Angie, come la canzone degli Stones
Non si sarebbe trasformata. Pete continuava a ripeterselo mentre le stringeva la cinta al braccio.
«Non voglio...» piagnucolò lei.
«Piantala!» urlò Pete.
«Che vuoi fare?»
«Devo tagliarti il braccio.»
Lei ammutolì. Gli occhi smeraldo si fecero grandi e prese ad agitarsi.
«Sta' ferma», disse Pete.
Lei provò a sfilare il braccio dalla cinta. Pete glielo impedì.
«Ti ho detto di stare ferma, cazzo.»
«Nonvogliononvogliononvoglio...»
Lei faceva "no" con la testa. I capelli, lunghi e ricci come fili del telefono, le schiaffeggiavano la faccia. Afferrò la cinta, stretta poco sopra il gomito, e cercò di sfilarla. Pete le prese la mano e ingaggiarono un braccio di ferro.
«Se non ti dai una calmata, ti becchi una botta in testa», le disse.
Lei sembrava impazzita. Strattonava la cintura e ripeteva: «Nonononono.»
Pete si allungò di lato, prese un di legno e le diede una botta in testa. Lei si afflosciò come uno straccio bagnato.
«Affanculo».
Strinse la cinta, ci piazzò il ginocchio sopra e gettò via il legno. Prese l'accetta, la sollevò e menò il primo fendente. Lei spalancò gli occhi e urlò. Pete menò il secondo fendente. La lama allargò la ferita e cozzò contro l'osso. Lei lo prese a pugni col braccio libero. Pete levò l'accetta e menò un altro colpo. Lei svenne e lo lasciò a lavorarsi l'osso. Era un figlio di puttana bello tosto. Un altro paio di fendenti e riuscì a staccare la parte di braccio sul quale campeggiava il calco del morso. Si alzò, allontanò l'avambraccio morsicato con un calcio e mollò l'accetta. Raggiunse uno scaffale e recuperò della garza.
Era una fortuna che si fossero barricati in una farmacia.
Si chiese se non fosse il caso di iniettarle un antibiotico. Prese una siringa da una scatola e cercò tra gli antibiotici rimasti. C'era ben poco. Qualcuno era passato a fare provviste. Trovò una boccetta che faceva al caso. La prese, tornò da lei e le fece l'iniezione. Lei continuò a dormire, i capelli sulla faccia. Pete glieli scostò. Quando dormiva era anche più bella.
Le fasciò la ferita. Il sangue si sarebbe fermato da sé. L'aveva visto accadere decine di volte.
Le si distese accanto e la guardò dormire. Di fuori, i sonnambuli picchiavano e grugnivano. I volti scarnificati, appiccicati ai vetri opachi della farmacia, sembravano quelli di anime in pena. Pete li ignorò e si concentrò sul volto di lei. Aspettava che sollevasse le palpebre e gli mostrasse gli occhi. Quegli occhi lo stregavano. Il mondo era andato a puttane, c'erano sonnambuli a ogni angolo di strada, gente che si ammazzava per un tozzo di pane e lui aveva in mente solo quegli occhi.
Le ravviò una ciocca riccia. La voglia sulla guancia sinistra risaltava come un cratere sulla faccia della luna. Gli piaceva, quella voglia. Aveva la forma di un piccolo cuore. E un'altra cosa che gli piaceva era il nome della sua compagna di viaggio: Angie. Come la canzone degli Stones. Provò a canticchiarla ma non ricordava le parole. Guardò il moncherino fasciato. La garza stava tingendosi di rosso. Peccato averlo dovuto fare. Aveva belle mani. Dita affusolate e unghie curate. Pensò a come sarebbe stato farsi lucidare la canna dalla mano superstite. Certi appetiti sopravvivevano pure alla fine del mondo.
Si addormentò. Sognò che erano sopravvissuti all'Apocalisse. Vivevano in una casa col prato sul davanti e una macchina nel vialetto. Lei gli preparava pancake a colazione e ci davano dentro tutte le notti.
Si svegliò e lei non c'era. Si alzò a sedere, si guardò intorno e la vide. Aveva recuperato l'avambraccio e si era tolta la fasciatura. Teneva nella mano superstite ago e filo. Tra le ginocchia teneva fermo l'avambraccio. Avvicinò il moncherino e lo congiunse all'avambraccio.
«Che cazzo stai facendo?» chiese Pete.
Lei neanche rispose. Forse pensava fosse evidente. Pete s'alzò, le strappò di mano l'avambraccio e lo buttò via.
«No!» urlò lei.
«Non è mica come riattaccare un bottone. E se anche fosse, quel cazzo di braccio è infetto. Andato. Caput.»
Lei cominciò a piangere. «Sei un pezzo di merda.»
«Questo pezzo di merda ti ha salvato il culo. Se non era per me, a quest'ora ti eri già trasformata in uno di quei figli di puttana.»
«Magari era meglio.»
