nulla di anomalo.

«Posso avere un biscotto?» chiese la mocciosa.

La donna sospirò, aprì un pensile e tirò fuori una scatola di biscotti. La poggiò sull'isola e la piccola ci ficcò dentro la mano, facendo crepitare la confezione. Tirò fuori un paio di biscotti, li inzuppò e li divorò.

«Non ingozzarti, che poi ti vengono gli incubi», fece la mammina. «Un altro e basta.»

La piccola fece sparire la mano – che il vetro deformava, facendola apparire fuori misura – nella confezione. La tirò fuori e la confezione si accasciò di lato. Un biscotto rotolò fuori, percorse tutta l'isola e cadde sulle cosce di Vinnie. La donna sospirò e aggirò l'isola. Vinnie saltò su, le fece passare un braccio intorno alla vita, la fece girare come in un passo di danza e le piazzò una mano sulla bocca. La donna ebbe sì e no il tempo di sbarrare gli occhi.

Vinnie si rivolse a Merle. «Prendi la mocciosa.»

Merle si alzò e corse a tappare la bocca alla piccola. Lei si dimenò, e aveva una bella forza per essere poco più alta di un nano da giardino. Merle le passò un braccio intorno e la sollevò dallo sgabello. La mocciosa prese a menare calci all'aria.

Vinnie si avvicinò all'isola, ci sbatté sopra la faccia della mammina e le disse: «Falla stare ferma. E non ci pensare neanche a urlare. Ci metto niente a prendere un coltello e a ficcarglielo su per il culo.»

«Piccola...» fece la donna con una voce da uccellino. «Sta' buona.»

La mocciosa si calmò.

«Adesso noi ce la filiamo», fece Vinnie. «E ci portiamo la piccola stronza.»

«No!» urlò la mammina.

Vinnie le schiacciò la faccia sull'isola. «Che ti avevo detto? Non. Urlare. Cazzo.»

«Non farlo, ti prego», piagnucolò la donna. «Non dirò niente, lo giuro.»

«Se mi davano un dollaro per ogni volta che ho sentito 'sta stronzata, a quest'ora ero più ricco del Presidente degli Stati Uniti. Giusto, Merle?»

«Altroché», fece Merle. «Un cazzo di sultano, eri.»

«Visto? Mettiamola così: se tu e il paparino tenete la bocca chiusa, tra una settimana ve la rispediamo tutta intera.»

«Prendete quello che volete...»

«L'abbiamo già preso, razza di stronza siliconata, e adesso ci prendiamo pure la mocciosa. E se avvisi gli sbirri, le taglio quel cazzo di naso e te lo spedisco con tanto di fiocco.»

La mammina iniziò a piangere. «Ti prego...»

«Cristo, odio quando fanno così», disse a Merle. «Oh, che cazzo hai?»

Merle fissava la finestra panoramica. Vinnie si voltò. Il vetro rifletteva Merle che teneva in braccio una specie di grosso Gremlin in pigiama.

«Ma che cazzo...»

Vinnie guardò la mocciosa e vide che aveva un aspetto diverso. Il mento, si disse. Era più squadrato. E la mandibola più piena. Anche le guance. Pareva che se si fosse ficcata in bocca un pugno di ciliegie.

La mocciosa aprì la bocca e morse la mano di Merle. Affondò i denti, diede un bello strattone e staccò l'indice. Merle mollò la mocciosa – che andò col culo per terra –, urlò come un porco scannato e strinse il moncherino dal quale zampillava il sangue. La mocciosa masticò e buttò giù, gli addentò uno stinco, lo strattonò nel modo in cui un cane farebbe con la carne che ricopre un osso, e staccò un pezzo dei calzoni e parte di quello che c'era sotto. Merle si trasformò in Pavarotti e andò col culo per terra. Aveva un pezzo di tibia che faceva capolino dalla carne mangiucchiata.

La mocciosa gli zompò addosso e se lo lavorò. Gli mangiò il naso e le orecchie. Gli cavò gli occhi, li annusò e li gettò via. Gli squarciò la gola e bevve il sangue che ne uscì. Quand'ebbe finito si voltò, e Vinnie vide che era cambiata. La faccia era quasi grigia, il naso affilato come la punta di un coltello e i denti come i paletti di una staccionata. Riempivano la bocca come una cicciona la seduta di un cinema, e la bocca sembrava in procinto di scoppiare.

Vinnie mollò la mammina e si fece indietro fino a toccare il ripiano della cucina. La mocciosa ringhiò.

«Piccola...» fece la mammina mettendosi dritta. «Calmati.»

Vinnie scivolò verso la soglia, il culo che puliva il ripiano dove stavano i fornelli. La mocciosa gli teneva gli occhi incollati addosso. Le mani, grandi quanto quelle di un uomo adulto e pelose come quelle di un orco, si aprivano e chiudevano. La matassa di capelli biondi che le imbrigliava il viso era come una fine cornice che contenesse un brutto quadro.

Vinnie arrivò all'angolo, gettò un occhio alla soglia, riguardò la mocciosa e schizzò via. La mocciosa spiccò un salto, gli serrò le mani intorno al collo e lo atterrò poco oltre la soglia della cucina. Le urla di Vinnie arrivarono in paradiso.

Quando si placarono, dal secondo piano giunsero dei tonfi ovattati che si trasformarono subito in passi sulla scala.

«Che diavolo sta succedendo?» fece il paparino.

Pigiò l'interruttore e il soggiorno si illuminò. Vide la mocciosa accucciata sul petto di un tizio con la faccia frollata come carne macinata di fresco.

