Aracnofilia

Jay adorava i ragni. Molti li odiavano – qualcuno ne aveva persino paura –, ma lui no. Quelli grossi erano i suoi preferiti. Aveva una predilezione per le tarantole. C'aveva 'st' idea per cui i ragni erano un po' come lui: esseri incompresi, fraintesi per via del loro aspetto non proprio gradevole. Erano in realtà creature straordinarie. L'abilità con cui tessevano la tela, in primo luogo: un intreccio perfetto che si allargava a macchia d'olio. La pazienza poi di attendere che la preda cadesse in trappola e il modo in cui calavano sulla farfalla che inutilmente si dibatteva, con quella flemmatica ineluttabilità... Fosse stato induista, Jay avrebbe chiesto a Ganesha o a qualcun altro di quegli dèi mezzi umani e mezzi animali di rinascere sotto forma di ragno, così da tessere intrecci perfetti, intrappolarci dentro chi gli stava sul cazzo e divorarlo tra soddisfacenti schiocchi di tenaglie.

Una volta l'aveva sognato di stare davanti al dio con sei braccia e la proboscide. Era immerso in una dimensione tutta rosa e Ganesha fluttuava nel vuoto a gambe incrociate. Era enorme, come un palazzo, ed emanava una luce ambrata che sembrava sgorgargli dalle viscere e si diffondeva tutt'intorno come polline, sotto forma di piccole bolle. Jay gli chiedeva che posto era quello dove si trovava e il dio rispondeva che erano nel Nirvana, quindi lo informava che lui era morto ma che poteva tornare sulla Terra, se lo desiderava. Jay gli domandava dove fosse la fregatura e Ganesha rispondeva che non c'erano fregature, ma condizioni. Poteva tornare, ma in un altro corpo e in un altro luogo, e poteva sceglierseli. Così lui sceglieva di rinascere sotto forma di ragno. Un grosso ragno. Una tarantola dal corpo come un uovo di struzzo, ricoperto da setole come i peli di un gigante e le tenaglie enormi.

A quel punto si era svegliato per ritrovarsi sulla poltrona reclinabile del suo squallido salotto. La lattina di birra che teneva stretta in mano era a terra, accanto alla poltrona, con la birra rovesciata sul pavimento. Ci era rimasto male. Il sogno era così vivido che, nel momento stesso in cui aveva aperto gli occhi, per un attimo si era convito di essere un grosso ragno accoccolato nel mezzo della sua tela.

Ogni tanto ci ripensava, a quel sogno, ed era come ripensare a un ricordo d'infanzia. E allora andava nell'altra stanza, ad accertarsi che Drusilla, la sua tarantola, avesse da mangiare e rimaneva sempre un po' a fissarla, assorto e sognante, cercando di immaginarsi nei suoi panni. Cosa si provava ad essere un ragno? Che tipo di pensieri, se così li si potevano definire, ronzavano dietro quegli occhietti in apparenza privi di anima? C'era solo istinto o albergava anche una scintilla di razionalità, seppur elementare? I documentari che davano alla tv – e Jay non se ne perdeva uno – non avevano mai risposto a quegli interrogativi. Dicevano tante altre robe, però. Robe che ti si incollavano alle pareti del cervello e di cui Jay faceva indigestione, sino poi a procurarsi quei sogni strampalati.

Neanche troppo tempo fa aveva sognato di intrappolare in un ricamo perfetto quello spelacchiato ciccione che era il suo capo. Nel sogno Jay tesseva una tela finissima, i cui fili quasi invisibili si tendevano tra due scaffali della ferramenta dove lavorava. Quel ciccione di Dale Torton ci finiva dentro mentre guardava i prodotti sulle mensole e restava impigliato. Si dibatteva e abbaiava come un cane idrofobo ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva a liberarsi. E lui, Jay, come l'Angelo della Morte calava dall'alto agganciato a un filo spesso e si divertiva a terrorizzarlo. Giocava con lui come il gatto col topo. Poi l'avvolgeva in un bozzolo di appiccicosa ragnatela che pareva una nuvola di zucchero filato, lasciandogli fuori solo la testa per poi staccargliela con un colpo di tenaglie.