Lui le sedette accanto e le cinse le spalle col braccio. «Non dire così.»
Le sollevò il mento con due dita e la costrinse a guardarlo. Aveva gli occhi umidi. Sembravano gemme bagnate. Le lacrime scorrevano lungo le guance. L'abbracciò. Lei lo lasciò fare ma non ricambiò.
«Va tutto bene», le disse.
Lei pianse in silenzio. Pete la lasciò fare e, quando lei si allontanò, ci restò male.
«Devo rifarti la fasciatura, sennò pigli infezione.»
Recuperò altra garza e le fasciò il moncherino. Lei non spiccicò parola. Fissò il moncherino per tutto il tempo. Chiusa nel suo mutismo, e affranta come una vedova, era ancora più bella. Lui era contento. Una così non ti capitava mica tutti i giorni. Certo, aveva due brufoli per tette, ma il resto compensava quella mancanza. Il culo non era male. Pensò a come sarebbe stato montarla da dietro.
I sonnambuli picchiavano alle finestre: tum!tum!tum! I vetri resistevano. Erano spessi come pietre tombali. La porta pure. Pete l'aveva bloccata mettendoci davanti parte del mobilio. I sonnambuli ammassati all'ingresso non avevano speranza di entrare. Il problema era che neanche loro due potevano uscire. Presto avrebbe dovuto pensare al da farsi. Avevano pure bisogno di cibo. Gli erano rimaste un paio di fette di pane duro, una scatoletta di sardine e meno di mezza bottiglia d'acqua.
Pete prese lo zaino e cacciò fuori il cibo. Le offrì un pezzo di pane. Lei se lo cacciò in bocca senza entusiasmo. Lui aprì la scatola di sardine. Mangiarono anche quelle e annaffiarono il pasto con un sorso d'acqua ciascuno. Lui cercava di fare conversazione tra un boccone e l'altro, ma lei non sembrava propensa.
«Ce l'hai ancora con me perché ti ho mozzato il braccio?» chiese lui.
Lei non rispose. Guardava a terra. Muoveva le labbra solo per masticare.
«Cerca di capire, ho dovuto farlo. Lo sai che succede quando uno di quegli stronzi ti morde.»
Scese la notte. I sonnambuli erano lì, appiccicati ai vetri. Picchiavano e grugnivano. Lei stava seduta contro una parete in fondo al locale, lontano dalle finestre. Lui le andò vicino.
«Di là c'è un cesso con una piccola finestra. Se salgo sulla tazza la posso raggiungere. Dobbiamo solo trovare il modo di distrarli e possiamo svignarcela.»
Lei accolse la notizia con lo stesso silenzio delle ultime ore.
«Hai ragione, ci pensiamo domani», disse lui, come in risposta a qualcosa che lei aveva detto. «Meglio se ci dormiamo su.»
Sedette, poggiò la nuca contro la parete e chiuse gli occhi. Durante la notte si svegliò e cambiò posizione. Voleva guardarla dormire. Lei aveva un cuneo di luce lunare spalmato sul viso. Pete le si sdraiò di fronte. Non capiva perché ce l'avesse con lui. Le aveva salvato la vita. A volte le femmine erano delle ingrate figlie di puttana.
Le sarebbe passata. Il tempo aggiustava tutto. O quasi.
Dopo un po' si addormentò. Quando si svegliò era mattino e lei era sparita. Pete si alzò e andò sul retro. Doveva essere in bagno. Trovò la porta aperta e la finestra sfondata.
«Ma che cazzo...?»
Com'e che non si era accorto di nulla? Non aveva manco sentito quando aveva sfondato il vetro. Tornò di là e capì il perché. C'era della garza, a terra, con vicino un flacone. Lo raccolse. Cloroformio. La garza ne era imbevuta. Ma come era riuscita a distrarre quei figli di puttana? Mentre ci pensava, si accorse che l'avambraccio che le aveva amputato era sparito. Era rimasta solo la cintura sporca di sangue.
«Figlia di puttana...»
Pete recuperò lo zaino. C'era la bottiglia con l'ultimo sorso d'acqua. Bevve e la ripose nello zaino. Tornò in bagno, salì sulla tazza e si affacciò. Ad attenderlo c'erano quattro sonnambuli. Troppi, per un uomo solo armato di accetta. Tornò nel locale principale e pensò al da farsi. Ci mise poco a capire come salvarsi il culo. Si inginocchiò e poggiò a terra la mano sinistra. Prese un respiro, si ficcò la cintura fra i denti, sollevò l'accetta e la calò ringhiando. La lama tagliò via due dita, mignolo e anulare della sinistra. Pete morse la cinta. I denti affondarono nel cuoio. Mentre sbuffava e soffocava le grida, prese antibiotico e garza. Si iniettò l'antibiotico e arrotolò i moncherini in un bozzolo di garza. Poi attese che il dolore scemasse, almeno un po'. Quando il sordo pulsare divenne più sopportabile, prese le dita e tornò in bagno. Salì sulla tazza e guardò fuori. I quattro figli di puttana erano ancora lì. Tendevano le mani come se aspettassero di ricevere lo Spirito Santo, battevano i denti e ringhiavano. La guancia morta di uno si staccò e cadde come un pezzo di intonaco.
