54. UN NUOVO CAPO
Belgor era rannicchiato nel letto al secondo piano di un baobab-curante. Si era medicato da solo la ferita alla spalla e aveva passato il pomeriggio ad attendere che i filamenti del fungo facessero effetto, portando via con sé parte del dolore, mentre masticava delle foglioline gialle che fungevano da antidolorifico.
Era il quarto giorno dalla morte di suo padre.
Maya, non appena aveva saputo la notizia, si era chiusa in un silenzio ermetico, per poi andare a ritirarsi nel Grande Albero, dove aveva passato l'intera giornata. La mattina seguente aveva indossato una delle tute da guerra, con delle placche di legno e metallo sulla schiena e il petto, e aveva portato con sé un arco e una faretra. Aveva radunato un piccolo gruppo di volontari, che l'avevano accompagnata, raggiungendo il punto dove Belgor gli aveva indicato si trovava il corpo di Teofane.
La piana era ricoperta di cadaveri, sia di umani che di Sopravvissuti, assieme a quelli delle lucertole.
Ogni volta in cui Belgor permetteva a se stesso di concentrarsi su quel pensiero per più di qualche secondo, cominciava ad avvertire una sensazione di soffocamento e gli si annebbiava la vista per via delle lacrime.
Una volta tornata col corpo di Teofane, parzialmente beccato dai rapaci, la prima cosa che Maya aveva fatto era stata andare dal figlio e dire che l'avevano riportato a casa.
Belgor l'aveva guardata e non era riuscito a trattenersi, singhiozzando. Aveva teso le braccia verso di lei e Maya si era rannicchiata al suo fianco nel letto, mentre gli accarezzava i capelli, la maggior parte dei quali, bruciacchiati dall'acido, erano scomparsi, lasciandogli delle chiazze calve sulla testa, sulle quali si era formato un sottile strato di tessuto cicatriziale.
- E' colpa di Aaron – balbettò Belgor, fra un singhiozzo e l'altro. – E' colpa sua se è morto. Se gli avesse detto la verità, non sarebbe successo.
- Tuo padre voleva molto bene ad Aaron e ha deciso di dargli il beneficio del dubbio – sospirò Maya, dandogli un bacio sulla fronte. – Ha sempre provato del senso di colpa nei suoi confronti. Detestava l'idea di aver lasciato Aaron senza Siria, si sentiva responsabile, e anche lui lo riteneva tale. Non sono mai stata la madre adatta per lui, per quanto abbia cercato di mostrarmi affettuosa nei suoi confronti.
- Sei una madre fantastica, invece – mormorò Belgor, la testa posata sulla sua spalla. – Non so cos'avrei fatto senza di te. Non so cosa farei. Pa' mi ha sempre considerato il secondo figlio, e Aaron un ingombro. Menomale che ci sei tu.
- Belgor – disse lei, accarezzandogli la testa in modo che alzasse lo sguardo e potesse guardarlo negli occhi. Gli pulì le lacrime dal viso con un pollice. – Non sei mai stato un figlio di serie b. Hai sempre riempito Teofane di orgoglio, credimi. Mi parlava spesso di te, dicendo quanto era felice dei tuoi studi come guaritore. Approvava il fatto che avessi finalmente trovato la tua passione, ciò che ti piaceva davvero fare... a parte raccogliere notizie sulla storia degli umani.
Belgor rise piano, pensando alla propria collezione, e si sentì in colpa subito dopo. Come poteva ridere in un momento del genere?
- Allora perché non mi ha creduto? – sussurrò. – Perché ha voluto ascoltare Aaron, che mentiva?
- Credo sapesse che stava mentendo. Ma ha voluto prenderlo con sé nella missione, per vedere se avrebbe agito diversamente. Le azioni parlano sempre più forte delle parole. Non è andata come speravamo, ma...
Maya deglutì, riprendendo ad accarezzare i capelli di Belgor, come se ciò riuscisse a darle un po' di conforto.