Un po' quello che avrebbe voluto fare in quel preciso istante, fosse stato un grosso e grasso ragno.

«Hai finito l'inventario?» chiese Dale con tono burbero.

Stava di fronte a Jay con le braccia incrociate sul petto e la schiena ritta. Era più alto e notevolmente più grasso del trentenne magro e brufoloso che gli stava davanti. La differenza che passava tra lui e Jay in termini di stazza era la stessa che passava tra una balena e una sogliola. Dale aveva anche una siepe di capelli marroni che era come una ciambella di merda intorno alla piazza scoperta, mentre Jay aveva una massa folta e scarmigliata di capelli come quelli di un mocio.

«L'ho fatto», disse Jay.

Al contrario di Dale stava curvo in avanti, le spalle ossute chiuse.

«Hai tutta la divisa sgualcita», disse Dale con un cipiglio. «Guarda che roba, sembri appena uscito da uno di quei raduni hippie. Vai a darti una sistemata, che mi fai scappare i clienti.»

Jay abbassò lo sguardo, incassò la testa tra le spalle al modo di una tartaruga e passò accanto a Dale trascinando i piedi. Dale gli tenne gli occhi puntati addosso. Jay li sentì sulle scapole anche mentre si dirigeva verso il cesso ed entrava.

«E sistemati quei capelli!» gli urlò Dale all'ultimo.

«Fottiti, maiale», mormorò a denti stretti Jay mentre spariva dietro la porta a soffietto.

Si diede una pettinata inumidendosi un po' i capelli, poi cercò di appianare le pieghe sulla maglia blu col logo della ferramenta (operazione che non produsse grandi risultati) e uscì. Dale si aggirava tra gli scaffali. Vederlo che camminava per il negozio fece tornare in mente a Jay il sogno nel quale gli staccava la testa con uno schiocco di tenaglie. Il ricordo gli infuse il buon umore necessario a finire in bellezza la giornata di lavoro.

Quando montò in auto era il tramonto. Una luce sanguigna si rifletteva nei vetri degli edifici che accoglievano focolari domestici, uffici e bottegucce varie. Il cielo conteneva varie tonalità di blu che sfumavano verso l'alto e varie di giallo, ocra e arancio in corrispondenza della linea dell'orizzonte. Il Sole era un tuorlo d'uovo uscito dal culo in fiamme di un pennuto con le emorroidi.

A poche miglia dal piccolo complesso abitativo che la Chevrolet ammaccata di Jay attraversava c'era un'installazione militare. Ogni tanto si vedevano o sentivano velivoli che solcavano il cielo a velocità proibitive. I clienti della ferramenta si lamentavano spesso. Jay li udiva parlare con Dale. Il signor Bates, ad esempio, diceva che quegli affari del demonio gli facevano vibrare i vetri di casa e, alle volte, pure le otturazioni. Una volta aveva udito uno scoppio tonante che aveva fatto cascare le figurine di ceramica nella credenza. E non potevi neanche lamentarti. Che ti mettevi, contro il governo?

Tra i tanti soggetti che venivano alla ferramenta c'erano anche quelli che sostenevano di aver visto certi piatti volanti solcare il cielo sopra l'installazione e spingersi sino alle montagne tanto care ai nativi. Montagne che, secondo questi stessi soggetti, abbondavano di pitture rupestri raffiguranti omuncoli con teste enormi, grandi occhi neri che avevano la forma di lenti scure e corpi magri.

Come no, pensò Jay. E io sono il figlio segreto di Madre Teresa.

Arrivò all'incrocio, si fermò allo STOP e fece per svoltare destra. Ci ripensò e svoltò a sinistra. Aveva voglia di una bella birra ghiacciata. E aveva voglia di bersela in compagnia. Si diresse allora verso il LOOMIS', che stava poco fuori il centro abitato. Per raggiungerlo doveva attraversare la lingua d'asfalto che correva nel mezzo di un boschetto. Mentre i fari della Chevrolet tastavano il cemento come dita in esplorazione di un cieco, Jay pensò a Drusilla. Le aveva dato da mangiare prima di uscire?

