IO-ILLUSIONE

PREMESSA

Ispirato da alcune mie poesie filosofiche (in particolare Nella mente e Io non esisto nella raccolta Riflessi per chi fosse interessato), ho provato a costruire questa prosa tecnica. Premetto che sono un fisico (per cui quando vi parlavo del Teorema H navigavo nelle mie acque), ma non un neuroscienziato (sebbene io abbia delle competenze trasversali di cibernetica), sono anche un appassionato di filosofia (mi diletto nello scrivere e ne conosco la storia), ma non un vero filosofo. Pertanto prendete questo scritto per quello che è: soltanto il mio pensiero.
E perdonatemi se mai dicessi cose non corrette!   
 

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La mente umana si presenta come un meccanismo straordinariamente complesso, un intrico di reti neurali che operano secondo leggi chimico-fisiche rigorose, in un ordine che è al contempo necessario e insondabile. Tuttavia, questo ordine non è rigido, né lineare, ma piuttosto un caos deterministico, dove regole precise generano esiti imprevedibili a causa della complessità intrinseca delle interazioni. È in questa dinamica che emerge ciò che chiamiamo "Io", un'illusione funzionale, un "epifenomeno" che nasce da processi automatici e inconsapevoli.
La coscienza non è un'entità autonoma o un agente sovrano: essa è "spettatrice in diretta" e "autrice retrospettiva", un occhio che osserva e interpreta i processi che avvengono nella materia cerebrale, ma che non li origina, né li comanda. Anzi, è da essi che viene generata! L'idea di essere al timone delle nostre vite è il frutto di una narrazione ex post facto, un tentativo del cervello di attribuire ordine e senso a un flusso incessante di stimoli e risposte.
L'illusione del controllo, che tanto profondamente caratterizza la nostra esperienza di esseri coscienti, può essere spiegata attraverso il concetto di percezione post hoc. Le nostre azioni e i nostri pensieri non nascono da una volontà decisionale consapevole, ma sono il prodotto di configurazioni neurali preesistenti. Ed ecco che la coscienza, lungi dall'essere l'autrice del nostro comportamento, si limita a creare una giustificazione retrospettiva che ci offre la convinzione fallace di "essere al timone" delle nostre vite.
In un certo senso, non decidiamo prima di agire: agiamo assistendo all'agire, quindi lo interpretiamo "in tempo reale", cioè in maniera pressoché sincrona, per spiegare a noi stessi il motivo delle nostre azioni. In questo contesto, il caos deterministico svolge un ruolo fondamentale: i nostri pensieri e le nostre azioni sono il risultato di interazioni non lineari tra le strutture neurali, dove piccole variazioni possono amplificarsi, generando risposte uniche e imprevedibili. Si trattasse di semplice e rigido determinismo saremmo dei robot, mentre la sensazione di controllo non è altro che una sorta di "effetto collaterale" di questa dinamica caotica. Ma è proprio questa complessità che rende la narrazione ex post non solo inevitabile, ma anche altamente plastica e adattiva. Il cervello, operando come un sistema caotico, produce molteplici esiti possibili, e in questo modo la coscienza interviene retrospettivamente per selezionare e interpretare il risultato in modo coerente con l'identità percepita. Questo processo non genera solo una giustificazione post hoc, ma contribuisce anche a modulare le risposte future. La narrazione, dunque, non è un semplice effetto passivo, ma una strategia funzionale: permette al cervello di adattarsi a un ambiente imprevedibile e di evolversi, integrando esperienze passate con nuove configurazioni neurali.
Non vi è, dunque, alcun "Io che decide", ma solo un "apparato di controllo" che interpreta ciò che già è stato deciso da strutture profonde. Il cervello, in quanto sistema complesso, elabora risposte e azioni che poi noi percepiamo come libere, ma che sono in qualche modo "inevitabili" dati i vincoli della nostra biologia e le condizioni che modulano il suo funzionamento. Il libero arbitrio, in questa visione, parrebbe una sorta di "inganno necessario" per mantenere la coerenza del nostro essere.
