59. LE SPINE

Jack era seduto fra le radici dell’albero, la testa fra le ginocchia. Si era concentrato sul proprio respiro, nel tentativo di controllarsi, di far cessare la sensazione di soffocamento che pervadeva il suo corpo. Aveva un’emicrania lancinante da giorni, dormiva poco e toccava a malapena cibo.

L’unico posto in grado di dargli un po’ di conforto era nei pressi del Grande Albero, davanti alla radice sotto la quale avevano sepolto il corpo di suo fratello, accanto a quello delle altre vittime di quella battaglia insensata. Una battaglia all’interno di una specie in via d’estinzione, che nemmeno così, messa alle strette, con la minaccia di sparire del tutto dalla faccia del pianeta, riusciva a vivere in pace.

Il punto in cui avevano sepolto Morris era pervaso da una serie di filamenti fungini, che avevano avvolto il suo corpo, nutrendosene. Erano passati sei mesi dalla battaglia del Rifugio e, ormai, di suo fratello non restavano nient’altro che le ossa, ma a Jack piaceva pensare che lui fosse ancora lì, che, attraverso le fibre del fungo, potesse sentire i suoi pensieri. Non avrebbe mai potuto esserne certo, ma era vero che non era mai stato sicuro nemmeno che Morris potesse udirlo tutte le volte in cui l’aveva invocato mentre era a Cram, pensando a lui, implorandolo di tornare. La sua mente era chiusa, non era in grado di comunicare con gli altri, e tutto ciò che pensava era a senso univoco. Tuttavia Jack si era ritrovato a pensare che, come nel caso di Pim, non serviva un pensiero metafisico per arrivare al cuore altrui. A volte bastava solo mostrarsi comprensivi, e si riusciva comunque a entrare in sintonia, a volte più che non quando si faceva intrusione nella mente di qualcuno per carpirne le emozioni. E poi, anche quando si potevano percepire i sentimenti altrui, non era detto che li si potesse comprendere, dunque era tutto relativo.
Il ragazzo espirò lentamente, rilassandosi. Il suo cuore aveva ripreso un ritmo normale, nonostante non riuscisse a togliersi dalla testa l’immagine del volto di suo fratello. Gli ultimi momenti che avevano passato assieme non avevano fatto altro che tormentare i suoi sogni. Jack non sapeva come liberarsene e una piccola parte di lui non voleva nemmeno farlo. Non riusciva a lasciar andare Morris. Pim aveva avuto ragione che il dolore, per quanto terribile, era una piccola consolazione, in un mondo privo della persona cui avevi voluto bene. Era quasi un pagare il proprio tributo alla sua esistenza, mostrargli il proprio affetto anche dopo la morte. Jack sapeva che Morris era stato ateo, che l’unica fede mai considerata da lui fossero state lo scetticismo e la scienza. Lui, invece, aveva sempre avuto la sensazione che facessero parte di un meccanismo più grande, nonostante fosse nebuloso e incomprensibile. Non credeva in divinità che punivano o elargivano premi, ma in una semplice forza, che dava la vita e distruggeva in egual misura, un’onda selvaggia e indomabile che non sarebbero mai riusciti a capire del tutto. Come il mare poteva essere placido e gentile, poteva anche diventare violento e burrascoso.

Prima o poi tutte le conchiglie tornano al mare, pensò Jack, raccogliendo un sasso. Se lo passò fra le dita, per poi appoggiarlo sulla pila di pietre bianche sulla tomba di Morris.
Quella volta il mare si era preso suo fratello. Forse avrebbe potuto accettarlo, se non avesse agito per mano sua.

Jack non riuscì a trattenere le lacrime, che scivolarono silenziose lungo le sue guance. Non si trattava più del pianto disperato di chi non sa affrontare una perdita, ma di chi non sa più cosa fare della propria vita. Era un fratricida. Lo leggeva nei volti delle persone al villaggio, nel modo in cui gli parlavano. Dopo un momento iniziale di giubilo, avevano cominciato a trattarlo con freddezza, allontanandosi da lui, dicendo ai bambini di non avvicinarsi, perché Jack Twingle aveva fatto una cosa orribile, durante la guerra. Uccidere dei nemici era una cosa, uccidere un fratello era un’altra.

