44. GUERRA CIVILE

Jack non era pronto per quello che si stagliò davanti ai loro occhi. Al centro del villaggio si era radunata una piccola folla. C'erano grida di dolore, pianti, piccole lotte fra Sopravvissuti e umani. Molti di questi presentavano delle ferite, ma tutti avevano in comune lo sguardo sconvolto, gli occhi sbarrati, la stessa espressione di un animale braccato.

Jack deglutì a fatica, e Pim gli strinse la mano, intrecciando le dita alle sue per fargli sentire la propria presenza. Il ragazzo si sentì un po' più tranquillo e seguì Aaron all'interno della folla. Jack ebbe modo di vedere meglio quello che stava succedendo. Aveva già visto quelle facce, conosceva molte delle persone che si trovavano lì. Come non avrebbe potuto? Dopotutto al Rifugio erano pochi, ormai, e si conoscevano tutti di vista, come all'interno di un piccolo paese. Il ragazzo vide Bernie inginocchiato accanto a un ferito che aveva una seria ferita alla spalla destra. Doveva essere stato colpito da un proiettile d'acido, che, oltre ad aver lasciato un cratere sanguinolento nel suo corpo, ne stava prevenendo la rimarginazione. Il volto pallido del ferito, dalla sfumatura grigiognola, assieme alla sua mancanza di reazioni persino mentre Bernie cercava di pulire il centro del cratere, gli dicevano che non se la sarebbe cavata facilmente.

Cos'era successo?

Perché erano fuggiti da città Rifugio?

Jack camminava fra i feriti e, assieme a Pim, cercava di rassicurarli. Nel vederlo diversi umani si tranquillizzarono, alcuni di loro gli strinsero le mani, altri ancora lo riconobbero e gli chiesero cosa ci facesse lì. Jack rispondeva loro di mantenere la calma, perché ora erano al sicuro, nessuno gli avrebbe più fatto del male. I Sopravvissuti non erano nemici, volevano solo aiutarli, ma loro avrebbero dovuto permetterglielo.

Belgor si fermò al fianco di una donna che presentava una ferita a un fianco, appoggiando la borsa a terra. Cercò di placare la sua agitazione con la propria mente, come stavano facendo anche gli altri Sopravvissuti, e tagliò la sua tuta con delle forbici, per scoprire la ferita. Non era molto profonda, per fortuna, nonostante avesse perso un'ingente quantità di sangue e la tuta fosse chiazzata di rosso fino a metà coscia. Aveva cercato di praticarsi una fasciatura rudimentale, ma c'era bisogno di punti.

Kehla e altre guaritrici, fra cui Amber, si aggiravano anche loro fra i feriti. Le più giovani avevano un'espressione spiritata e le mani che tremavano, ma cercavano di fare il loro meglio. Bernie propose di portare molti feriti ai baobab, perché altrimenti non ce l'avrebbero fatta, e diede vita a una disputa con Kehla, che lo attirò in parte per discutere senza farsi sentire, ma finirono comunque per alzare la voce.

- ... a volte bisogna rischiare! – sibilò Bernie. – Non ce la faranno comunque, con i nostri metodi. Fidati di me, Kehla, non sono un pazzo.

La Sopravvissuta, piccola e rugosa ma dallo sguardo vispo, si tormentò le piccole trecce irsute che le ricadevano sulle spalle, battendo a terra col bastone che usava per camminare.

- E va bene – ammise in fine. – Portiamoli ai baobab.

In fondo, cosa sarebbe potuto accadere ai feriti più gravi, se li avessero collegati agli alberi? Molti di loro avevano già una sentenza scritta sulla fronte.

Alcuni Sopravvissuti fabbricarono delle barelle improvvisate e portarono gli umani nella zona dei baobab-curanti.

Jack, che aveva perso di vista Pim, Belgor e Nick in quel mare di follia, si inginocchiò accanto a una donna che presentava solo ferite minori e stringeva al petto uno zaino come se ne andasse della sua vita. Aveva le dita contratte ad artiglio e tremava.

Il ragazzo raccolse una delle coperte che erano state radunate su una pila per essere a disposizione dei feriti, e gliela poggiò sulle spalle.

- Va tutto bene. Non preoccuparti, sei al sicuro.

Lei sussultò nel vederlo, ma si rilassò, notando che si trattava di un volto familiare e non di uno dei rosponi. Gli permise di sfilarle lo zaino dalle braccia e posarlo a terra, mentre controllava se avesse alcune ferite di cui non si era resa conto. Jack realizzò che era illesa, a parte alcuni piccoli graffi e dei lividi di minore entità, e la condusse nella zona dei baobab. Si trovava in uno stato di shock, e aveva lo sguardo fisso davanti a sé, come se non riuscisse a capire quello che stava succedendo. Sulla sua fronte si era radunata una scia luccicante di sudore freddo.

Il problema, al momento, era il fungo. Gli umani non sarebbero sopravvissuti a lungo senza la cura.

Jack non sapeva cosa stesse facendo Pim, ma immaginò che stesse agendo allo stesso modo. Gli aveva raccontato di come aveva fatto in modo di curarlo, e lui avrebbe replicato quel procedimento.