Pete mostrò loro le dita.
«Guardate che vi ho portato, figli di puttana.»
Le agitò. I sonnambuli seguirono il movimento come cani attirati da una palla di gomma. Le lanciò. I sonnambuli si voltarono e come ubriachi ciondolarono via. Pete infilò il busto nell'apertura. Gettò dall'altra parte l'accetta e lo zaino, si tirò fuori e cadde a peso morto sull'erba.
«Cristo...» imprecò, alzandosi.
I sonnambuli si erano inginocchiati pochi metri più in là. Pete li vide litigarsi le dita. Gli augurò di strozzarsi. Recuperò accetta e zaino e si allontanò, stando attento a non farsi vedere dai sonnambuli sugli altri lati dell'edificio.
Adesso doveva trovare quella stronza. Chissà quanto vantaggio aveva accumulato.
Si inoltrò nella boscaglia. Camminò per un pezzo prima di trovare un pendio e, in cima a questo, la strada. Scavalcò il guardrail. C'erano automobili ammassate in disordine sulle carreggiate. Pete passò accanto a un minivan. Dentro, dal lato del guidatore, c'era un sonnambulo. Quando vide Pete iniziò ad agitarsi. Aveva la cintura di sicurezza che lo teneva fermo. L'unica cosa che poteva fare era ringhiare e graffiare il vetro. Erano scemi come asini scemi. Se ti mordevano, però, ti veniva la febbre e nel giro di poche ore ti trasformami in uno di loro. Ti passavano una specie di batterio, o qualcosa del genere. Si diffondeva come l'AIDS. Ne avevano parlato alla tivù qualche giorno prima che scoppiasse il casino. I morti tornavano in vita come ne La Notte dei Morti Viventi e andavano in cerca di carne fresca. Andavano pazzi per fegato e intestini.
Pete ignorò il sonnambulo e proseguì. Dopo un po' si rese conto che la strada non era un posto sicuro. C'erano sonnambuli che si aggiravano tra le vetture. Decise di tagliare per i boschi. Scavalcò l'altro guardrail e camminò per un po', prima di vedere un pennacchio di fumo alzarsi in lontananza. Proseguì e, quando udì delle voci, si nascose dietro un albero. Sbirciò e intravide certi tizi muoversi nella boscaglia. Erano armati. Fucile e pistola. Raggiunsero quella che era una tenda da campeggio. Quando si avvicinarono, dalla tenda uscì una donna coi capelli biondi e lunghi. Disse qualcosa e mise la testa nella tenda. Dopo un secondo uscì lei, i capelli raccolti in una coda come fili intorcinati.
Pete serrò le dita intorno al manico dell'accetta e si allontanò in silenzio. Tornò indietro, sulla strada. Aveva fame. Cercò nelle auto e trovò un pacchetto di salatini. Lo prese e scappò via, chinandosi tra i veicoli per non farsi sgamare. I sonnambuli non lo videro. Sedette ai piedi di un albero e riuscì persino a sonnecchiare. Si svegliò che il sole era uno spicchio rosso in equilibrio sulla linea dell'orizzonte. Un sonnambulo si dirigeva verso di lui grugnendo. Pete si alzò, attese che fosse abbastanza vicino e calò l'accetta. Lo prese in mezzo agli occhi. Il sonnambulo ammutolì, la bocca spalancata, e si afflosciò. Pete tirò fuori la lama, che era entrata quasi del tutto nel cranio, e tornò a sedere. Quando il sole sparì e la notte scese, si mosse.
Raggiunse il posto dove i quattro si erano accampati. C'era un fuoco basso. Seduto su un ceppo c'era uno dei due tizi che aveva visto nel pomeriggio. Teneva il fucile poggiato sulle gambe e sonnecchiava davanti al fuoco. Ogni tanto la testa ciondolava di lato e lui si svegliava, si metteva dritto e dopo poco si riaddormentava. Pete attese che chiudesse gli occhi e si mosse furtivo. Gli andò alle spalle, sollevò l'accetta e la calò. Lo beccò al centro della testa. Il tizio strabuzzò gli occhi, emise un gorgoglio e si accasciò di lato. Pete strinse il manico dell'accetta e tenne su il tizio. Lo adagiò a terra con calma, tirò fuori dal cranio la lama e posò l'accetta. Quindi prese il tizio per le ascelle, lo trascinò lontano dal fuoco e recuperò il fucile. Si accorse che aveva un silenziatore. Furbo. I suoni attiravano i sonnambuli come l'odore di merda le mosche.