- ... non dobbiamo lasciarci abbattere. Dobbiamo organizzare una difesa, un modo per riprenderci chi è sopravvissuto a questo attacco. Aaron è uno dei prigionieri e, per quanto possiamo essere in disaccordo con lui, Teofane avrebbe voluto che agissimo come una famiglia. Quindi io porterò avanti la sua volontà, anche se a modo mio. Non è più il tempo delle parole, ma quello della guerra. Possiamo essere forti, se lo vogliamo. Ci organizzeremo, li attaccheremo con la nostra mente e li costringeremo in ginocchio. Si pentiranno di essersi messi contro di noi.
Belgor osservò il profilo di sua madre, dolce eppure deciso, come quello di una giovane dea della guerra.
- Diventerai tu il nuovo capo villaggio? – le chiese.
- Non lo so. Saranno gli altri a decidere.
- Secondo me già lo sei – mormorò Belgor. – Si fidano tutti di te. Capivi pa' più di chiunque altro, nonostante aveste le vostre divergenze. Se ti proporrai, io sarò dalla tua parte.
- E tu? Se fossi tu il prossimo capo villaggio? – gli fece notare Maya, con un sorriso appena accennato.
- Ma', non sono un capo. Lo sappiamo tutti e due, e lo sapeva anche pa'. Per questo voleva lasciare a te o a Aaron il posto, se fosse successo qualcosa, anche se alla fine si vota tutti assieme.
Maya lo guardò con le sopracciglia aggrottate.
- Ciò non significa che tu sia meno importante, Belgor. Tuo padre credeva in te. Sarai un guaritore eccezionale.
- Non sono riuscito nemmeno a salvare lui e i miei amici. Guaritore di che – gemette Belgor, distendendosi su un fianco, rivolgendole la schiena.
- Non dire stupidaggini. Se fossi rimasto lì, ti avrebbero ucciso. Sono felice che tu sia riuscito a tornare a casa... adesso, assieme, sistemeremo le cose.
Sua madre sapeva sempre come aiutare gli altri a sentirsi meglio, specie lui. Anche solo per un po', prima di tornare a tuffarsi nella cruda realtà in cui vivevano.
- Questa sera faremo il funerale – mormorò Maya, incupendosi, mentre si alzava dal letto. – Ti aspetterò ai piedi del Grande Albero, Belgor. Abbiamo deciso di seppellire Teofane nelle sue radici. Il fungo si prenderà il suo corpo, così continuerà a vivere per sempre nella palude.
Belgor annuì e avvertì la mano di sua madre accarezzargli il viso un'ultima volta.
- Cerca di riposarti e guarisci in fretta. Avremo bisogno di te.
***
Belgor osservò il corpo di suo padre venire calato all'interno della buca scavata fra le radici dell'albero, al centro di un nido di filamenti fungini, la cui luce pulsava ritmicamente nel buio. La palude era particolarmente luminosa quella notte, come se il fungo avesse voluto dare un ultimo saluto a Teofane.
I filamenti cominciarono subito a collegarsi al corpo di suo padre, come una crisalide. Colmarono le sue ferite, facendolo apparire di nuovo integro. Sembrava vivo, come se stesse solo dormendo.
Maya si chinò sulla sua tomba, per poi posare al suo interno la collana di legno colorato che aveva creato per suo marito quando avevano deciso di diventare una coppia e si erano scambiati un dono. Lei ne aveva una simile, fatta da lui, che le pendeva dal collo proprio in quel momento.
Anche Belgor si avvicinò a suo padre, inginocchiandosi sulla sua tomba. Non stava piangendo, i suoi occhi erano aridi. Anche se Teofane ormai non poteva più vederlo né sentirlo, Belgor immaginò che fosse ancora così, e non aveva intenzione che l'unica immagine che suo padre avrebbe visto di lui sarebbe stata il suo volto colmo di dolore. Lo avrebbe salutato con un sorriso.
Il funerale era una festa in onore del morto, in cui si parlava di lui, dei momenti più belli passati assieme, e gli si dava la vera immortalità di cui ognuno di loro potesse disporre: il ricordo.