Alcuni umani avevano già la febbre e tracce di filamenti attorno alla bocca e agli occhi, oppure sulle ferite. Jack si avvicinò prima a quelli in condizioni peggiori, e si praticò una piccola incisione sul palmo della mano, per poi fare lo stesso sul braccio dei malati, in corrispondenza di una vena. Era un'operazione che richiedeva una certa fermezza, ma riuscì a portarla a termine più e più volte, con successo. La maggior parte dei malati ebbero dei miglioramenti considerevoli nelle ore successive e, all'alba, erano di nuovo coscienti. Jack era costretto a ricalcare la ferita sulla sua mano davanti a ogni paziente, perché il suo corpo si riparava troppo in fretta. Alla fine la sua mano era talmente indolenzita e pallida che si chiese se il meccanismo di autoriparazione non stesse andando in overload.

Il ragazzo era chino davanti a un bambino, cui stava rivolgendo delle parole gentili per spingerlo a lasciargli praticare una piccola incisione sul suo braccio per dargli la cura – no, non farà male, promesso –, quando avvertì una mano sulla spalla.

Era Teofane.

- Vai a riposarti. E' l'alba – gli disse il capo, dopo che Jack ebbe dato il proprio sangue anche al ragazzino, che si stava sfregando il braccio con aria risentita, perché quel guaritore lentigginoso aveva mentito quando aveva detto "non farà male", proprio come tutti i dottori fanno.

Jack strizzò gli occhi, abbassando lo sguardo sulla mano. Faticava a piegarne le dita, che erano fredde e sudate.

- Ma ci sono altri feriti... - cominciò, con voce roca. Era molto stanco, la testa a momenti gli ciondolava sul petto, ma non poteva fermarsi proprio in quel momento. Doveva andare avanti, c'era tanta gente che aveva bisogno di aiuto.

- E' tutto a posto, Jack. La maggior parte di loro sono stati curati, abbiamo dato loro il nostro sangue.

- Il vostro? – ripeté il ragazzo, aggrottando involontariamente le sopracciglia. Ciò significava che li avrebbero salvati, ma avrebbero subito una mutazione. Sentiva già che molti umani non gli sarebbero stati così grati, in seguito.

- Sì. Non temere. La mutazione può avvenire così come non avvenire, non è uno standard. In genere non succede nulla, avevamo già salvato un paio di umani in passato. Tuo fratello Nick è stata un'eccezione. Credo che la sua mutazione sia stata dovuta al fatto che in sé aveva il gene recessivo del migliore, proprio come te, e che quello sia incompatibile con il nostro. Potrebbero esserci delle eccezioni, ma speriamo che vada tutto bene. Mancano solo un paio di persone da sistemare. Vai a riposare, non c'è più bisogno che resti qui. Ci sarà qualcuno a darti il cambio.

Jack tentò di opporre una debole resistenza, ma era troppo stanco. Sarebbe stato meglio per lui riposare, in modo da essere più utile in seguito. In quelle condizioni non avrebbe potuto fare molto, qualora ce ne fosse stato il bisogno.

- D'accordo – rantolò, abbassando lo sguardo, e si lasciò condurre verso il baobab di Teofane, che lo fece distendere in un letto. – E Belgor?

- E' con Bernie nella zona dei baobab-curanti.

- Dovrei andare da loro...

- Non è necessario. Riposati. C'è già Pim con loro.

- Però...

Teofane posò una mano sulla fronte di Jack, che avvertì una sensazione di profondo rilassamento, malgrado il familiare brivido che gli percorreva la schiena quando entrava in contatto con le ventose di un Sopravvissuto.

- Dormi, ci penseremo dopo, d'accordo?

Jack avrebbe voluto rispondergli, ma aveva le labbra di piombo. Si addormentò poco dopo, la mano destra, ancora rigida e pallida, abbandonata fra le coperte.

***

Mercy non aveva fatto altro che correre lungo i corridoi stretti del Rifugio, affollati da gente urlante, feriti e morti.

Il battito del cuore le rimbombava nelle orecchie. Macchie di sangue sui muri, pozze sul pavimento, bossoli di pallottole dal rivestimento d'acido. Avrebbero dovuto usare le pistole antisommossa, non quelle! Perché le avevano usate?

Mercy si fermava ogni due passi per controllare le condizioni di salute di ogni persona.

La maggior parte di loro presentava ferite che erano troppo oltre per poter essere curate. Non aveva tempo per tutti. Non lo aveva. Era costretta a scegliere chi salvare, ed era orribile. Andava contro tutto ciò in cui credeva, essere costretti a valutare quali vite tenere e quali no. Fosse stato per lei si sarebbe dedicata a ogni ferito, ma solo per curare alcuni avrebbe dovuto impiegare delle ore, e a stento aveva qualche minuto.

Alcuni dei feriti anche la scacciavano, perché non volevano l'aiuto di una Migliore. "Meglio morire, che farmi curare da te, puttana".