Jack avrebbe voluto spiegare loro che l’aveva fatto per salvarli, ma chi gli avrebbe creduto?

Stein si era sbagliato su molte cose, ma su una aveva avuto ragione: gli eroi non esistono. Lui di certo non si sentiva uno di loro. Era come se le sue mani fossero ancora sporche del sangue di Morris e, quando era particolarmente stanco e la sua mente cominciava a giocargli brutti scherzi, gli sembrava di vedere davvero del liquido rosso sui propri palmi.
Jack si alzò in piedi e, la schiena curva e lo sguardo fisso sul terreno, si incamminò verso il centro del villaggio.

***

Lungo la strada incontrò Bernie, che, dopo due mesi di convalescenza, aveva ripreso la propria attività di medico. Il dottore lo salutò, ma Jack fece finta di non vederlo, tirando dritto.

Bernie gli andò dietro, posandogli una mano su una spalla. Il ragazzo non oppose resistenza, quando il dottore lo spinse a voltarsi.

- Jack, cosa succede? – gli chiese.

Lui non rispose. Non riteneva ci fosse bisogno di discutere ulteriormente dell’argomento.

Bernie sospirò, passandogli un braccio attorno alle spalle con fare paterno, mentre lo conduceva in un punto isolato, facendolo sedere su un ceppo. Si accucciò accanto a lui, stringendogli una mano.

- Ti vedo andare alla sua tomba tutti i giorni. Dopo tutto questo tempo, ancora non riesci ad andare avanti? – sussurrò.

- Mi sembra sia successo solo ieri – mormorò il ragazzo, deglutendo a fatica. – Mi guardo attorno e vedo solo ostilità. Tutti mi trattano con sospetto, persino con disgusto. Come biasimarli…

- Non è vero, Jack – sospirò Bernie, scuotendo la testa. – Sei tu che allontani tutti. Non parli mai con nessuno, gli unici momenti in cui ti vedo uscire è per andare a fargli visita. Non conoscevo bene Morris, ma non penso avrebbe voluto vederti così. Nick e gli altri sono preoccupati. Perché non parli con loro?

Jack scosse la testa. Se c’era una cosa peggiore di parlare dell’assassinio di Morris, era proprio discuterne con Nick. Ogni volta in cui si trovavano nella stessa stanza, il ragazzo si sentiva venir meno, e la scena della morte di Mo si ripeteva nella sua mente come un nastro rotto. Avrebbe solo voluto tornare indietro nel tempo e salvarlo, trovare un altro modo, ma non era possibile.

- Non avevi scelta, Jack – disse Bernie. – Cos’altro avresti potuto fare?

- N-non lo so – gemette lui, scuotendo la testa, le lacrime agli occhi. – Ma non ucciderlo. Non ucciderlo.

- Robert Stein era diventato un mostro tanto terrificante da essere impossibile da controllare persino per Morris. Il coraggio non si misura con la forza di qualcuno, ma con cosa è disposto a fare per salvare ciò cui tiene. Morris aveva capito che non sarebbe potuto sopravvivere a Stein. Lo sapeva da tempo, era consapevole che loro due erano inscindibili, e che il mostro sarebbe tornato prima o poi, più forte di prima, per avere la sua vendetta. Tu gli hai impedito di distruggere le vite di chi Morris amava, gli hai impedito di togliere a Morris quello che aveva guadagnato in questi mesi. La capacità di amare, di capire cosa significasse davvero voler bene a qualcuno, il contrario di ogni logica, il vero uscire da se stessi. Jack, tu hai impedito a Robert di annientarlo e trasformarlo di nuovo in una macchina senz’anima, una calcolatrice di ghiaccio. Sono sicuro che Morris non ti serverebbe alcun rancore, anzi. Te ne sarebbe grato.

Jack ormai stava piangendo, e cercò di pulirsi il viso sul giubbotto. L’estate era finita da tempo, ed erano in pieno inverno. Dal cielo, bianco come la neve, calavano dolcemente dei sottili fiocchi di neve, leggeri come piume. La palude si era ricoperta di uno strato biancastro, un velo di sposa, che tutto silenziava, che portava la pace in quel mondo vuoto. Jack avrebbe voluto che potesse nevicare anche dentro di lui, che la tempesta cessasse, cedendo il posto alla calma fredda dell’accettazione.

