17.
Una volta ripresi del tutto -i medicinali dell'Alleanza erano miracolosi-, ci lasciarono tornare ai nostri dormitori, alle nostre lezioni e alle nostre simulazioni.
Elia non mi aveva più aggiornata su nulla e quasi iniziai a pensare di essermi immaginata tutto.
Dopo qualche giorno in attesa di notizie, l'istruttore scomparve. Al suo posto arrivò un Correttore alto almeno due metri. Questo ci scortò al piano inferiore di quello che ormai avevamo preso a chiamare "Alveare".
La sala era tre volte più piccola dell'armeria e aveva più le sembianze di un laboratorio. C'erano lunghi tavoli d'acciaio sui quali splendevano in bella vista strumenti chirurgici: bisturi, pinze e trapani, ampolle contenenti un liquido verde. Nell'aria si respirava un forte odore di disinfettante. Quel che però attirò maggiormente la mia attenzione, era uno strano macchinario grande almeno due metri dalla forma ad imbuto e dal quale, dall'estremità più stretta, spuntava uno spessissimo ago.
– Benvenuti! – trillò la dottoressa.
Era sempre lei, lo sguardo perso e il suo terrificante sorriso. Era seduta su una poltroncina davanti alla porta di un box simile a quello dell'armeria.
– Chi vuole iniziare? – chiese con eccitazione – Non importa, decido io! Mmmh... tu, Julia! – disse battendo le mani.
Il Correttore mi spinse verso la dottoressa e questa mi porse un casco nero.
– Mettilo, non ti farà del male. Ha la stessa funzione delle ventose alle quali sei abituata. Serve unicamente a proiettarti nella dimensione della simulazione! – mi incoraggiò con finta premura – Forza, indossalo!- ringhiò poi con stizza.
Esitante, obbedii e quasi all'istante percepii il casco cominciare a vibrare.
– In questa simulazione le regole sono diverse: non puoi uscire finché non sei tu ad avere la meglio; i tuoi avversari saranno di livelli misti e beh, se muori lì dentro muori anche qui fuori. Tutto chiaro, no?
– Aspetti cosa intend... – dissi, cercando di sfilarmi io casco.
La dottoressa aprì la porta e il Correttore mi spinse con decisione nel box.
Il buio iniziale si dissolse ed io mi ritrovai alla fine del XXI secolo. Ero in una delle città più conosciute del pianeta della quale, però, non ricordai il nome. Alti e grigi palazzi si stagliavano verso il cielo, le vie erano completamente deserte. Le strade erano disseminate di giornali che annunciavano la fine del mondo, i vetri dei negozi completamente frantumanti e le macchine capovolte, pressate e fumanti. Ogni mio passo produceva una eco che, senza ombra di dubbio, avrebbe attirato i manichini. Il cielo era completamente nero, l'unica illuminazione arrivava da migliaia di stelle che si spargevano a vista d'occhio. Sfilai dalla cintura la mia pistola tenendo sempre una mano sul manico del pugnale. Non avevo paura, ero stranamente... euforica.
All'improvviso, un manichino sbucò da dietro le automobili capovolte. Aspettai che fosse abbastanza vicino e sparai. Il proiettile lo colpì esattamente al centro della fronte, procurandomi un piacevole senso di soddisfazione. Il suono del colpo riecheggiò per tutta la città. Sapevo che avevo attirato tutti gli altri. Ne sbucarono tre da lati opposti e, non appena li eliminai, né riapparvero altri. Poi altri e poi altri ancora, fino a costringermi in trappola.
Saltai sul tettuccio di una macchina e iniziai a sparare a raffica, ma presto esaurii tutte le munizioni. I manichini tentavano di raggiungermi arrampicandosi l'uno sull'altro, sembrava quasi una gara.
In lontananza, un uomo senza volto lanciò una bomba a mano nella nostra direzione. L'esplosione fece scoppiare i manichini in una pioggia di batuffoli. Volai in aria per diversi metri, fino a schiantarmi contro la vetrina di un negozio. Ero un bagno di sangue, migliaia di schegge di vetro mi trafissero la schiena, la pelle del braccio destro era stata squagliata dall'esplosione e diversi tagli mi rigarono il volto.
Il manichino della bomba mi corse in contro, facendo roteare una mazza chiodata sulla testa. Portai la mano alla cintura, ma non trovai il pugnale che, con ogni probabilità, mi si era sfilato dal fodero durante l'esplosione. Guardai a terra in cerca di un'arma, ma non trovai altro che qualche pezzo di vetro appuntito. Ne raccolsi uno e quando il manichino fu abbastanza vicino, cercai di colpirlo mentre abilmente schivavo la mazza. Era troppo veloce. Mi buttai a terra e lo spinsi lontano con un calcio sul ventre imbottito. Il manichino si fece sfuggire la mazza ed io gli saltai addosso. Non appena gli fui a cavalcioni, lo trafissi più e più volte con con il pezzo di vetro, fino a quando non rimase completamente immobile. Mi alzai in piedi con le gambe che tremavano, ma la simulazione non era ancora finita. Mi guardai attorno ma non c'era più nessuno.
Il manichino sull'asfalto si rianimò e mi tirò a terra per un piede. Battei la testa talmente forte che, per qualche secondo, non vidi altro che il nero più oscuro. L'essere mi stava addosso con le mani chiuse intorno alla gola. Cercai di liberarmi, ma era troppo forte. Allungai le mani in cerca di un'arma e miracolosamente trovai la mazza chiodata. L'afferrai e lo colpii ripetutamente alla testa, fino a quando questa non divenne una massa informe di cotone.
Le luci si spensero e la dottoressa aprì la porta del box.
– Fantastico! Fantastico! – strillava con divertimento.
Mi afferrò per il polso e mi diresse verso un lettino ospedaliero dove, presumevo, mi avrebbe medicato le ferite.
Invece, mi trascinò accanto quello strano strumento che aveva attirato la mia attenzione all'entrata.
– Ora cara, ci prenderemo qualcosa di tuo. – disse allegra.
Il Correttore mi lego braccia e gambe con delle cinghie di cuoio ed io non ebbi neanche le forza di ribellarmi.
– Cosa volete farmi? – chiesi esasperata.
– Oh cara, te lo spiego subito. Vedi, quando voi ragazzi che superate la Valutazione vi trovate in situazioni pericolose dove dovete combattere, il vostro cervello produce una sostanza che all'Alleanza serve ad ogni costo. Il vostro Nettare ci può risolvere un'infinità di problemi, quindi noi lo estraiamo.
– Il... cosa? – chiesi esterrefatta.
– Ma il Nettare, cara! – ripetè la donna con enfasi.
La dottoressa afferrò il macchinario e lo posizionò all'altezza della mia tempia.
– Ora il Pungiglione ti farà un minuscolo buchino. – cantilenò strabuzzando gli occhi per il gusto.
Il Pungiglione prese a vibrare minacciosamente e, con forza e decisione, mi trapassò la tempia.
Il dolore fu talmente acuto che spalancai la bocca con l'intenzione di urlare tanto forte da raschiarmi la gola. Ma non uscì alcun suono. Sembrava che quell'agonia non terminasse mai. Quando finalmente la dottoressa tirò indietro il macchinario, vidi un liquido verde gocciolare dall'ago del Pungiglione.
Non avevo più un briciolo di forza e mentre perdevo conoscenza, mi ricordai della ragazza che in infermeria batteva freneticamente il dito contro la tempia.
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