Era talmente concentrato su quel pensiero che non si accorse della chiazza di luce sanguigna che si mescolava col giallo itterico dei suoi fari. Quando poi se ne accorse, pensò stupidamente che fosse la luce morente del Sole che si spandeva come la pozzanghera luminosa ai piedi di un lampione. Capì in seguito che non poteva essere, perché quella luce si muoveva con lui, lo seguiva, e allora sollevò gli occhi al cielo. Le dita intorno al volante si trasformarono in vermi mollicci seduta stante. Il piede scivolò via dall'acceleratore e l'auto cominciò a sbandare lentamente verso il ciglio della carreggiata. Le ruote lambirono il terreno, sollevando polvere e pietrisco, il motore calò di giri e l'auto rallentò, tremando tutta, fece poi un piccolo balzo in avanti e si spense a non più di due metri da un albero massiccio.

Jay rimase a fissare l'oggetto sospeso in aria, a circa trenta metri dal suo parabrezza. Era come un enorme palla da demolizione arrugginita. Il metallo di cui era composta era scuro. Sulla superficie convessa c'erano incisi simboli che il cervello da primate di Jay non riuscì a interpretare, perché sfuggivano alle leggi geometriche terrestri. La base della sfera era aperta e dall'alloggiamento sgorgava una luce che somigliava tanto a quella di un Sole malato. L'oggetto non oscillava né produceva rumori di sorta. Restava perfettamente fermo mentre la luce sanguigna cominciava a pulsare in lenti cicli, che via via diventavano più rapidi.

Jay osservò lo spettacolo con la mandibola cadente e gli occhi sbarrati, incapace di pensieri coerenti. La sfera marcia si mosse in linea retta, oltre il parabrezza. Jay la seguì con lo sguardo sino a che la perse, ma capì che s'era fermata sul tettuccio dell'auto. Fu a quel punto che cominciò a percepire un caldo insopportabile. Era come se qualcuno avesse acceso al massimo il sistema d'areazione della Chevrolet, che tra l'altro era scassato. Prese a sudare mentre la temperatura nell'abitacolo saliva di botto. I succhi gastrici nello stomaco iniziarono a ribollire. Jay aprì la portiera e si lanciò sull'asfalto, si inginocchiò e vomitò. Ebbe tempo di pensare: non è un piatto, non ci somiglia manco per sbaglio, che una colonna di luce rossa come sangue arterioso lo investì e si sentì bruciare. Braccia, gambe e persino i testicoli: cominciò a cuocere come un pollo in un forno.

Il dolore fu così intenso e insopportabile che svenne.

Quado riaprì gli occhi fu per guardare un soffitto luminoso che emanava una luce asettica, da sala operatoria. Sbatté le palpebre e nel campo visivo fecero capolino dei testoni che indossavano occhiali da Sole. Gli ci volle un secondo per capire che non erano lenti scure ma occhi della stessa forma, senza sclera né pupilla. La cosa non lo terrorizzò. Il terrore era seppellito sotto un lenzuolo soporifero di torpore fisico e mentale.

I quattro faccioni grigi avevano due spilli verticali al posto del naso e labbra così sottili che se sbattevi le ciglia te le perdevi. Jay cercò di parlare, ma aveva la lingua molle come tutto il resto del corpo. I faccioni lo studiarono dai bordi del suo campo visivo, poi si guardarono e... parlarono. Jay non capì un fico secco. Era come se parlassero in cinese. I suoni che uscivano dalle labbra sottili come spago erano ricchi di vibrazioni che si propagavano fuori e dentro la testa di Jay, nelle ossa e nei denti. Era la sensazione più strana che avesse mai sperimentato. Più strana persino di quel pompino coi piedi che gli fece una tipa rimorchiata al LOOMIS' una volta.