Mercy allora non poteva far altro che andare avanti, lasciarli a occuparsi delle loro ferite, nonostante non ne avessero la competenza.

Il Ministro della Medicina aveva cercato di contattare Morton, il dottore del Rifugio, che gestiva sia il reparto psichiatrico che quello chirurgico, ma questi si era volatilizzato nel nulla. Mercy aveva sempre sospettato che quel bastardo la stesse ingannando, coi rapporti un po' troppo positivi che le presentava ogni settimana, e ora aveva avuto la conferma che di aiutare gli altri a lui non importava nulla. Per Morton contava solo la propria posizione, gli altri potevano crepare.

Maledetto, pensava Mercy, ogni volta in cui vedeva qualcuno che aveva bisogno del suo aiuto ma non lo voleva o non poteva averlo, viste le sue condizioni. Se ci fossi stato, Morton, forse avrei avuto tempo per lui, o per lei. Dannazione!

A Mercy si appannò la vista per le lacrime, proprio mentre era intenta a cauterizzare e suturare la ferita di una bambina, che la stava guardando con due occhi spaventati, mentre stringeva fra i denti il morsetto che Mercy le aveva procurato affinché non rischiasse di mordersi le labbra o la lingua a causa del dolore.

Al termine dell'operazione Mercy le porse una boccetta con delle pillole, dicendo che doveva prenderne una ogni otto ore al massimo, o le avrebbero fatto male. Si trattava di un antibiotico, ma, per farla semplice, disse alla bambina che avrebbe impedito alla ferita di peggiorare. Mercy non aveva nemmeno un antidolorifico da fornirle, li aveva finiti e doveva tornare nel piccolo studio improvvisato a prenderne altri. La maggior parte delle sue scorte erano ancora a Cram e i soldati le stavano riportando al Rifugio un po' alla volta. Mercy non sapeva perché fossero così lenti, forse il Primo aveva dato la priorità ad altro, probabilmente a tentare di recuperare qualcosa del Progetto Eden.

E' colpa tua, Robert. E' colpa tua! Se non avessi distrutto il tuo laboratorio, anche il mio sarebbe rimasto intatto. Cazzo!

Mercy aveva emozioni talmente violente aggrovigliate nel petto che avrebbe voluto mettersi a urlare, ma non poteva farlo. Non davanti ai feriti o a dei bambini terrorizzati.

- Dove vai? – le chiese la bambina, tenendosi una mano sul polpaccio ferito, dove Mercy aveva applicato una benda autoguarente. Si sarebbe fusa con la pelle e la carne dell'ospite, riparandone le cellule. Era un'operazione fastidiosa, ma l'avrebbe aiutata a guarire in fretta.

- Vorrei avere più tempo per te, ma non posso fermarmi. Ci sono altri feriti gravi di cui devo occuparmi – mormorò Mercy, mentre si rimetteva la borsa in spalla. – Cerca un posto sicuro e non uscire da lì finché questo disastro non sarà finito.

- Dove sono i miei genitori? – continuò la bambina, senza ascoltare la sua risposta, mentre afferrava un lembo del suo camice.

- Non lo so – gemette Mercy, più brusca di quanto avesse voluto, sottraendosi alla sua presa. – Mi dispiace, devo andare.

La bambina continuò a gridarle dietro e a piangere, mentre la dottoressa si allontanava, correndo.

Quando raggiunse il suo studio, nella sezione del Rifugio di cui le guardie di Cram si erano impadronite - dove sostavano anche Valentino, Minerva e il Primo, rinchiuso nella sua portantina - Mercy gettò con rabbia la borsa sul letto, ed espulse i sentimenti che le albergavano dentro con un grido furibondo.

Prese a calci l'armadio di metallo in cui aveva riposto le medicine, diede un pugno al muro, ottenendo il solo risultato di escoriarsi le nocche, ma non le importava.

- Cazzo! Cazzo! – singhiozzò, inginocchiandosi a terra, mentre affondava il viso fra le ruvide coperte. Avrebbe voluto annullarsi lì, in quel preciso istante. Era anche colpa sua, se era successo. Se avesse fermato prima Minerva e Valentino, se avesse cercato di far ragionare il Primo, forse non sarebbero morti così in tanti. Aveva avvertito che le tensioni erano sul punto di esplodere, sapeva che una rivolta avrebbe avuto luogo, presto o tardi.

Ora è tardi e basta.

Avrebbero dovuto esserci i Migliori al posto degli umani, uccisi come ratti, provvisti solo di assi di legno per difendersi, di armi fatte in casa, primitive.

I Migliori... fanno proprio ribrezzo...

---

Spero che il capitolo vi sia piaciuto :) Le cose cominciano a scaldarsi, ragazzi... Prendono una brutta piega. Di certo i Migliori non hanno fatto del loro meglio per farsi amare in tutti questi anni, ma sarà possibile evitare la guerra?
Nei prossimi capitoli potremmo finalmente scoprire qualcosa in più anche sul Primo... Chissà :)

Se il capitolo vi è piaciuto, lasciate una stella e un commento, e ci vediamo nel prossimo :)

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top