Si avvicinò alla tenda. L'ingresso era per metà aperto. Mise dentro il naso con circospezione. Erano lì tutti e tre. L'altro tizio dormiva con la pistola stretta al petto, manco fosse un peluche. Pete mirò e sparò. Lo beccò alla tempia. Il tizio crepò senza fiatare. Capelli Biondi e Angie si mossero nel sonno. Pete piazzò un proiettile in testa alla bionda, posò il fucile, recuperò l'accetta ed entrò nella tenda. Fece rotolare Capelli Biondi sul tizio e si distese accanto ad Angie.
Il riverbero del focolare le illuminava la parte sinistra del volto, quella con la voglia a forma di cuore. Pete allungò la mano e la sfiorò con le nocche. Lei sollevò le palpebre. All'inizio non fece una piega, poi strabuzzò gli occhi e urlò. Fece per alzarsi, ma lui le fu subito addosso. Le bloccò il polso e il moncherino e la tenne giù col suo peso. Lei si dimenò, capì che non sarebbe riuscita a liberarsi e solo allora si placò.
«Sei una troia ingrata», ringhiò. «Ti ho salvato il culo e come mi ringrazi? Alla prima occasione te la svigni.»
Gli occhi di lei erano grandi e spaventati. Pete sentì che gli veniva duro. Lottò per non affogare in quegli smeraldi.
«Mi... dispiace», mormorò lei.
Le tremava la voce.
«Ci credo che ti dispiace.»
«Non uccidermi.»
Pete la guardò, sorpreso. «Per che cazzo di figlio di puttana mi hai preso?»
Lei iniziò a piangere. Pete mollò il moncherino e, con le tre dita superstiti della sinistra, le asciugò le lacrime.
«Non fare così. Ti ho già perdonata», mormorò.
Lei capì quanto era fuori di testa e pianse più forte. «Ti prego...»
«Va tutto bene. Ora sei al sicuro.»
Si accorse che lui aveva la mano fasciata.
«Ho dovuto tagliarmeli», disse Pete. «Mi hai dato tu l'idea. Hai fatto lo stesso, no? Gli hai lanciato il braccio e mentre quelli se lo mangiavano te la sei svignata, dico bene?»
Lei annuì. Una lacrima le ruscellò sulla guancia. Pete gliela tolse con un bacio.
«Ti amo», le disse. Lei singhiozzò. «Possiamo restare qui, se ti piace. Ci sono scoiattoli e altre bestie da cacciare. Le arrostiamo sul fuoco. Ci penso io a fare la guardia di notte. E se ci tocca spostarci, la tenda ce la possiamo portare appresso. In fondo non è che abbiamo bisogno di chissà che. Due cuori e una capanna ci bastano.»
Lei continuò a singhiozzare. Non riusciva a fermarsi. Lui si chinò e appoggiò le labbra su quelle di lei: il bacio di un moccioso alle prime armi. Si scollò e la guardò.
«Ci penso io a te», le disse. «Mi prenderò cura di te e un giorno, quando capirai che quello che ho fatto l'ho fatto per te, perché ti amo, sono sicuro che...»
Si bloccò. Lei aveva smesso di singhiozzare e lo fissava spaventata.
«Non devi avere paura.»
Lei gridò. Un sonnambulo calò su Pete, affondò i denti nella spalla e strappò un pezzo di carne. Pete urlò e gli rifilò una gomitata in bocca. Il morto andò lungo disteso. Pete si allungò, spostò il cadavere della bionda con uno spintone, sfilò la pistola al tizio morto e sparò in testa al sonnambulo che stava rialzandosi. Il bastardo ricadde.
Morto.
Di nuovo.
«Merda», disse Pete. Si rivolse ad Angie. «Devi tagliarmi via il braccio, e pure la parte di spalla dove mi ha morso.»
Andò di fuori e prese l'accetta. Mise il naso dentro la tenda.
«Vieni.» Lei uscì. «Ti ci vorrà più di un colpo. Ma non metterci troppo, o rischio di crepare per lo choc.»
Le porse l'accetta. Lei non si mosse.
«Sono sicuro che ce la puoi fare. Non devi avere paura di...»
Lei scappò via. Corse per il bosco, con la luce del fuoco che si affievoliva e le ombre che si ammassavano. Presto ci fu solo la luce di luna e stelle a guidarla. Dopo un po' rallentò, ma senza fermarsi. Scartò un paio di sonnambuli e arrivò in vista di una casupola più vecchia di Dio. Entrò e mise il chiavistello alla porta. La casa puzzava di chiuso. Attraversò il soggiorno, vide che a sinistra si alzava una scala e giunse in cucina. Cercò cibo nei pensili. C'erano due barattoli di fagioli. Li prese e si mise in cerca di qualcosa per aprirli. Rivoltò i cassetti senza trovare nulla di utile.
«Maledizione!» imprecò, picchiando i pugni sul ripiano di legno.