Le voci smisero di ronzare e Jay fu loro grato. Quelle vibrazioni lo stavano facendo impazzire. I testoni uscirono dal campo visivo e per un po' non accadde nulla. Poi Jay percepì un pizzico dietro la nuca e, se avesse avuto abbastanza forza per muoversi, i quattro capoccioni l'avrebbero visto sobbalzare. Invece chiuse gli occhi e si abbandonò a quella stanchezza infinita nella quale il corpo nuotava.

* * *

Era una tarantola, enorme e gonfia. Aveva imprigionato Dale e il signor Bates al centro di un enorme ricamo. Ogni filo ammiccava come il filamento estratto da un diamante. C'erano dei simboli disseminati lungo la tela, anch'essi ricamati ad arte. Non li capiva, ma sapeva che contenevano informazioni. Ogni simbolo tratteneva secoli di storia dell'universo, di viaggi intergalattici, di conquiste e disfatte, di contatti con le specie che abitavano quel nero oceano di tenebra nel quale galleggiavano pianeti, stelle, soli e lune. E bastava toccarli, quei simboli, perché le informazioni che contenevano ti si riversassero in testa come il getto di un idrante.

Mentre zampettava sul ricamo di cui andava tanto fiero con le sue nuove zampe nocchiute e pelose, sprazzi di quei racconti antichi quanto Dio si srotolavano sullo sfondo nero del sogno come brevi spezzoni estratti da un unico film. In uno c'erano certi selvaggi con anelli al naso e mutande di paglia che si inchinavano di fronte ad uno di quegli esseri con il testone e gli occhi enormi. In un altro un faraone faceva ergere grossi blocchi di pietra intorno a un'astronave a forma di piramide e in un altro ancora Ganesha – che altri non era se non uno dei tanti abitanti di un pianeta lontano migliaia di anni luce dalla Terra – portava agli uomini la Conoscenza.

E mentre gli spezzoni di quello che era un unico e antichissimo film emergevano nel nero come fuochi fatui e poi sfumavano, Jay zampettava inesorabile, di filo in filo, sino al centro della tela dove le due mosche umane si dibattevano. Uno schiocco di tenaglie e si avventava sul signor Bates, che non poteva mettersi contro il governo, e gli divorava la testa. La sgranocchiava come una caramella dura mentre il corpo decapitato giaceva floscio accanto a Dale, che odiava i capelli folti di Jay perché gli sbattevano sul muso la realtà della sua calvizie. Dale, che lo cazziava in continuazione e non gli diceva mai «bravo» né gli ammollava una pacca sulla spalla. Dale che ora si pisciava addosso mentre sullo sfondo nero del sogno emergeva un'astronave triangolare, grande come lo Stato del Nevada, che oscurava i limpidi cieli terrestri.

Jay vedeva il cavallo dei calzoni di Dale scurirsi e gli diceva di darsi una sistemata, cazzo, che così faceva scappare tutti i clienti.

Poi gli staccava la testa.

* * *

Il Sole era sparito nella scollatura tra due picchi montuosi quando Jay si destò. Gli ci volle qualche secondo per capire che il mondo era rovesciato. Il ciglio della carreggiata e l'auto erano sopra, mentre il cielo che andava rabbuiandosi era sotto.

«Ma che...»

Mentre tentava di dare un senso alla cosa gli tornò in mente la sfera arrugginita coi simboli incisi sopra e un cieco terrore lo invase. Si agitò e quel movimento improvviso lo fece cascare. Si ritrovò a precipitare nel vuoto senza sapere né come né perché e sbatté in terra, sugli aghi di pino e il pietrisco, come un sacco di mangime per polli. Latrò un verso strozzato, visto che aveva sbattuto le palle, e il dolore soppiantò il terrore iniziale. Rimase a lamentarsi per un pezzo e, quando il male ai testicoli rientrò, si alzò imprecando.

«Cristo santo, ma che cazzo...?»

Lo sguardo andò verso l'albero che stava a due metri dall'auto. L'albero dal quale, cominciava ora a rendersi conto, era cascato. C'era una ragnatela larga quanto un letto a una piazza e mezzo tessuta nell'angolo tra un ramo alto e il tronco massiccio. Somigliava a quella del suo sogno, dimensioni a parte. C'erano pure certi simboli intrecciati con il ricamo, gli stessi che erano incisi sulla superficie della sfera. Jay restò a fissare la ragnatela mentre tutt'intorno, nel boschetto e sulla faccia delle montagne, le ombre incipienti si allungavano come anime dannate e bramose.

