39. DIPENDENZA

Belgor era seduto su uno rozzo sgabello di legno e stava osservando Jack. Bernie gli aveva detto di praticare a Jack il massaggio che lui riservava a Rorian, ormai lo riteneva pronto. Erano passate due settimane da quando il ragazzo aveva perso conoscenza, e ancora la sua mente non dava cenni di ripresa. Ogni tanto Belgor aveva avuto la sensazione di avvertire una vaga presenza, ma era solo la sua immaginazione. Voleva che Jack si riprendesse e per questo sbirciava in continuazione il suo volto, interpretando una contrazione involontaria di una palpebra o del labbro come un segno di guarigione, per poi restare deluso.

Belgor frugò nella borsa dove teneva le medicine e ne estrasse l'unguento alle erbe che aveva preparato appositamente per Jack.

Il reticolo di filamenti fungini sulla testa del ragazzo era talmente fitto da aver creato una calotta, proprio com'era successo a Rorian. Senza il sostegno del fungo, avrebbe potuto morire.

Belgor si fece coraggio e spostò con delicatezza Jack su un fianco, sedendosi al suo fianco. Prese il rasoio che portava nella borsa e lo usò per rimuovere il sottile strato di peluria che gli era ricresciuto sulla testa. Una volta che la pelle fu di nuovo liscia e pulita, Belgor vi applicò sopra la pomata, massaggiando lentamente, partendo dalle tempie e poi espandendo il suo tocco al resto del capo.

Una volta terminato il massaggio sistemò Jack sul fianco opposto e lo imboccò con della linfa, facendo in modo che inghiottisse. Dovevano spostarlo ogni due ore, per impedire alle piaghe da decubito di formarsi. Jack ne aveva un principio sulla gamba destra, e Belgor vi applicò una crema che avrebbe formato uno strato protettivo.

Una volta terminato il suo lavoro, contemplò il ragazzo privo di sensi e provò una stretta allo stomaco.

- E' tutto inutile – mormorò, con le lacrime agli occhi.

Non era giusto.

Per una volta che aveva trovato un amico, era dovuta finire così. La Stregana, che finora aveva riposato tranquilla ai piedi del letto, fece un paio di saltelli, fino a posizionarsi sull'addome di Jack. Aveva un'espressione triste. Da quando il ragazzo non si era più preso cura di lei, la raganella aveva cominciato a mangiare meno, fino ad arrivare a rifiutare il cibo. Belgor cercava di nutrirla, perché Jack avrebbe voluto che si prendesse cura di lei, ma Croak non era molto collaborativa.

- Su, vieni – la incitò Belgor, raccogliendola.

L'animale emise un debole gracidio, lasciando che lui la portasse via, ma i suoi occhi erano fissi sul ragazzo disteso nel letto.

- Pim si prenderà cura di lui. Arriverà subito, non preoccuparti.

La rana gonfiò il mento e si nascose nella sua borsa.

Belgor sospirò e si avviò verso la porta. Stava scendendo le scale, quando udì un rumore. Tornò subito nella stanza di Jack e, per un solo istante, gli sembrò di vederlo seduto.

- Ciao, Belgor –disse il ragazzo.

Il Sopravvissuto sbatté le palpebre, incredulo, e si stropicciò gli occhi. Andò a controllare le funzioni vitali di Jack, che era di nuovo disteso, immobile. Non era cambiato nulla.

Belgor sospirò, decretando che era stato solo uno scherzo della sua mente, e scese le scale, ancor più depresso di prima.

***

Jack non riusciva a ricordare quello che aveva fatto negli ultimi giorni. Aveva la sensazione di essere in un sogno e di starsi spostando da un universo all'altro. Scivolava nel vuoto, per poi aggrapparsi a una stella e venire risucchiato in un vortice di suoni e colori.

A volte era in un palazzo bianco, e in quei momenti era un bambino. A volte era in un posto confuso, pieno di rabbia e dolore, e allora era il suo sé di quindici anni.

A volte ancora si trovava al limitare della collina, a osservare le stelle.

Erano anche altri i luoghi in cui veniva attirato: una stanza con una scrivania ricoperta di radici, insetti e barattoli vari; un palchetto vuoto dove un tempo gli avevano fatto un sacco di domande; un rifugio in cima a un baobab dove c'erano delle armi rudimentali.

Ogni tanto riusciva a raggiungere un'autocoscienza più profonda, ma per la maggior parte del tempo era una nube dalla consapevolezza vaga e inconsistente come il vapore di cui era composto. Quando riusciva a pensare provava una grande paura, perché si sentiva solo, nonostante fosse vicino a molte persone; mentre nei momenti in cui galleggiava non sentiva niente, si limitava a osservare gli eventi attraverso gli occhi di tutti coloro che gli avevano lasciato un segno, sia che fosse stato una cicatrice, sia una carezza.