Tornò in soggiorno e andò alla finestra. Scostò appena la tendina pallida e guardò di fuori. Si aspettava di vederlo arrivare di corsa, ma non vide nessuno. L'aveva seminato. Tutto quel crossfit che faceva era servito a qualcosa. Lasciò ricadere la tendina e andò a sedersi sul divano. Era comodo. Si disse che avrebbe rifiatato un secondo o due e finì per addormentarsi.
Quando si svegliò, lui le sedeva accanto e la fissava. Aveva gli occhi morti, bianchi come palline da golf. Lei aprì bocca per urlare e lui le saltò alla gola.
Si svegliò. Un incubo. Era ancora notte. Tornò alla finestra e guardò di fuori. Un sonnambulo passò ciondolando e si allontanò. Pensò al da farsi. Dove poteva andare? I tre che l'avevano accolta parlavano di un posto sicuro a nord. Peccato che lei non sapesse dove fosse, 'sto benedetto nord. Aveva il senso dell'orientamento di un uccello ubriaco. Uno dei due tizi le aveva detto che il muschio che cresceva sugli alberi puntava a nord, e che poteva usarlo per orien...
Si bloccò. Aveva sentito uno scricchiolio al piano di sopra. Fissò il soffitto come se potesse guardarci attraverso e attese, ma il rumore non si ripeté.
Te lo sei immaginat...
Di nuovo: un sinistro gemere di legni. C'era qualcuno. Udì i passi spostarsi, ma erano strani. Avevano una cadenza che faceva pensare a un tizio zoppo che si trascinasse appresso la gamba malandata. D'un tratto silenzio, poi un grugnito e una gragnuola di tonfi violentarono il silenzio. L'ultimo tonfo fu il più pesante. Uno strato sottile di polvere si sollevò poco distante dalla soglia della cucina. Capì che qualcuno era ruzzolato giù per le scale. Nella semioscurità della stanza un corpo si sollevò grugnendo e dondolando.
Angie si voltò e ruotò il pomello. La porta si aprì un poco e si bloccò. Ricordò di aver messo il chiavistello e lo rimosse. La spalancò, si gettò fuori e se lo trovò davanti. Era piegato e ansava. L'accetta ricadeva lungo il fianco come un prolungamento del braccio.
«L'hai fatto di nuovo», disse Pete. Fecce un passo verso di lei, costringendola ad arretrare. «Dopo che ti ho salvato il culo per la seconda volta.»
Sollevò l'accetta. Angie fece un altro passo indietro e due mani ossute calarono sulle sue gracili spalle. Urlò. Pete si lanciò su di lei. Calò un fendente e qualcosa esplose con un rumore prima duro e poi liquido. Angie capì di non essere lei quella colpita solo quando udì un tonfo alle sue spalle. Si voltò e vide il sonnambulo, l'accetta ficcata in testa.
«E con questa fanno tre, le volte che ti ho salvato il culo», disse Pete. Aveva il fiato corto. «Perché non capisci? Che cazzo di problema hai? Non voglio farti male. Io ti a...»
Le ginocchia cedettero e crollò come un albero abbattuto. Angie restò a fissarlo, incapace di muoversi. Lui sembrava la sagoma di un delitto.
Se vuoi filartela, questo è il momento, si disse.
Fece per scavalcarlo. Lui le afferrò la caviglia, ringhiò e gliela addentò. Le staccò via un pezzo di tendine con un morso. Angie urlò, cadde in avanti e prese a strisciare sui gomiti. Arrivò alla porta e uscì. Riuscì a mettersi in piedi ma, quando poggiò a terra il piede ferito, una folgore di dolore le risalì fino al cervello. Cadde di nuovo e si voltò sulla schiena in tempo per vederlo uscire. La luce lunare lo ingabbiava come un velo nunziale. Aveva gli occhi come velati da una cataratta, la pelle di un grigio smorto e vene che affioravano in fronte e agli angoli degli occhi. Si era trasformato con una rapidità sorprendente.
Angie strisciò indietro usando i gomiti. Lui si muoveva a scatti, trascinando i piedi come zavorra, le spalle cadenti e la testa ciondolante. Aveva in faccia uno strano ghigno. I sonnambuli che aveva incontrato finora non avevano espressione.
Mentre arretrava, cozzò la nuca contro un albero. Appoggiò la schiena al tronco e si tirò su. Lui guadagnò terreno. Angie capì che saltellare via su una gamba, come un canguro sciancato, non avrebbe prodotto risultati. Attese che lui si avvicinasse fin quasi a toccarla, si abbassò e gli rifilò una spallata. Lui cadde all'indietro e lei per poco non lo seguì. Riuscì a ritrovare l'equilibrio all'ultimo – sia benedetto il crossfit nei secoli a venire, posso sentire un amen? – e saltellò verso la casa. Entrò e si gettò sul sonnambulo morto. Afferrò l'accetta con l'unica mano disponibile e tentò di sfilargliela dalla testa, ma la lama era ficcata in profondità.
«Andiamo...» grugnì.