Sto ancora sognando, si disse.

I sensi, però, gli dicevano che era sveglio. E se aveva dubbi in merito poteva domandare alle sue palle indolenzite. Guardò l'auto sul ciglio della carreggiata. La portiera era aperta. La raggiunse e, quando afferrò la maniglia, la trovò calda. Ficcò la testa nell'abitacolo e gli parve come se fosse rimasto sotto un Sole rovente per ore e stesse ancora raffreddandosi.

Non è stato un sogno.

Tirò fuori la testa e guardò la ragnatela. Chi l'aveva tessuta? Una parte del suo cervello formulò un'ipotesi, ma Jay non la prese in considerazione perché era una roba pazzesca. PA-ZZE-SCA. Mettici il culo sopra, tienila al caldo e mollaci pure una scoreggia, se ti va.

Ti dico io com'è andata, saltò su una voce. Ti sei addormentato al volante e hai sognato.

Okay, e la ragnatela? chiese Jay.

La voce non rispose e Jay montò in macchina, aprì i finestrini per far uscire il calore e sgommò via dopo aver fatto inversione.

Rientrato a casa, per prima cosa controllò Drusilla. La trovò che zampettava sul letto di pietre che era il pavimento della teca dove stava rinchiusa. Jay la tirò fuori, se la posò sul palmo e lasciò che la tarantola risalisse l'avambraccio. Le setole sulle zampe e sul corpo a uovo gli solleticarono la pelle, provocandogli piccoli fremiti di piacere. Jay la carezzò con un dito, quindi la ficcò di nuovo nella teca. Drusilla salì su una delle due piccole rocce rosse e restò lì sopra come una lucertola al Sole. Jay lasciò piovere degli insetti morti nella teca e si allontanò. Di colpo si sentiva stanco morto. Decise di fare una doccia e andare a letto. Era troppo stanco per mangiare. Si sbracò sul materasso e prese piede nel giro di pochi minuti.

Sognò ancora. Stavolta era disteso sotto la volta luminosa, così simile allo schermo di un cinema con una luce dietro sparata alla massima intensità. Luce che di colpo s'affievoliva, gettando nell'oscurità quel tetto strambo. Ed ecco che dal nero affioravano immagini luminose e in movimento: prima Dave che lo cazziava, poi Drusilla che si avventava su una manciata di insetti morti e infine i sogni in cui aveva sembianze di ragno. Ed era tutto così vivido che gli pareva di trovarsi lì. Le immagini erano nitide e sentiva lame di gelo sotto le chiappe, la schiena e i coglioni. Ed ecco che apparivano i faccioni con gli occhi simili a lenti scure. Chiacchieravano in quella lingua ronzante e sparivano oltre i bordi del campo visivo.

Poi il pizzico dietro la nuca e l'oblio dolce e nero.

* * *

Quando si svegliò era un po' rintronato. Si fece un caffè, mollò degli insetti a Drusilla e, siccome era in ritardo, schizzò a lavoro. Il sogno gli ballava in testa come un ospite indesiderato a una festa di compleanno.

Jay entrò e, naturalmente, Dale lo aspettava accanto al bancone all'ingresso, nella posa del generale che attende la recluta ritardataria all'adunata mattutina. Aveva le braccia incrociate sopra il pancione e un cipiglio che era tutto un programma.

«Sei in ritardo», disse a Jay.

«Scusa, Dave, è successo che...»

«Fila a cambiarti e non metterci più di cinque minuti, o ti dovrai trovare un altro lavoro.»

Jay sgommò via con quel suo passo strascicato e la testa incassata tra le spalle. Sparì nel retro e riemerse subito con la divisa indosso, proprio mentre dall'ingresso entrava il signor Bates. Il vecchio cliente della ferramenta andò dritto sparato da Dale e pareva eccitato come un bimbo alle giostre.