Belgor si sarebbe ricordato di lui, per sempre, e i suoi figli si sarebbero ricordati di lui a sua volta. Non importava se un giorno nelle generazioni il nome di Teofane o il proprio si sarebbero persi, ciò che contava davvero era quello che gli aveva insegnato suo padre, il suo modo di vedere il mondo. Qualcosa sarebbe sempre arrivato ai posteri, in una forma o nell'altra.
Belgor estrasse dalla tasca della felpa un giocattolo che suo padre gli aveva fatto quando era piccolo, per il quale lui ed Aaron litigavano sempre. Un banalissimo animale intagliato nel legno di baobab, un Rosicone che, per via dei filamenti fungini presenti al suo interno, si illuminava di notte. Belgor ci era molto affezionato, e voleva che Teofane lo tenesse con sé. Era qualcosa cui lui teneva, un tributo verso quel padre con cui non aveva nemmeno avuto il tempo di riconciliarsi, prima della sua morte. Però gli aveva sempre voluto bene, e gliene voleva ancora. Sperava che lui ne fosse stato consapevole.
Il Sopravvissuto poggiò il Rosicone accanto al corpo di suo padre e si alzò, facendo un passo indietro per permettere anche agli altri di lasciare un tributo a Teofane.
Strinse la mano di sua madre. Era molto bella quel giorno, malgrado la sottile maglia di rughe che le pervadeva il volto. Sorrideva, nonostante il dolore nei suoi occhi fosse evidente. Voleva che quel giorno fosse magnifico, che tutti avessero un ultimo ricordo felice di Teofane. Aveva indossato un abito semplice e si era tinta il viso con i colori sgargianti della terra. Il rosso ferroso, il giallo zolfo, il verde delle foglie. Era un meraviglioso mosaico, vivace come il dorso di una farfalla.
Quella notte festeggiarono fino a tardi attorno al Grande Albero, e fecero un banchetto in onore di Teofane.
Belgor si ritirò in un angolo, abbastanza vicino da poter sentire i festeggiamenti, ma abbastanza lontano da poter restare solo coi propri pensieri. Alzò lo sguardo verso le stelle, e si sentì solo. Completamente solo.
Chiuse gli occhi, prendendo un sorso di linfa, e lasciò che il rombo dei tamburi si armonizzasse al battito del suo cuore, portando via la sua tristezza un po' alla volta.
Si addormentò sulla radice contro la quale si era appoggiato, pensando che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per rendere suo padre fiero di lui. Per rendersi fiero di se stesso.
Avrebbe salvato i suoi amici e combattuto per il suo popolo, per quello in cui credevano. Sarebbe stata una perdita da ambo le parti, ma non poteva continuare così. I Migliori non potevano continuare a schiacciarli sotto la loro suola senza che i Sopravvissuti reagissero.
Era finito il tempo delle parole, era cominciato quello dell'arco e della spada.
***
La sedia a rotelle di Valentino stava scivolando silenziosa lungo il corridoio. Il Ministro fece una smorfia di dolore, quando dovette posare un dito sul pannello direzionale, per far svoltare la sedia a sinistra, all'interno di un altro cunicolo, illuminato da neon tremolanti. Le mura erano ricoperte di muffa, che si radunava in particolare sul soffitto, dove passavano i tubi dell'acqua. Tutto aveva bisogno di manutenzione al Rifugio, ma non c'erano né il tempo né le persone necessarie.
L'uomo si fermò di fronte alla porta oltre la quale c'era la stanza di Mercy, ormai vuota. Avevano trasferito le medicine che lei aveva recuperato in un armadio all'interno del piccolo ospedale improvvisato nell'ala dei Migliori. Erano stati costretti a darne alcune anche a Morton, ma ora il medico non sarebbe più stato un problema.
Minerva è troppo impulsiva, pensò Valentino, con una smorfia.
Ha agito bene, invece. Quel Morton si era fatto intenerire, e andava eliminato. Non possiamo ammettere delle imperfezioni nel nostro sistema.
Il sistema è già crollato, nel momento stesso in cui Stein ha deciso di pugnalarci alle spalle.
Pugnalarvi? Forse stava solo aspettando il momento giusto per tornare, non credi? Forse non se n'è mai andato. Hai visto il Primo di recente? Perché non vai a dare un'occhiata alla sua portantina?