Le ultime parole di Morris erano state che lui non avrebbe dovuto essere triste. Ma come poteva? Come poteva andare avanti, dopo quello che era successo?

- Tuo fratello non avrebbe mai voluto costringerti a farlo. E’ stata l’ultima malvagità di Stein, porti questo peso sull’anima. Ma è stata colpa sua, non tua. Solo uno dei suoi ultimi piani per fare del male a Morris, e non fisicamente. Non permettergli di portarti a fondo. Non pensare a Stein, pensa a Morris, e al mostro che hai eliminato per lui. Non fare nulla di stupido, Jack. Io ti conosco, ormai. Voglio che tu vada avanti. Devi farlo. Sei troppo giovane per spegnerti adesso, così, con tutta una vita davanti. Un mondo senza più discriminazioni, senza più guerre. Non puoi rinunciarvi, dopo ciò che sei stato costretto a passare… quello che noi tutti abbiamo passato. Abbiamo visto sufficiente morte per il resto delle nostre vite. Ora basta. E’ il momento di goderci il silenzio della pace.

***

Belgor era seduto sul proprio letto, intento a osservare il punto del suo comodino dove c’era stato il Rosicone di legno costruito da loro padre. Non voleva fissarlo, ma il suo sguardo ricadeva sempre in quella direzione.
Scosse la testa e riprese a contare gli oggetti della propria collezione sulla storia degli umani. Nel tentativo di tenersi impegnato, aveva deciso di catalogarli per tenere conto del numero e della tipologia di artefatti in suo possesso.

Trasse un profondo sospiro, posando l’ultimo pezzo della collezione sulla rudimentale scrivania che si era intagliato da solo: una strana palla contenente una figurina al suo interno. Se veniva agitata, creava un nugolo grigiastro di frammenti, che dovevano essere stati bianchi, un tempo.

Belgor spostò lo sguardo sulla finestra, abbandonando la tavoletta su cui aveva segnato gli oggetti, per osservare la neve che calava silente dal cielo.

Tutto dorme. Tutto tace.

Malgrado la vita avesse ripreso ad andare avanti al villaggio e gli umani si fossero integrati abbastanza bene nel sistema dei Sopravvissuti, alcuni avevano preferito separarsi da loro, creandosi un villaggio a parte. Nonostante le rispettive differenze, avevano dato vita a un commercio fiorente. Dato che loro si trovavano nella zona dei vermi acciarini, spesso gliene portavano alcuni, in cambio della linfa dei baobab o altri elementi, come il formaggio e il pane. Fra umani e Sopravvissuti c’erano rapporti amichevoli, ma ci sarebbero volute almeno una o due generazioni affinché la frattura che era sempre esistita fra loro si rimarginasse. La maggior parte di loro non era riuscita ad abituarsi all’idea di condividere la propria vita con quelli che fino a poco tempo addietro avevano creduto dei mostri, e dovevano ancora riprendersi dallo shock della guerra. Era meglio non calcare la mano, e sua madre Maya, che si era rivelata un’ottima leader, veniva tenuta in grande considerazione sia dagli umani che dai Sopravvissuti. I Migliori, curiosamente, erano stati quelli che si erano abituati di più al nuovo sistema, forse per via della loro mente aperta: una volta liberatisi dalla mente alveare tossica ideata dal Primo e i Ministri, si erano rivelati delle persone diverse, riappropiandosi dell’identità che avevano smarrito. All’inizio era stato difficile fare a meno della mente collettiva, che aveva creato un rapporto parassitico fra loro, e avevano dovuto essere collegati ai baobab-curanti per alcune settimane, ma un po’ alla volta erano riusciti a separarsene, proprio come aveva fatto Stein.
Belgor si sfregò le braccia nude per scaldarsi. Lui e i Sopravvissuti erano creature a sangue freddo, dunque i loro corpi assumevano la temperatura dell’ambiente circostante. In inverno dovevano coprirsi molto, per evitare di sentirsi intontiti o cadere in una sorta di apatia.