«Hai sentito l'ultima?» chiese a Dale.

«Non mi pare», fece Dale.

«Ieri sera hanno visto un affare come una palla da biliardo che volava verso le montagne. Stamattina ne parlava pure la radio.»

Jay si sentì mancare.

Dale fece una risatina ironica e disse: «Il mese scorso era una specie di piatto volante e quello prima ancora un affare lungo come un sigaro.»

«Ma stavolta è vero», fece Bates.

«E come lo sai?»

«Perché il tizio che l'ha visto ha fatto in tempo a filmarlo.»

Il signor Bates tirò fuori dalla tasca dei calzoni uno smartphone. Smanettò un poco sul display e poi rivolse lo schermo verso Dale. Incuriosito dall'espressione del suo capo, che mutava sino a un cupo cipiglio incredulo, Jay si avvicinò. Aggirò il signor Bates, si fermò alle spalle di Dale e sbirciò da sopra la spalla. Quel che vide gli provocò un gigantesco vuoto allo stomaco. Dale guardava il video di una sfera scura, la quale solcava il cielo che sfumava verso un blu notte in alto. La sfera fluttuava in linea retta e aveva un alloggiamento sul fondo che sparava una luce rossa e pulsante. L'immagine si muoveva un po' – il tizio che aveva girato il video non aveva la mano ferma –, ma quel che si vedeva non lasciava dubbi: quell'oggetto che fluttuava era reale, anche se non produceva rumore. La luce che sparava da sotto dava vita a ombre che si muovevano con lui.

Jay ebbe un mancamento e, per evitare di cadere, si allungò verso una rastrelliera lì vicino. Riuscì a sostenersi ma scalzò dai ganci diversi utensili, che caddero in terra con una serie di tonfi e tintinnii. Dale e il vecchio Bates sobbalzarono.

«Che diavolo combini?» sbottò Dale.

Bates guardò Jay, notò che era bianco come una mozzarella e domandò: «Stai male?»

Jay neanche li sentì. Una parte della sua mente gli stava urlando che non si era trattato di un sogno. Era tutto vero e ora ne aveva la conferma. La sfera arrugginita coi simboli sopra era vera. E se era vera quella...

«Si può sapere che accidenti ti piglia?» lo incalzò Dale.

Jay lo guardò come se lo vedesse per la prima volta e mormorò: «L'ho visto.»

«Che?»

Bates si fece avanti tutto eccitato. «Hai visto quest'aggeggio?» chiese picchettando un dito sullo smartphone. «Dove?»

«Sulla Mountain Road.»

Bates si voltò verso Dale. «Visto? Te lo dicevo o no?»

«Sta mentendo», disse Dale, ma non pareva molto convinto. «È un fricchettone che passa il tempo a fumare erba e bere birra.»

«Non fumo erba», fece Jay risentito. «E quel coso l'ho visto davvero.»

«Raccogli gli attrezzi.»

Bates si rivolse a Jay con gli occhi che gli brillavano dall'eccitazione. «Quanto vicino eri quando l'hai visto?»

«Abbastanza», rispose Jay e ricordò i simboli incisi su quella palla di metallo arrugginita.

«Raccogli gli attrezzi», ripeté Dale.

Il suo cipiglio era talmente marcato che avresti pensato di vedere tutta una nuova serie di crepe aprirsi e la materia celebrare colare fuori.

«E che hai visto?» chiese Bates. Negli occhi lucidi gli guizzò un lampo. «Hai visto quelli che lo guidavano?»

Jay ebbe una fugace visione dei testoni con occhi come lenti scure che lo guardavano dall'alto. Stava per dire qualcosa, ma poi Dale fece un passo avanti, lo afferrò e lo strattonò via dalla parete con una mano mentre con l'altra indicava gli utensili a terra.

«Raccogli quella roba o ti licenzio seduta stante. Mi sono rotto delle tue stronzate da hippie...»

Agli angoli delle labbra di Jay spuntarono due tenaglie che si aprirono come arti meccanici rimasti nascosti dentro la bocca, a ridosso delle guance.

