30.

Lili non deve saperlo.

Ed io non le raccontai nulla e così neanche Carter. Non avrebbe retto il colpo. Era troppo fragile, troppo impaurita, troppo stressata.

La ferita non era più infetta e stava piano piano riprendendosi, ma nei giorni che seguirono rimase sempre nel suo letto. Parlava a stento e non mangiava quasi nulla. Una cosa che faceva di continuo era piangere. Avrei voluto che reagisse, l'avrei presa a schiaffi se fosse servito a qualcosa. La soluzione arrivò non molto tempo dopo.

Liam, il ragazzone fulvo, una mattina si presentò nella sua stanza con un vassoio pieno di frutta. Non la conosceva affatto, ma l'aveva osservata spesso dal giardino sul quale affacciava la sua finestra e così, un giorno, ha deciso di provare a fare qualcosa per lei. Inizialmente sembrava non servisse a nulla, ma dopo qualche tentativo Lili cominciò ad aprirsi. Finalmente si alzò dal letto e uscì da quella maledetta stanza. Liam la faceva ridere, e spesso. Ed io non potevo che essere felice per lei. Sapevo che ogni volta che si guardava allo specchio rivedeva suo fratello e la cosa la faceva soffrire da matti, tant'è vero che quell'aria malinconica non l'abbandonò neanche durante le ore passate con Liam.

Vederla stare meglio mi convinceva ancora di più del fatto che parlarle degli automi sarebbe stata una pessima idea, quindi mantenni il silenzio.

Carter mi ignorava. Quando mi incontrava accennava un saluto prima di girarsi dalla parte opposta. Sapevo perché si comportava così: era deluso. Aveva visto in me qualcosa, ma in quei giorni si era ricreduto. Probabilmente mi credeva infantile. Ma la cosa che più mi mandava al manicomio era sapere che mi compativa. Provava pena per me e questo non potevo proprio sopportarlo. Vedevo quel sentimento riflesso nei suoi profondi occhi nocciola.

Era logico che, una volta arrivata al villaggio 3, avessi iniziato a dare una mano con i lavori. Così mi alternavo le giornate in cucina insieme alla simpatica vecchietta di nome Alhena, alle giornate dedicate alla raccolta di legna, frutta e ortaggi. Lili invece aveva imparato a cucire, debole com'era non poteva fare altro. Però quando Jack, il dottore, aveva bisogno di una mano con qualche paziente, era sempre pronta a servirlo.

Gli altri ragazzi del villaggio partivano in continue missioni alla ricerca di cibo, medicinali e di un sistema per oltrepassare le mura senza che venissero avvistati. Aldilà di Beehive nessuno sapeva niente degli altri Ribelli, ma senza dubbio se non erano già morti, stavano morendo in mancanza di medicine. Samshara non si vedeva da giorni, probabilmente era partita con lo stesso gruppo che tentava di comunicare con la città.

Il villaggio era un posto magnifico, se ci fossero stati i miei fratelli e Thiago sarebbe stato tutto perfetto.

– Hai tagliato le patate? – mi chiese Alhena.

Annuii e gliele passai.

– Dove hai imparato a cucinare? – le chiesi.

A quella domanda lampeggiò una scintilla nei suoi occhi color caramello, cerchiati da centinaia di rughe d'espressione.

– Proprio qui! – esclamò con gioia – Quando ero bambina, mia madre lo aveva insegnato a me e a tutte le altre. Ora ci sono solo io, ma è meglio di niente, no? – continuò con un sorriso malinconico.

Alhena era una donna dalla forte empatia: le sue emozioni influenzavano inevitabilmente tutte le persone che le erano intorno. Mi sentii triste a mia volta.

– Cosa è successo a tutte le altre? Dove sono? – chiesi, sperando di non ferirla.

Alhena, non riuscendo a parlare, indicò in alto come a dire: "lassù".

Si schiarì la voce e disse: – Sono morte in un attacco di Beehive.

Cosa?

– Keller sa dell'esistenza dei villaggi? – chiesi.

– Certo cara, crede che siano villaggi degli Assaltatori.

In quell'istante Carter spalancò la porta della cucina. Era affannato, un velo di sudore gli ricopriva la fronte. Vedendolo arrivare, il mio cuore prese a battere più velocemente. Sentii le guance scaldarsi, ma sperai che non se ne accorgesse nessuno. Avevo notato che le altre ragazze del posto non erano immuni al suo fascino, ma non avrei mai creduto che un ragazzo avrebbe potuto farmi lo stesso effetto che faceva a loro. Non riuscivo a riconoscermi all'interno di quelle sensazioni.

– Julia. – disse e la sua espressione mi spaventò – Devi venire con me.

Lasciai tutto ciò che avevo tra le mani e lo seguii senza fare domande. Mi portò all'entrata del villaggio e notai immediatamente un raggruppamento di persone intorno a qualcosa. Vidi Samshara stanca in viso, sporca di sabbia e ferita al volto da decine di graffi. Carter si fece largo tra la folla e mi trascinò dietro a lui. Samshara abbassò lo sguardo per evitare di incontrare il mio e, quando abbassai gli occhi, capii il perché.

Quello che vidi mi trapassò l'anima come se fosse stata pugnalata più e più volte, senza tregua, senza pietà.

Carla aveva la bocca spalancata e gli occhi velati, senza vita.

Mia sorella era morta.

Mi lasciai cadere a terra con un grido strozzato nella gola. I suoi capelli erano sporchi di sangue, la carne era lacerata in più punti. Abbracciai il suo corpo privo di vita talmente forte che sentii le sue ossa spezzarsi. Le lacrime che mi sgorgavano impetuose dagli occhi, accecandomi. Mi sentii morire, avrei voluto con tutto il mio cuore poter tornare indietro nel tempo, fino ai giorni in cui il mio principale problema era sopportare le cattiverie di Geltrude e Malacaj.

Improvvisamente, a quel sentimento di totale disperazione si aggiunse qualcos'altro, un sentimento che avevo provato solo il giorno della Valutazione. Vendetta.
Non volevo altro, volevo vendetta su Keller e vendetta sugli Assaltatori. E da me stessa: mi sentivo responsabile quasi quanto loro.

Carter si inginocchiò al mio fianco e tentò di dirmi qualcosa, ma non capii neanche una parola. Non sentivo nulla, sentivo solo il mio dolore e la mia rabbia.

Quando mi portò via, ero stretta tra le sue braccia forti e rassicuranti.

Mentre mi allontanava da Carla non riuscii a pensare a nulla, solo al fatto che sarei dovuta partire subito. Non avrei mai dovuto aspettare quelle due settimane.

È anche colpa mia.

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