Il giovane indossò un maglione, fermandolo sul petto con dei bottoni di legno grezzo, e calzò un paio di scarpe rivestite con pelo di Rosicone, all’interno. Quando avevano tosato Baffo, quando faceva ancora caldo, avevano ottenuto una buona dose di lana soffice e morbida, oltre ad aver fatto sentire meglio il coniglio, che se ne andava in giro con aria vispa e molto peso da portarsi dietro.

Belgor scese le scale, stringendosi nel maglione, e afferrò un giubbotto, infilandoselo in fretta. Salutò sua madre, che gli mandò un bacio, e uscì all’esterno. Il vento gelido gli scompigliò i capelli, che si era lasciato crescere, come aveva fatto suo padre. Aveva seguito la tradizione di famiglia di intrecciarli su un lato, lasciandoli ricadere su una spalla. La sua treccia era ancora molto corta, ma cominciava a essere consistente, e sua madre la adornava con piccole pietre colorate, fili e piccoli nastri bianchi e neri ogni volta in cui riusciva a recuperare un po’ di materiale. A Belgor piaceva che lei avesse tanta cura di lui. Un tempo riservava quel trattamento anche a suo padre e ora stava riversando il proprio tempo sui figli e il villaggio per non pensare al marito. Gli occhi gialli di Maya erano sempre velati di malinconia e il suo sguardo si soffermava spesso sul posto vuoto di Teofane, mentre erano a tavolta, ma, quando era con Belgor o parlamentava con gli umani e i Sopravvissuti, quella pellicola si assottigliava, arrivando anche a scomparire.

Per quanto riguardava Aaron, invece, Belgor avrebbe voluto che suo fratello fosse più presente nella propria vita, ma continuava a isolarsi. Viveva ancora nel baobab che condivideva con Nikita, però anche il suo compagno lo vedeva poco. Aaron trascorreva la maggior parte del suo tempo fuori dal Grande Albero, seduto nell’erba o a contemplare la tomba di Teofane, sulla quale portava fiori o oggetti che riteneva di valore. Non essendoci stato al suo funerale, rimediava in quel modo. Il primo dono che aveva portato a suo padre era stato il proprio coltello preferito, di cui aveva spezzato la lama con un martello. Possedeva anche altre armi, ma quello era stato un gesto simbolico. Non avrebbe più ricorso alla forza o alla violenza a meno che non fosse stata una situazione disperata, e aveva deciso di usare la sua focosità in modo positivo, aiutando gli umani, cercando di avvicinarsi anche ai Migliori. Sentiva che era quello che Teofane avrebbe desiderato di più, vederlo finalmente superare i propri limiti, gettarsi alle spalle l’odio e la rabbia. L’espressione di Aaron era diventata più distesa, e sembrava che il senso di colpa con cui aveva dovuto fare i conti ed era alle prese anche in quei giorni avesse mitigato il suo carattere, rendendolo più ragionevole, meno impulsivo e incline a ricorrere ai pugni per risolvere i suoi problemi.
Belgor per mesi aveva fatto fatica anche solo a guardarlo in viso, nonostante fosse stato felice del ritorno di Aaron. A volte la rabbia nei suoi confronti si ripresentava, assieme a una serie di pensieri poco salutari, ma se ne andava sempre più facilmente, e tornava solo quando si sentiva cupo o molto addolorato. Teofane non avrebbe voluto che i suoi figli non si parlassero più, dunque Belgor cercava di stare il più possibile con Aaron e di ascoltarlo.
Era da quando erano ragazzini che non parlavano così tanto. La reciproca compagnia li aiutava a metabolizzare la perdita, e avevano scoperto di potersi sostenere persino in una situazione che avrebbe dovuto metterli l’uno contro l’altro o creare degli screzi. Nonostante tutto, per quanto Belgor fosse consapevole che era stata in parte colpa di Aaron se Teofane era morto, sapeva che suo fratello non avrebbe mai voluto che loro padre morisse, per quanto lo avesse detestato, per quanto lo avesse creduto un debole, e che ora si era ricreduto sul suo conto. La cosa che lo faceva soffrire di più era non aver potuto rivelare i propri pensieri a Teofane stesso. Ora doveva accontentarsi di parlare alla sua tomba.

