45.
Dorian, insieme ad altri Assaltatori tra i quali Asad, mi condusse lungo un'ala del loro quartier generale. Percorremmo gli stessi vicoli che mi avevano portata all'aula nella quale avevo trovato i miei tre fratelli.
– Cosa ci facciamo qui? – chiesi.
Avevo il terrore che volesse mostrarmi il modo in cui li stavano torturando.
– Voglio spiegarti in cosa consiste la guerra tra me e Keller e il ruolo che tu hai giocato. – rispose con tranquillità nella voce – Ma per farlo devo mostrarti delle cose.
Un Assaltatore spalancò la porta di una sala e mi spinse all'interno. Era grande quando tutto il piano inferiore dell'orfanotrofio nel quale ero cresciuta, sembrava una sala da ballo. Decine e decine di bambini indossavano il casco nero e si muovevano sinuosamente sulle note delle musica sparata al alto volume.
– Lo trovi strano, non è vero? – mi chiese il ragazzo albino.
Annuii spaventata e incuriosita allo stesso tempo. E in parte anche divertita, trovavo il tutto assolutamente assurdo.
– Andiamo avanti.
In ogni stanza che visitavamo, trovavamo bambini intenti a leggere, disegnare, suonare e anche a fare sport, sempre e rigorosamente con il casco ben saldo sulla testa.
Superato l'arco di una nuova porta, trovammo i bambini piegati sui loro quaderni colorati.
– Cosa fanno? – chiesi.
– Scrivono storie, inventano. – mi rispose Dorian, incrociando le braccia al petto muscoloso e gonfio d'orgoglio.
È tutto così assurdo, così surreale. Continuavo a ripetermi.
Ogni qualvolta avevo immaginato le torture che gli Assaltatori affliggevano ai bambini, nella mia mente scorreva sangue e il silenzio era perennemente rotto dalle loro urla agonizzanti.
Mi era poi balenato un dubbio, un dubbio tanto terribile che cercai di scacciarlo prima che piantasse le sue radici nel mio cervello. Era tutto così familiare ai giorni passati nell'Alveare a Beehive, ed era una coincidenza troppo grande per essere effettivamente una coincidenza. Chiusi gli occhi e cancellai quel terribile pensiero dalla mente.
– Abbiamo quasi finito. – mi sussurrò Dorian tra i capelli. Una lunga scia di brividi mi percorse tutto il corpo.
Il ragazzo mi posò una mano sulla spalla e mi condusse all'interno dell'ultima stanza. Era più grande di tutte le altre, diverse fila di letti occupavano tutto il locale illuminato da una forte luce accecante. I bambini dormivano con ancora il casco sulla testa. Accanto ai loro letti, dei monitor mostravano i loro sogni. Erano tutti colorati, nitidi e felici, sembravano perlopiù dei ricordi. Un bambino di circa tre anni stava sognando la sua mamma, poi il sogno divenne di colpo un incubo. Gli Assaltatori lo stavano prelevando con la forza, strappandolo alle braccia della madre.
Mi scese lungo la guancia una lacrima di rabbia.
– Cosa vuol dire tutto questo? – chiesi in un sibilo.
– Credo che tu lo sappia. – rispose alle mie spalle.
Asad mi afferrò per un braccio e mi trascinò all'interno del laboratorio.
Il mio cuore iniziò a battere sempre più veloce. Nell'aria c'era un odore fin troppo familiare, gli scaffali erano pieni di ampolle contenenti un liquido verde che cercai di ignorare, ma quando il mio sguardo arrivò all'estremità della sala, mi mancò il respiro.
Raggiunsi sulle gambe tremanti il macchinario che aveva attirato la mia attenzione: il Pungiglione.
Dorian afferrò un'ampolla piena di Nettare fino all'orlo e lo annusò con gusto. Lo guardava con godimento, come se volesse berlo fino all'ultima goccia. Mi venne il voltastomaco.
– Sei un mostro. – ringhiai.
Aveva ucciso i miei fratelli per quel liquido, stava preparandosi alla guerra con il Nettare dei bambini.
– Non posso negarlo. Ma spero che tu voglia ammettere che io sia un mostro migliore di Keller. – una scintilla di pura follia gli attraversò gli occhi bianchi come la neve – Il tuo presidente usa sei stati d'animo per stimolare la vostra produzione di Nettare, io uso sei situazioni che stimolano la fantasia per guadagnarmi il Nettare! – concluse allargando la bocca in un sorriso inquietante, schizofrenico.
– Tu sei pazzo! – urlai con rabbia.
Dorian mi guardò compassionevole e mi afferrò per una mano.
– Vieni, voglio mostrarti un'ultima cosa. – disse.
Ritrassi di scatto la mano e feci alcuni passi indietro. Asad mi afferrò per i fianchi e mi alzò di peso. Mi scaraventò a terra solo quando ci ritrovammo davanti ad un enorme Automa.
Era alto almeno tre metri, nero lucido e i suoi due sensori rossi al posto degli occhi scintillavano di una luce terrificante.
– Stai a vedere. – si raccomandò – Fuoco! – i suoi scagnozzi azionarono il lanciafiamme contro all'enorme uomo d'acciaio senza riuscire minimamente a scalfirlo. Così come non accadde nulla quando provarono a scaricargli contro un'intera munizione di proiettili o quando lo colpirono con violenza con qualsiasi altro tipo di arma.
Siamo tutti spacciati.
– È meraviglioso, non è vero? – La voce di Dorian era carica di eccitazione.
– Cosa c'entro io con tutto questo?
– Dimmi una cosa, Julia: hai prodotto del Nettare? – mi chiese – Bene. Sai che se hai superato la Valutazione è perché hai delle caratteriste particolari che ti permettono di produrlo. Quei sei stati d'animo che hai provato, ti rappresentano. Se fossi stata pura, una persona di buon cuore, non avresti mai superato la prova. C'entri con tutto questo, perché, come me, sei marcia dentro.
Alzai il braccio pronta ad assestargli uno schiaffo in pieno viso, ma lui mi afferrò il polso a mezz'aria. Aveva ora un'espressione indecifrabile. Era tanto bello quanto inquietante. Era un Dio della morte.
Senza neanche rendermene conto, iniziai a piangere. Ci feci caso solo quando sentii le mie guance bagnarsi di lacrime. Il mio Nettare avrebbe ucciso delle persone.
Dorian mi tirò per il polso e premette il suo petto contro il mio. Mi circondò con le sue braccia e posò una guancia sulla mia testa.
Mi sta abbracciando?
Le narici mi si riempirono del suo odore, un odore simile a quello della pioggia. Sapeva di tempesta e, senza volerlo, mi sentii inebriata. Era un odore freddo, tutto il contrario del profumo di Carter.
Carter.
Mi divincolai dall'abbraccio, respingendolo con forza e decisione. Dorian mantenne la sua espressione divertita.
– Tu non sei Carter! – urlai a me più che a lui.
– No, è vero. – rispose – Sono meglio.
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