«E 'sto qui chi cavolo è?» chiese occhieggiando la mocciosa.

Lei lo guardò come un cane che sa di averla mollata sul tappeto.

«Uno in cerca di soldi facili», disse la mammina.

Stava sulla soglia della cucina, il borsone ai suoi piedi, aperto. Un angolo del quadro spuntava fuori come un prepuzio.

«Ma quello è...» fece il paparino.

La mammina tirò fuori l'autoritratto con scimmia di Frida Kahlo e lo mostrò al marito.

«Che figlio di puttana», disse il paparino.

Prese il quadro e lo guardò per bene. Sembrava a posto. La ruga al centro della fronte si spianò un poco. Lo posò sul divano, piantò i pugni sui fianchi e guardò storto la mocciosa.

«Fila di sopra», le disse. «Con te me la sbrigo dopo.»

La mocciosa ripiegò le orecchie alla Spock, esibì un broncio pentito e sgattaiolò via. Corse a quattro zampe su per la scala, e i tonfi sgraziati della sua corsa fecero vibrare il pavimento al piano di sopra.

«Dammi una mano», disse il paparino. Si piegò e afferrò le caviglie di Vinnie. «Lo mettiamo nella ghiacciaia.»

«Ce n'è un altro in cucina», fece la mammina.

«Fantastico. Appena finiamo qui mi sente, quella piccola...»

«Non riesce ancora a controllarsi.»

«Conviene che impari in fretta, perché sono stufo di sistemare i casini che combina. Prendilo per le braccia.»

Sollevarono Vinnie e lo portarono nello scantinato. Il paparino lo mollò e aprì lo sportello della ghiacciaia. Lo riprese, e lui e la mammina lo adagiarono sui due corpi congelati. Uno era messo come Vinnie. Non aveva la faccia. La mocciosa se l'era mangiata. L'altro aveva un buco in pancia che ci potevi infilare dentro la testa. L'intestino usciva e faceva un paio di giri attorno alla gola.

«Glielo insegnerò», disse la mammina mentre tornavano di sopra.

«Di che parli?» chiese il paparino.

«Le insegnerò a controllarsi.»

Tornarono in cucina. Il paparino vide com'era conciato Merle e sospirò. «Guarda che razza di casino.»

«Non è così brutto», fece la mammina.

«La giustifichi sempre. E guarda, ha lasciato la parte più saporita.»

Raggiunse l'isola, si chinò e prese gli occhi di Merle. Tenendoli per i nervi, se li cacciò in bocca.

«Neanche a me piacciono», fece la mammina.

«Vi somigliate come due gocce d'acqua», disse il paparino.

«Io però mi controllavo meglio, alla sua età.»

«L'abbiamo viziata troppo. Ecco il problema.»

Presero Merle e lo portarono di sotto. Lo misero nella ghiacciaia con gli altri tre, poi il paparino recuperò il quadro e andò ad appenderlo nella stanza al piano di sopra. Tornò dalla mammina e disse: «Andiamo a farle quel discorsetto.»

Entrarono nella stanza da letto della mocciosa. La piccola era ficcata sotto le lenzuola. Era tornata normale e fingeva di dormire.

«Signorinella», chiamò il paparino. «Lo so che sei sveglia. Apri gli occhi.»

La piccola sollevò le palpebre. Il paparino si avvicinò, seguito dalla mammina, e sedette sul letto.

«Io e la mamma dobbiamo dirti una cosa. Quello che è successo stasera... non deve ricapitare. Devi imparare a controllarti.»

La mammina prese posto accanto al paparino. «Quello che papà sta cercando di dire, è che non sei più una bambina. Sei quasi una donna. Be', per i canoni della nostra specie, almeno. E una donna sa controllarsi.»

«Ma quelli volevano farti male», disse la mocciosa.

La mammina sorrise e le ravviò una ciocca di capelli. «Lo so, piccola mia, ma non puoi saltargli addosso lo stesso.»

«Perché?»

«Perché qui funziona in modo diverso.»

«E allora perché non torniamo a casa?»

«Non possiamo.»

«Perché?»

«Perché casa nostra non c'è più.» La mocciosa mise il broncio. «Ma anche qui è bello. Solo che dobbiamo stare attenti. Se ci scoprono, se scoprono che siamo diversi, potrebbero farci del male.»

«Perché?»

«Perché gli umani hanno paura di quelli diversi da loro.»

La mocciosa rifletté su quel concetto nuovo.

«Mi prometti che farai la brava?» chiese la mammina.

«Te lo prometto, mamma», disse umilmente la mocciosa.

La mammina sorrise. Si sporse e le schioccò un bacio in fronte. «Ti voglio bene.»

«Anch'io», disse la mocciosa.

La mammina e il paparino diedero la buonanotte alla mocciosa e uscirono.

«Ѐ una brava bambina», disse la mammina. «Ed è anche forte. Avresti dovuto vederla in azione.»

«Un'idea me la sono fatta», fece il paparino.

Entrò in camera da letto.

«Vado a dare una pulita», disse la mammina.

«Non puoi farlo domani?» fece il paparino. Lei lo guardò come a dire: sei impazzito? «E va bene. Vuol dire che vengo ad aiutarti.»

Le passò una mano dietro la schiena e le palpò un fianco.

«Ma poi devi aiutarmi tu.»

«A far che?» chiese la mammina, lo sguardo languido.

«Lo sai benissimo.»

Si baciarono.

«Ti amo», disse la mammina.

«Ti amo anch'io», fece il paparino.

Scesero dabbasso, abbracciati come due novelli sposini.

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