***
Belgor si stava dirigendo verso la tomba di proprio padre, quando incontrò Jack, che stava tornando indietro da quella di suo fratello. Bernie lo stava seguendo, un braccio attorno alle sue spalle. Da quando erano riusciti a ottenere alcune delle tecnologie rimaste a Cram e al Rifugio, Ella si era dedicata alla costruzione di una gamba meccanica per lui, dato che il suo ginocchio era ridotto talmente male, quando l’avevano tirato fuori dalle prigioni, che erano stati costretti ad amputargli la parte inferiore della gamba. La dottoressa aveva effettuato un taglio perfetto, con l’aiuto di Amber e Kehla, e avevano collegato l’arto artificiale ai nervi di Bernie. Per quanto quella gamba fosse rigida, Bernie non soffriva più come prima. Sapeva ancora quando il tempo sarebbe cambiato, ma non doveva più autoinfliggersi le dolorose estrazioni di liquido cui era stato soggetto per anni. Belgor si era accorto di quanto il dolore costante avesse mutato il suo carattere solo quando il Sopravvissuto ne era stato liberato. Prima c’erano stati momenti in cui era cupo, dolorante o non riusciva a compiere il proprio lavoro, mentre in seguito all’operazione Bernie era spesso sorridente e riusciva persino a fare delle lunghe camminate in compagnia di Amber, ormai diventata la sua compagna. Loro, Kehla ed Ella avevano dato vita a un piccolo circolo di discussione. Adoravano passare il loro tempo a parlare di nuove tecniche mediche. La dottoressa di Cram aveva insegnato loro la raffinazione del metallo, come esso potesse aiutare e supplire in diversi casi. Dato che non disponevano più di fibre tecnologiche per simulare le funzioni dei nervi, erano ricorsi a degli agglomerati di filamenti fungini, che si erano rivelati degli ottimi sostituti, se non migliori. In quel modo erano riusciti a restituire mobilità a diversi ammalati, che finora si erano dovuti accontentare di un braccio o una gamba sola, o erano rimasti bloccati a letto. Per quanto riguardava Bernie e i medici Sopravvissuti, avevano insegnato a Ella l’antica arte delle medicine naturali, che lei aveva perso, e di come esse fossero un ottimo supporto e, in certi casi, buone quanto le medicine sintetiche e raffinate, che spesso davano assuefazione.

Belgor partecipava volentieri a quelle discussioni, prendendo appunti, cercando di imprimere nella propria memoria ogni singolo dettaglio, e aveva convinto Jack a parteciparvi, all’inizio. Tuttavia il ragazzo non aveva fatto altro che allontanarsi dal mondo esterno in quei mesi. All’inizio sembrava che fosse riuscito a superare la morte di Morris, ma non era stato così. Forse aveva solo fatto finta, per convincerli che stava bene e non dovevano preoccuparsi per lui. Belgor vedeva con chiarezza il suo dolore, che lo stava divorando dall’interno. Avrebbe voluto dirgli che non era stata colpa sua, che era stato messo in una situazione nella quale non c’era altra scelta, ma Jack si era chiuso in se stesso ed era difficile parlare con lui. Persino Pim riusciva a cavargli qualche parola. L’unica cosa che Jack facesse in sua presenza era piangere. Con lei si permetteva di farlo, mentre, quando era con altri, cercava ancora di fingere, sorrideva, e il suo era un sorriso angosciante, dal quale traspariva un grido muto. Le sue labbra potevano anche atteggiarsi a quella posa, ma i suoi occhi non sapevano mentire, e si poteva leggere la disperazione nelle sue iridi castane, spente.

Per quello Belgor fu sorpreso di vederlo in giro con Bernie.
Si fermò, salutandoli, e i due lo guardarono. Jack aveva gli occhi rossi e gonfi, ma il sorriso che gli rivolse era un po’ meno forzato del solito, mentre il guaritore sembrava soddisfatto.

- Belgor, io dovrei finire il giro delle visite. Vuoi fare tu compagnia a Jack?

- Sì, certo – mormorò Belgor, rimandando a più tardi la visita a suo fratello. Jack sembrava più bisognoso del suo aiuto. – Vieni con me.
Il ragazzo esitò, poi sospirò e si avvicinò, seguendolo verso un luogo isolato. Si trattava di una piccola radura fiorita, dove il vento accarezzava il terreno, facendo dondolare le corolle rigonfie dei fiori, simili a piccole palline bianche. Si potevano raccogliere e mangiare. Avevano un sapore asprigno, ma che, alla fine, lasciava una nota dolce sul palato.