La voce si ritrasse con una risata, inghiottita da una delle voragini che popolavano la sua mente da quando Valentino si era svegliato.
Il Migliore si fermò, aggrottando le sopracciglia. La testa cominciò a dolergli e si lasciò sfuggire un gemito di dolore, senza poter far nulla per darsi un seppur minimo conforto. Era da giorni che andava avanti così. A volte non riusciva a capire da dove venissero i pensieri che gli infestavano la mente. Era come se un parassita si fosse installato nel suo cervello e lo stesse dirottando.
Il Migliore cominciò a perdere sangue dal naso e dovette premere il tasto d'aiuto sulla sedia a rotelle. Poco dopo venne raggiunto da alcune infermiere umane, che lo portarono nelle sue stanze, collegandolo alle macchine necessarie a tenerlo in vita.
Le sue condizioni non avevano fatto altro che peggiorare e quelle crisi accadevano sempre più di frequente.
Ho troppe cose cui pensare, si diceva Valentino. E' quel dannato ragazzino. Se solo riuscissi a leggere nella sua mente per prendere quello che mi serve. Perché non ci riesco?
Aveva sventrato persone più salde di quel marmocchio, non riusciva a capire cosa gli impedisse di fare lo stesso con lui. Era un moccioso, quasi inconsapevole di essere al mondo. Una piccola, disgustosa zecca. Valentino capiva perché Stein avesse menzionato la sua parentela di rado: essere legato a quel marmocchio lentigginoso e al mutante lo faceva vergognare del proprio DNA, di cui condivideva una generosa porzione con quei due.
Quei pensieri non servivano a nulla se non a farlo infuriare ancor di più.
La mente di quel ragazzino ci serve per distruggere il mio vero nemico. Al momento mi devo accontentare di spostarmi da una mente all'altra, ma non è la stessa cosa. Rivoglio quel maledetto corpo, dovessi prendermelo con la forza.
Il Migliore, che stava inspirando a fatica attraverso la maschera filtrante, aprì gli occhi. Le infermiere erano intente a pulirgli il volto dal sangue, mentre la sua mente si assottigliava, scivolando via come un agglomerato di sabbia eroso dall'onda.
E' inutile che mi cerchi all'esterno. Io sono già qui. Te l'ho detto: non me ne sono mai andato. Siete solo miei pensieri ormai, e posso costringervi a fare tutto quello che voglio, senza che voi abbiate alcuna voce in materia. Ti piace dire queste cose, non è vero? E' perché io ho deciso così. Sono io che parlo attraverso la tua bocca.
- Chi sei tu? – rantolò il Migliore, con un filo di voce.
- Signore, non parli – mormorò un'infermiera, intenta ad applicargli sul petto dei sensori che l'avrebbero aiutato a normalizzare il ritmo del respiro.
Sono sempre nei tuoi pensieri, Valentino. Strano che tu non mi riconosca. Sempre nei tuoi pensieri, sempre nel tuo cuore. Te l'ho detto: guarda nella portantina e capirai.
- Perché non me lo dici e basta?
Perché mi diverte vederti tremare. Sei stato il leader indiscusso per troppo tempo qui, è il momento di chinare la testa. E quale modo migliore ci sarebbe, se non di privarti del controllo su te stesso? Ti sto solo restituendo ciò che mi hai procurato per anni. Guarda in quella portantina... dacci una bella, lunga occhiata. Riderai, credimi. E ti renderai conto di quanto non siate tutti nulla più che delle pedine, nel mio gioco contro il nemico. Pensa, nonostante tutto, vuole salvare anche te da me, per quanto tu lo disgusti. Patetico. E' proprio vero che le emozioni rendono deboli.
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Chissà cosa sta succedendo... forse avremo più risposte nel prossimo capitolo :3 Non vi anticipo nulla, ne mancano solo 6 alla fine, più l'epilogo :) Spero che il finale vi piacerà!
Se il capitolo vi è piaciuto, lasciate una stella e un commento, e ci vediamo nel prossimo :)
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