L'Io, così come lo intendiamo comunemente, è un costrutto narrativo. Non è un'entità stabile, ma un aggregato fluido di ricordi e proiezioni future, di esperienze e percezioni. Mediante la memoria del passato e l'anticipazione del futuro prende forma questa narrativa, in una continua attività di interpretazione e revisione. L'identità formatasi in questo tessuto di processi cognitivi, il nostro Sé, non esiste in senso ontologico, ma solo come fenomeno emergente, cioè qualcosa che appare soltanto come prodotto di interazioni e che non possiede una propria realtà indipendentemente da essi.
Eppure, questa identità non è mai completamente consapevole di sé. Lo "sguardo della coscienza" può osservare il mondo esterno, ma non può mai cogliere la propria essenza in modo diretto. Essa si riflette nei ricordi, nei racconti che tessiamo per darci un senso, ma rimane inaccessibile nella sua totalità. Si tratta del "paradosso dell'osservatore". Sopponiamo che un soggetto sia cosciente di un oggetto, chiamiamolo "A", lo percepisce, lo interpreta, lo inserisce in uno schema mentale. La coscienza prende poi coscienza di sé stessa nell'atto di percepire A, osserva sé stessa nell'atto di guardare, per cui è cosciente di essere cosciente di A. Ma il processo non si ferma qui: nel momento in cui la coscienza riflette su questo atto, essa diviene consapevole di essere stata consapevole di essere consapevole di A, e così via, in una regressione infinita.
Questa spirale riflessiva è la natura stessa di ciò che chiamiamo "metacognizione", ovvero la capacità di riflettere sui meccanismi cognitivi, ma è anche il suo limite. Per quanto la mente possa osservare sé stessa, non può mai farlo completamente. Ogni tentativo di raggiungere la piena consapevolezza del proprio funzionamento lascia inevitabilmente qualcosa nell'ombra: un livello più profondo, un angolo nascosto della coscienza che sfugge all'osservazione.
A causa di questo limite strutturale, la coscienza, nel suo tentativo di catturare sé stessa, è sempre un passo indietro rispetto a ciò che osserva. La metacognizione non è mai completa perché osservare un processo implica l'uso di un altro processo che, a sua volta, resta inaccessibile. La mente, in altre parole, non può mai "afferrare" sé stessa interamente, in quanto è sia l'osservatore che il campo dell'osservazione.
In questo quadro, l'Io cosciente non è altro che un'ombra della miriade di processi materiali che avvengono nell'encefalo. Non è un agente, ma una conseguenza, una "rappresentazione teatrale" che la mente mette in scena per attribuire senso e ordine a ciò che altrimenti apparirebbe caotico. La coscienza, lungi dall'essere un'entità separata o sovrana, è un fenomeno emergente che sorge dall'interazione di elementi fisici e chimici, un prodotto della "materia che modifica materia" in un incessante ciclo di feedback. Senza processi neurali non vi è coscienza, ma allo stesso tempo è la coscienza a rimodellare i pattern neurali adattandoli agli stimoli.
In ultima analisi, se tutto è prodotto da un flusso incessante di materia ed energia che si intreccia e si trasforma, di cui noi siamo spettatori attivi, esiste il libero arbitrio? Se esiste, è soltanto nella misura in cui la dinamica caotica neurale genera impredicibilità; e qui mi viene in mente una grandezza propria della Teoria dell'Informazione che è l'Entropia di Shannon.
Se la chiave di lettura della coscienza, questo grande mistero che è prodotto della materia cerebrale ma che ancora non si riesce fisicamente a localizzare nella scatola cranica se non come interazione (tutta da chiarire) tra diverse aree del cervello, fosse nei fenomeni quantistici, intrinsecamente aleatori, dunque svincolati dal determinismo e quindi soltanto soggetti alle leggi del caso, questo rivaluterebbe la tesi sull'esistenza del libero arbitrio? Sarebbe quindi la coscienza a generare quella materia che a sua volta la genera? Perdonatemi la speculazione al limite del metafisico!