Uno, due, tre strattoni e la smosse un poco. Sentiva i passi avvicinarsi. Quando lui entrò, ce l'aveva quasi fatta. Un ultimo strattone e la lama uscì dal cranio con un suono liquido. Si girò e, quando lui le si buttò addosso, frappose il manico. Lui aprì la bocca e morse il legno, mentre con le unghie le graffiava le braccia scoperte.
Angie lo allontanò un poco, sollevò un ginocchio e glielo piazzò sulla pancia. Si sollevò un poco, andò giù e, usando la gamba come leva, lo fece volare all'indietro. Lui atterrò con un tonfo e subito iniziò a contorcersi nel tentativo di rimettersi in piedi. Lei ci riuscì per prima. Saltellò fino alla soglia, uscì, gettò via l'accetta e chiuse la porta. Lo sentì sbatterci contro e graffiare. Si lasciò cadere e guardò i danni che le aveva fatto. Era messa male. Doveva tagliarsi via il piede, se non voleva trasformarsi.
Con la luna a illuminarla, Angie sollevò l'accetta e svenne. Quando riprese conoscenza era ancora notte. Dall'interno della casa le giungevano i grugniti e il raspare alla porta. Aveva caldo. Distesa lì, su un tappetto di foglie morte, con la brezza autunnale che la accarezzava, si sentiva bruciare.
Si toccò la fronte.
«No...» mormorò.
Col velo lunare a farle da luce, si accorse di avere le braccia piene di graffi. Se anche fosse riuscita a tagliarsi il piede, il morbo l'avrebbe presa lo stesso.
«Pezzo di merda... figlio di puttana!»
Tirò pugni al tappeto di foglie, frantumandole. Le aveva portato via tutto. L'aveva rapita, aveva ucciso quei tre che stavano cercando di aiutarla, le aveva mozzato il braccio e, come ciliegina su quella torta di merda, le aveva passato il morbo. Bestemmiò e pianse a lungo. Poi, conscia del proprio destino, decise di compiere l'ultimo gesto consapevole della sua schifosa esistenza. Si alzò e, imbracciando l'accetta, si avvicinò alla casa. Dietro l'uscio lui ringhiava e raspava.
Angie chiuse le dita della sinistra sul pomello mentre con quelle della destra stringeva il manico dell'accetta. Contò fino a tre, poi ruotò il pomello e menò una spallata alla porta. Lui finì gambe all'aria. Lei anche, ma riuscì a rialzarsi più velocemente. Entrò e, brandendo l'accetta, gli si lanciò addosso. Col primo fendente lo beccò a un braccio. Lui la graffiò con l'altro. Poco male. Ormai era fottuta. Mentre lui cercava di alzarsi, lo colpì di taglio alla gola. Riuscì quasi a staccargli la testa. Un fiotto di sangue esplose e la insozzò. Preparò un altro colpo e sentì il calore del morbo salire. Le offuscò la vista, le annebbiò i sensi e le provocò allucinazioni. Si vide mentre azzannava un essere umano.
Tornò in sé, si accorse che lui stava per morderla e menò un altro colpo. Gli staccò la testa, che rotolò più in là, battendo i denti come un giochino a molla. Angie gattonò e, con l'ultimo barlume di lucidità, calò la lama. Un colpo preciso, dritto in mezzo agli occhi. La bocca smise di muoversi.
«Affanculo», mormorò.
Si poggiò contro il divano. Avesse avuto un briciolo di forza in più, avrebbe piazzato quella lama nel proprio cervello, ma era sfinita. E comunque, si disse, la morte è morte. Potevi scegliere come andartene, ma il risultato era sempre lo stesso.
Chiuse gli occhi e attese l'inevitabile.
* * *
Camminava da quando il sole era tramontato. Dribblava i sonnambuli che girovagavano nel bosco. Erano lenti e non fece una gran fatica. Stava pensando di tornare indietro e costeggiare la strada, quando vide la casa. La luce lunare la imbrigliava. Sembrava un fantasma di legno. La porta era aperta e davanti all'ingresso c'era un tappeto di foglie. Ci camminò sopra facendole crocchiare e sbirciò dentro. La luce della luna, che filtrava dalla finestra, lo aiutò a distinguere un corpo decapitato e la testa con un'accetta ficcata nel cranio.
Vediamo se trovo qualcosa da mettere sotto i denti, si disse.
Entrò e una forma scura emerse da dietro il divano. Joe indietreggiò. Pensò per un istante di recuperare l'accetta, visto che era disarmato, ma la forma tutta storta era troppo vicina. Indietreggio e, nella fretta, inciampò nei propri piedi e cadde. Arretrò sui gomiti mentre la forma usciva zoppicando sul moncherino. Il velo lunare la illuminò e Joe restò di sasso. Era un sonnambulo, ma non sembrava morto. Aveva lunghi capelli ricci e occhi chiari. Una piccola voglia a forma di cuore campeggiava sulla guancia sinistra.