«Ma che cazzo...?» sbottò Dale.

Furono le sue ultime parole. Jay gli vomitò addosso una colonna appiccicosa fatta di migliaia di fili intrecciati. Gliela sparò con la forza del getto di un idrante e Dale volò via, schiantandosi contro uno scaffale e rovesciandolo. La colonna di schifo appiccicoso si esaurì e Jay ruttò. Un rivolo di bava gli colò dal labbro inferiore.

Dale, poco lontano, s'alzò a sedere. La schiena gli doleva e aveva tutta una roba addosso che pareva un groviglio di stelle filanti intinto in una sostanza appiccicosa come miele. Non fece a tempo a dire né "a" né "i" che si ritrovò Jay davanti. Vide che sulla fronte del ragazzo si erano aperti una dozzina di occhi nuovi di zecca. Sembravano gemme opache, senza pupille, nelle quali si rifletteva la luce che filtrava da una finestra. Jay si chinò su Dale, sollevò il labbro superiore e mise in mostra una serie di denti che parevano affilati con una lima. Poi aprì la bocca e la mandibola si disarticolò schioccando una, due, infinite volte. Le labbra si allargarono a dismisura e il mento si allungò sino al plesso solare. Dale non riuscì a trattenersi oltre e urlò come un disperato, ancora e ancora, sino a lacerarsi le corde vocali. Jay gli balzò addosso e gli mangiò la testa, spegnendo le grida. Diede un unico strattone. Il corpo decapitato si afflosciò. Jay si drizzò e la sua bocca fuori misura, aliena, masticò la testa di Dale mentre il sangue sgorgava dal collo mozzato e si allargava sul pavimento in una pozzanghera. Le ossa crocchiavano, frantumate dai denti seghettati, come caramelle dure.

Finito di pasteggiare, la bocca tornò alle dimensioni normali con una serie di schiocchi secchi. Jay si voltò. Bates era spalmato contro la parete. Pareva volesse fondersi col cemento e attraversarlo per sbucare in strada. Era bianco in viso e gli tremavano le labbra. Jay fece schioccare le tenaglie: clac-clac. Gli occhi supplementari ammiccarono, ognuno per conto proprio, quasi fossero animati da volontà a sé stanti. Il signor Bates si pisciò addosso. Jay vomitò la sua ragnatela appiccicosa e scoprì che poteva controllare l'intensità del getto. Avvolse Bates in un bozzolo, lasciando libera solo la testa. Il vecchio, mummificato come un faraone, scivolò in terra. Sembrava un baco da seta che facesse capolino dal suo comodo involto.

Jay fece un passo verso la preda intrappolata e avvertì d'improvviso una serie di crampi alle viscere. Fu come se una lama rovente lo accoltellasse ripetutamente. Cadde in ginocchio, abbracciandosi lo stomaco. Il signor Bates profittò di quel momento per provare a liberarsi, ma non ci riuscì. Aveva braccia e gambe bloccate. Il quintale di schifezza che lo ricopriva gli impediva di muovere persino le dita dei piedi. Devo uscire da questa schifezza, ripeté a se stesso, devo...

Udì il suono di tessuto strappato con forza e si girò a guardare. Sorpresa e orrore si fusero come piombo liquido nello stomaco quando vide spuntare dai fianchi di Jay quattro coppie di zampe pelose, simili a dita supplementari dalle molte nocche, che squarciarono la divisa e si distesero. Anche Jay restò basito. Le vide sgranchirsi, distendendosi e ritraendosi, vogliose e fameliche, e si accorse che non sentiva più dolore. Era stato come un parto.

Sorrise osservando le nuove appendici. Il suo sogno era diventato realtà e aveva il sospetto che c'entrassero quei capoccioni con gli occhi come lenti scure.

«Gesù santo...» mormorò Bates e il sorriso di Jay si ampliò.

Aveva appena capito come controllare le sue nuove e bellissime zampe da ragno.

Avanzò verso il signor Bates sollevandosi sulle zampe pelose e pregustando il sapore di sangue caldo e carne fresca.

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