Siamo il prodotto di un'architettura cerebrale che ci governa e ci illude di essere al pieno comando, un miraggio che si è ben radicato nell'evoluzione e che rende possibile la nostra esperienza del mondo. D'altronde se mi guardo allo specchio mi riconosco, dico di essere Io; ma poi mi rendo conto di vedere soltanto il mio corpo, Mio, cioè che appartiene al mio Io. Ma l'Io non è nemmeno il cervello a cui è indissolubilmente legato, perché è un Suo organo. Dove si trova quindi il nostro Io e quali sono i suoi confini? Non lo sappiamo e da qui emerge la sua natura epifenomenica di Io-Illusione.
Siamo forse noi a decidere quali pensieri debbano attraversare la nostra mente?
Ragioniamo su ogni singola parola quando ci esprimiamo o ce le ritroviamo già sulla lingua?Pensiamo ad ogni singolo muscolo quando ci muoviamo, oppure tutto avviene in automatico, per cui ci ritroviamo già in movimento seguendo una volontà che definiamo "nostra", ma di cui non ne conosciamo la provenienza?
Ed ecco che la sensazione di completo controllo è un inganno mentre l'Io è un'illusione della Volontà, prendendo in prestito Schopenhauer, di quella forza primordiale che sottende la realtà tutta e che si manifesta incessantemente in ogni essere vivente e fenomeno naturale.
Se l'Io è, metaforicamente parlando, il protagonista del film, allora la Coscienza, conditio sine qua non dell'esperienza interna ed esterna integrata nell'Io, è lo schermo su cui tale film si proietta. Sebbene la sua esistenza sia incontestabile (cogito ergo sum), possiamo comunque riconoscerle un aspetto "apparente" in quanto appare come tale soltanto al soggetto che la sperimenta. Dall'esterno possiamo dedurre che un soggetto sia cosciente, ma non possiamo osservare e misurare la sua coscienza o, almeno ad oggi, leggergli nel pensiero o provare le sue emozioni e sensazioni se non per mezzo del linguaggio, ovvero della comunicazione. Al contrario dell'Io, che per quanto sia un costrutto illusorio, è relativamente stabile in quanto identitario, la coscienza, pur estendendosi oltre a esso, è continuamente mutevole e in balia degli stimoli presenti. La coscienza è un fenomeno emergente da processi materiali globali sottesi, e sebbene sia il risultato di un qualcosa di più della semplice sommatoria delle interazioni neurali, essa è riconducibile ad una soglia di complessità di interazioni tra essi, per cui non è dotata di "realtà sostanziale" autonoma. Secondo alcuni filosofi greci come Parmenide e Platone, il mutamento è un inganno dei sensi. Si pensi a quanto possa differire la percezione del tempo fisico oggettivo e misurabile da quello soggettivo, sottoposto a dilatazioni e contrazioni a seconda del contesto. In questo senso possiamo parlare di "natura apparente della coscienza", senza negarne affatto l'esistenza: una sorta di palcoscenico impalpabile dove avviene una rappresentazione altrettanto fittizia del mondo. D'altronde esiste oggettivamente la luce nello spettro del visibile formata da fotoni di una certa frequenza che può essere fisicamente misurata, ma i colori così come vengono percepiti, senza una decodifica neurale, ovvero senza un osservatore cosciente, non esistono.

Concludo con tre dilemmi filosofici che pongo al lettore.

Se l'Io è Io-Illusione, perché ci preoccupiamo dell'immortalità di quell'Anima di cui il Sé potrebbe solo essere una manifestazione parziale? Perché è più importante la sopravvivenza e conservazione della nostra identità e memoria rispetto a quella del nostro corpo fisico?

Se anche il Libero Arbitrio ha una componente "illusoria", come dovrebbe influire ciò sul nostro sistema morale e giuridico? La responsabilità personale potrebbe essere reinterpretata alla luce di questa prospettiva?

Se la Coscienza è Coscienza-Apparenza, allora, sintetizzando il pensiero di Nietzsche, la Verità è Apparenza e l'Apparenza è Verità?

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