41.

– Fatemi uscire! – urlavo, battendo il pugno contro la parete del furgone che mi separava dagli Assaltatori.

Le nocche delle mani mi erano diventate gonfie e sanguinanti a furia di prenderla a pugni, tutto questo senza che i tre uomini mi degnassero della minima attenzione. Le corde avevano iniziato a segarmi i polsi, così come le caviglie.

Sbattei con rabbia la schiena contro il metallo e chiusi gli occhi.

Carter. Carter, Carter, Carter.

Non riuscivo a pensare ad altro. Se anche Asad non lo avesse ucciso, ferito e senza nessuno ad aiutarlo avrebbe avuto ben poche possibilità di riuscire a tornare al villaggio  "4". Le possibilità che invece venisse a salvarmi erano pari a zero.

L'unica grande consolazione era sapere che, probabilmente, avrei rivisto i miei fratelli. Al solo pensiero il cuore prendeva a battere talmente forte da farmi male.

Dopo due ore di viaggio, il furgone si arrestò. I tirapiedi di Asad aprirono gli sportelli del retro e mi afferrarono con forza. Di primo impatto la luce solare mi fece male agli occhi costringendomi a stringere le palpebre. Quando riuscii a riaprirli, mi guardai intorno ma non vidi nulla. Solo il solito deserto.

Non so perché, ma ogni volta in cui avevo pensato alla dimora degli Assaltatori, mi ero immaginata un enorme edificio nero, cupo e sudicio. Invece non c'era nulla.

E se non avessero avuto intenzione di portarmi dal loro capo? Se volessero uccidermi e lasciarmi lì in mezzo al nulla? Ma perché fare una cosa del genere?

Iniziai a dimenarmi con tutta la forza che avevo, ma mi aiutò a ben poco. Mi lasciarono cadere a terra e Asad mi premette uno scarpone contro lo stomaco.

– Rilassati, ragazzina. – disse con quel suo terrificante ghigno.

Gli altri due iniziarono a scavare rimuovendo diversi strati di sabbia.

Stanno scavando la mia fossa?

Non potevo morire. Dovevo salvare i miei fratelli, dovevo trovare Carter, dovevo pensare a Lili. Cercai disperatamente una soluzione, ma non ne trovai neanche una. Ero spacciata.

Ad un certo punto, sentii il suono della vanga che sbatteva contro qualcosa di ferro.

– Eccola. – disse uno dei due Assaltatori.

Batté la pala tre volte e si allontanò in fretta. Dal punto in cui aveva scavato, iniziò ad allargarsi una voragine. Sentii un suono inquietante, come un cigolio.

Gli Assaltatori mi sollevarono e mi lanciarono senza premura nella voragine. Caddi per un paio di metri e atterrai sul cumulo di sabbia caduta all'interno. I tre uomini mi seguirono saltando con agilità.

Mi trascinarono lungo decine di corridoi rinforzati sulle pareti con delle piastre di metallo. Regnava una luce bianca e fredda, come quella degli ospedali, un forte odore chimico e il silenzio più totale.

Incontrammo lungo il percorso uomini e donne che portavano lo stesso taglio di capelli e gli stessi vestiti. Mi guardarono tutti con una strana espressione, come se volessero mangiarmi.

Gli uomini si fermarono davanti ad una porta di ferro ricca di decorazioni raffiguranti diversi simboli e Asad bussò con decisione. Spinse la porta ed entrò a passo deciso nell'enorme sala. Ad ogni facciata erano affisse decine di fiaccole, sulle pareti erano incisi diverse immagini di guerra e davanti a noi si apriva a ventaglio una scalinata metallica che portava ad un trono, ma con Asad davanti non riuscii a vedere chi ci fosse seduto sopra.

– Ne abbiamo trovata un'altra, Dorian. – disse l'Assaltatore.

– Benissimo, mostramela. – la voce di Dorian era rauca, calda e seducente.

Asad si spostò, affinché il suo capo potesse vedermi, e il cuore mi saltò in gola.

Non è possibile.

Dorian era un ragazzo albino. Era alto, larghi ricci bianchi che gli scivolavano delicatamente sulla sua fronte quasi trasparente, due occhi chiari di una profondità inquietante e delle familiari fossette agli angoli della bocca.

Dorian era il gemello di Carter.

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