Joe la trovò bellissima.
Lei apriva e chiudeva la bocca. I denti battevano con un rumore di nacchere. Dimenticò per un istante di avere di fronte uno di quegli abomini e, quando lei si buttò in ginocchio e distese le braccia verso di lui, Joe spalancò le proprie per accoglierla. Lei puntò alla gola. Affondò i denti e gliene staccò un pezzo. Joe urlò. Il sangue uscì a fiotti. Nel giro di pochi secondi era morto.
Lei prese a mangiarlo. Con le unghie gli aprì un solco nello stomaco e scavò fino a trovare le interiora. Le raccolse con la mano e se le cacciò in bocca. Quando l'ebbe svuotato di tutto quello che aveva in corpo, si alzò e ciondolò via alla ricerca di carne fresca. Si inoltrò nella boscaglia e presto incappò in un piccolo gruppetto di sonnambuli. Erano una dozzina, tutti maschi. Quando la videro, smisero di ciondolare e la fissarono, le mandibole che facevano su e giù come saracinesche automatiche inceppate. Lei passò oltre e quelli le andarono dietro. Durante il tragitto incapparono in altri sonnambuli. I maschi si fermavano a fissarla per poi seguirla, mentre le donne passavano oltre. In breve si formò un folto gruppetto.
Poi quelli in fondo iniziarono a cadere come se abbattuti da una raffica di proiettili.
«Figli di puttana.»
Un'ombra si mosse. La luna la illuminò, dandole la forma di un tizio alto e grosso. Il tizio alto si avvicinò a un sonnambulo stecchito con una freccia ficcata nel cranio. Sfilò la freccia e caricò la balestra. Altre due ombre passarono sotto il fascio di luce lunare. Un tizio magro e una donna bruna superarono il tizio alto, impugnarono le pistole e spararono ai sonnambuli. Due di quelli in fondo caddero, un buco nella nuca per uno. Quelli davanti continuarono a camminare come niente fosse.
«Perché non ci attaccano?» chiese il tizio magro.
«Boh, ma col cazzo che non ne approfitto», fece il tizio alto.
Sparò una freccia. La punta trapassò la nuca di un sonnambulo, che crollò faccia a terra. La donna aggirò i sonnambuli rimasti, tenendosi a distanza, e arrivò in testa al gruppo. C'era un sonnambulo sciancato, dai capelli lunghi e ricci, che guidava la mandria. Un paio di quelli che le stavano attaccati al culo allungarono le mani e la sfiorarono con la punta delle dita. Sembrava che provassero a fermarla, o comunque a richiamare la sua attenzione.
«Jody», chiamò la donna. Il tizio magro la raggiunse. «Guarda.»
Gli indicò la testa del gruppo.
«Che stanno facendo?» chiese Jody.
«Non lo so, ma sembrano i marmocchi di Hamelin che seguono il Pifferaio.»
«I chi di cosa che seguono chi?»
«Hai la testa più vuota di quella d'un sonnambulo.»
«Fottiti.»
«E un corso di buone maniere non ti farebbe male.»
«Rifottiti.»
Il tizio alto sopraggiunse dopo aver abbattuto un altro sonnambulo. «Che cazzo state facendo?»
«Guardiamo», disse Jody.
«Mica è un drive-in.»
«No, ma è interessante. Guarda.»
Il tizio alto guardò. «Ma che cazzo fanno?»
«C'entra qualcosa la tipa zoppa in testa al gruppo. Guarda come le stanno attaccati al culo», disse la donna.
Spianò la pistola e sparò. Un sonnambulo crollò. Gli altri lo scavalcarono.
«O sono diventati sordi o non ci trovano appetitosi.»
La donna si avvicinò al gruppetto ciondolante.
«Cazzo fai?» chiese il tizio alto.
Lei lo ignorò. Camminò al fianco di un sonnambulo. Quello non diede segno di vederla. La donna gli sfarfallò una mano davanti agli occhi morti. Il sonnambulo non fece una piega. La donna guadagnò la testa del gruppo. Osservò la tipa dai capelli ricci e lunghi. Non sembrava un sonnambulo. Forse era morta da poco.
La sonnambula si accorse della presenza viva che le stava accanto. Ringhiò, allungò le braccia e ghermì le spalle della donna. La trascinò giù e le fu sopra. La donna la afferrò per la gola e si ritrovò i denti di lei a uno sputo dalla faccia, che schioccavano e bramavano carne fresca. I sonnambuli nelle retrovie si fecero sotto. Due si inginocchiarono e accarezzarono i capelli ricci della sonnambula. Uno le si lanciò sopra e iniziò a fotterla da dietro.
«Jody! Tayron!» urlò la donna.