- Era qui che Morris veniva a meditare – mormorò Belgor, facendogli cenno di sedersi.

Jack sospirò di nuovo, tirando su col naso. Sembrava si stesse sforzando di non piangere. Belgor osservò il suo profilo: era stato così magro anche in passato, ma ora era diverso, peggiore, come se non riuscisse a trovare la volontà di riprendere a vivere.

- Jack – disse Belgor, posandogli una mano su una spalla. – So che stai male. Capisco come ti senti, anche io ho perso mio padre. Però non ce la facciamo più a vederti così. Devi tirarti su, andare avanti. Fa sempre più male notare che ogni mattina sembri più curvo. Ti prego… parla con noi.

Jack scosse la testa.

- Non… non voglio parlare – sussurrò. – Ho già parlato con Bernie.

Belgor sospirò.

- Non lo faccio perché ce l’ho con te, Belgor – si affrettò a dire il ragazzo. – E’ solo che… che è difficile.

- Pensi che per me sia facile?

- No. Ma è diverso. Non sei stato tu a uccidere tuo padre.

- Avrei potuto insistere di più. Se invece di arrabbiarmi con lui, avessi cercato di fargli notare ancora quanto l’idea di andare a Cram fosse rischiosa, forse mi avrebbe ascoltato. E’ anche colpa mia, non solo di Aaron o di Valentino e Minerva. Sono stati loro a vibrare il colpo, ma per me non c’è molta differenza. Ma so che mio padre avrebbe voluto che proseguissi, che non stagnassi nel dolore per il resto della mia vita. Abbiamo tutti i nostri tempi, Jack, ma non ce la faccio a vederti deperire. Sei l’unico amico che ho. Mi sento solo, quando non ci sei. Non vieni più alle discussioni di Ella e Bernie, esci a stento di casa, e solo per andare da Morris. Devi cercare di rompere questa routine. Non ti mentirò. Non ti dirò che questo dolore sparirà nel nulla. Sarà sempre lì, ma un giorno diventerà meno intenso, e ti ricorderai più delle cose belle, di quello che hai condiviso con Morris, anziché dei momenti più brutti. E’ l’unico modo per sopravvivere. Non possiamo farci carico di tutti i problemi del mondo, non possiamo darci tutta la colpa. Sono anche le circostanze, un insieme di eventi che sono arrivati a convergere in un punto, che ci ha forzato la mano. Non ti dico di non essere triste, ma cerca di andare avanti.

Jack annuì e, stavolta, quando sorrise fu sincero.

- Sei sempre molto gentile con me, anche se non mi faccio mai vedere. Vorrei essere un amico migliore – mormorò, pulendosi il viso. – Anche Bernie mi ha detto delle cose simili. Credevo che mi disprezzaste… che pensaste che io fossi un mostro, per quello che avevo fatto… e invece mi avete dato un calore che non avrei mai aspettato di ricevere.

- Sei esattamente l’amico che vorrei, né più né meno, Jack. Non voglio un amico “migliore”. Mi interessa solo che tu stia bene. Prendi il tuo tempo, non c’è fretta. Ma, quando verrò a chiederti di andare a una discussione o fare una passeggiata, vieni con me, anche se dovessi un po’ costringerti a farlo. Credimi, concentrare la tua mente su altro, smettere di rimuginare sul dolore, tenersi impegnati è una delle cose migliori per curare lo spirito. A volte abbiamo bisogno di non pensare.

- Lo farò. Grazie, Belgor.

- Figurati, Jack. Se ne avessi bisogno, sappi che sarò sempre qui per aiutarti.

***

Spero vi sia piaciuto questo capitolo.. Ancora, non ho con me il computer e l'ho corretto il più possibile da telefono :) Spero che Jack riesca ad andare avanti...
Il prossimo è l'ultimo capitolo, e poi ci sarà l'epilogo. Siamo vicini alla conclusione di questo viaggio! Ma forse è solo una tappa... Vedremo, in base alla mia ispirazione :)

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