I denti erano a uno sputo dal naso. Sentiva il fiato della sonnambula. Sapeva di tombe e corpi in putrefazione. Udì due spari, voltò la testa da un lato e vide cadere gli zombie che carezzavano la sonnambula. Le loro teste cozzarono l'una contro l'altra quando andarono giù. Poi fu la volta del sonnambulo che pompava come un disperato. Tayron lo prese per il colletto della camicia a quadri e lo tirò via, poi gli piazzò una freccia in fronte. Senza il peso dello zombie arrapato, la donna riuscì ad allontanare un poco la sonnambula. Con la mano libera sfilò il coltello dalla cinta e le piantò la lama nella tempia. I denti smisero di battere. La sonnambula si ammosciò come un lenzuolo bagnato.
La donna se la scrollò di dosso e Tayron la aiutò a rialzarsi.
«Quel figlio di puttana se la stava scopando», disse Jody.
«Già. Controlla se è ferita mentre faccio fuori gli altri», fece Tayron.
Fece fuori i sonnambuli superstiti e tornò indietro.
«Tutto okay?» chiese alla donna.
«Sono ancora tra i vivi e ho intenzione di restarci il più a lungo possibile», rispose lei.
«Che cazzo è successo?»
«Non ci ho capito molto, ma sembravano tutti presi da quella fighetta morta.»
«Nel senso che volevano scoparsela?» chiese Jody.
«L'hai visto quel cazzetto morto?» fece Tayron. «Le si è buttato addosso e ha iniziato a pompare.»
«Forse possiamo usarla», disse la donna.
«Usare chi?»
«La fighetta morta.»
«Non ti seguo.»
«Hai visto come le stavano dietro quei morti di figa? Non ci cacavano manco per il cazzo. Possiamo usarla per distrarli.»
«Ti è sfuggito un piccolo dettaglio: la fighetta è morta. Morta per sempre.»
«L'ho notato, Tayron, ma possiamo fare in modo che sembri viva... nel senso di morta... insomma, hai capito.»
«E come vorresti fare? Le infili un braccio su per il culo e te la porti appresso come un pupazzo da ventriloquo?»
«Pensavo a qualcosa di più pratico.»
«E sarebbe?»
La donna si avvicinò alla sonnambula e, usando il grosso coltello da caccia, le tagliò la testa. Afferrò i capelli e la sollevò.
«Mi piazzo sul collo 'sta testa e, mentre quelli mi sbavano dietro, voi li fate fuori.»
«E secondo te funziona?»
«Facciamo una prova», disse Jody, e indicò ai due un sonnambulo che si avvicinava.
La donna abbottonò il giubbotto di pelle, tirò su il colletto e ci fece sparire dentro la propria testa al modo di una tartaruga. Poi, aiutata da Tayron, piazzò la testa della sonnambula sulla propria e la tenne in equilibrio con le mani. Il sonnambulo si avvicinò ciondolando, vide la testa e si bloccò.
«'rca troia, funziona», fece Jody.
La fissò estasiato per qualche attimo, poi riprese a ciondolare. Jody spianò la pistola, ma Tayron gli fece segno di non sparare. Il sonnambulo si avvicinò alla donna, allungò una mano e fece scivolare le dita scheletriche sul volto della sonnambula. Poi fece passare le braccia dietro la nuca, la strinse in modo goffo e iniziò a pompare.
«Figlio di...» fece Tayron.
«Che cazzo sta facendo?» urlò la donna.
«Ti sta scopando.»
«Toglimelo!»
«'spetta, che ha quasi finito.»
«Tayron!»
Tayron sghignazzò. Armò la balestra, si avvicinò e piazzò una freccia in testa al sonnambulo. Il morto si afflosciò sulla donna, che andò giù con lui. La testa della sonnambula rotolò via. Tayron andò a prenderla mentre la donna cacciava fuori la propria, di testa, si scrollava di dosso il morto e si alzava.
«Però, mica male», disse Tayron, guardando il viso della sonnambula.
Teneva la testa per i capelli, sollevata sotto una lama di luce lunare. Notò una voglia a forma di cuore sulla guancia sinistra. Da viva doveva essere una bella fighetta e anche da morta non era male. Di certo i sonnambuli apprezzavano.
Tornò dalla donna e la trovò che prendeva a calci il sonnambulo.
«Pezzo di stronzo!» diceva mentre gli calciava la testa. Quando ebbe finito di sfogarsi si rivolse a Tayron, orgogliosa. «Te l'avevo detto che avrebbe funzionato.»
«Non ti gasare, hai solo avuto un'intuizione. Succede a tutti», disse Tayron.
«Ti brucia che non ce l'hai avuto tu, 'sto colpo di genio.»
Tayron le tirò la testa della sonnambula. La donna la prese al volo.
«Perché devo portarla io?»
«Perché hai avuto l'idea.»
Si buttò in spalla la balestra e si allontanò. La donna guardò Jody.
«Non pensarci nemmeno», fece Jody, e raggiunse Tayron.
«Che palle», mormorò la donna.
Andò dietro ai due compari, la testa della sonnambula tenuta per i capelli come un moderno Perseo.
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