Quando si soffermavano su di lui col pensiero acquisiva forza e riusciva anche a manifestarsi, come un'entità ultraterrena, ma quel vigore svaniva presto, e riprendeva a vagare. Il suo corpo era inarrivabile, non poteva controllarlo. Era come se l'avessero bandito da esso. La sua mente era piena di statico, memorie che non gli appartenevano e avevano scacciato la sua coscienza. Cercava di riaccedervi, ma era troppo debole per riuscirci da solo. Troppo inconsistente. Non riusciva nemmeno a tenersi insieme, spesso si frammentava quando molti pensavano a lui nello stesso momento. Se solo si fossero concentrati sullo stesso pensiero tutti insieme avrebbero potuto dargli la forza sufficiente a recuperare una parvenza d'integrità, ma così era impossibile. Erano tutti talmente impegnati a darsi la colpa o odiarsi da non capire che quello che dovevano fare era unirsi.

Jack non sapeva quanto sarebbe stato in grado di restare integro. Aveva la sensazione di svanire ogni giorno un po' di più.

***

Morris era disteso nel letto. Il mondo lo spaventava, non aveva idea di come orientarsi. Odiava non avere il controllo, odiava doversi affidare completamente agli altri. Dovevano aiutarlo in ogni cosa, portandogli da mangiare e aiutandolo ad andare in bagno. Sapeva ancora comunicare col pensiero, ma non era la stessa cosa. A differenza di Teofane, non aveva dato al Grande Albero la vista per ottenere qualcosa di più potente in cambio. Aveva solo perso quel poco che gli rimaneva, ottenendo qualcosa che odiava: la pietà degli altri.

La avvertiva mentre si aggrappava alla sua pelle come una serie di piccole, disgustose manine appiccicose. Lo faceva rabbrividire per il disprezzo, ma non poteva scacciarla, perché ne aveva bisogno. Cos'altro avrebbe potuto fare, ridotto così?

Non aveva idea di quale fosse stato lo scopo di quella punizione. Forse l'albero si divertiva a vederlo soffrire e basta, così come tutti loro. Dovevano essere contenti che avesse finalmente ricevuto quello che si meritava. Oltre alla compassione di alcuni di loro, specie di Teofane e Bernie, Morris avvertiva la malevola soddisfazione di altri che non conosceva. Uno di questi avrebbe potuto essere Nick, ma lo scienziato non aveva avuto intenzione di indagare. Suo fratello non era ancora venuto a trovarlo. Come biasimarlo, doveva detestarlo ancor di più da quando gli aveva portato via il suo piccolo Jack.

Non aveva nemmeno la compagnia di Robert, ormai. Quel nugolo di pazzia si era volatilizzato. Era come se godesse anche lui nel vederlo tribolare.

Maledetto.

Maledetti tutti.

Vi odio tutti.

L'unica cosa che gli portasse un frammento di sollievo era camminare nel suo palazzo mentale. Lì riusciva a vedere qualcosa, malgrado fossero solo strutture immaginarie. Era come sognare. A tratti sembrava reale ma, per la maggior parte, era circondato una nebbia scolorita: si passava da una stanza all'altra dell'edificio in modi illogici, senza rendersene conto.

Ormai Morris ci trascorreva così tanto tempo che gli seccava uscirne. Voleva starsene dove i sentimenti altrui non l'avrebbero raggiunto. Non voleva sentire i loro stupidi pensieri. Si diceva che non aveva bisogno di comunicare, che poteva stare da solo finché aveva i filamenti del fungo collegati al corpo, ma in realtà temeva di assaggiare per davvero il loro odio. Si consolava detestandoli a sua volta, eppure quei pensieri non risollevavano il suo umore.

Nonostante l'albero stesso gli avesse detto che aveva agito per egoismo, presentandosi a lui, Morris si ritrovava spesso a pensare a Jack. Non riusciva a comprendersi, i suoi sentimenti erano qualcosa che non era abituato ad analizzare, ma provava un senso di pace, quando rivedeva gli anni trascorsi con Jack e Nick al Rifugio. Malgrado detestasse quel posto, alcuni momenti erano stati belli. Allora non li aveva sopportati, ma, col tempo, si erano tinti di una luce nostalgica. Aveva capito solo con gli anni quanto quelle stupidaggini fossero state importanti per lui. In molti ricordi c'erano i suoi genitori, oppure Jack da bambino e Nick quando cercava di farsi crescere una ridicola peluria in faccia, che definiva "barba" ma sembrava più alle piumette di un pulcino.

Poi i suoi pensieri viravano verso il Jack del presente, rinchiuso in un baobab-curante, proprio come lui. Ogni tanto cercava di sondare la sua mente, senza trovarci niente, e provava una fitta al petto. Al di là di quello che avrebbe potuto dire il Grande Albero, gli dispiaceva per suo fratello. Non avrebbe voluto fargli del male, ma Robert aveva preso il controllo. La sua parte più crudele aveva sempre ritenuto Jack un sempliciotto, e adesso Morris non riusciva a capire perché gli mancasse il suo goffo affetto. Forse perché, pur nel suo rudimentale pensiero, che spesso trovava irritante, Jack era stato l'unico che avesse sempre creduto in lui e, a differenza di Robert, non avesse mai avuto un fine personale.

Jack non sapeva usare le persone per i propri scopi, a differenza di Morris. Lui, invece, non sapeva come si facesse a essere disinteressati. Perché una creatura avrebbe dovuto rinunciare a tutto per un'altra? Era contro ogni principio di sopravvivenza, contro ogni istinto. Jack gli avrebbe risposto ingenuamente, dicendo "per amore", con quell'espressione da idiota che gli si dipingeva in faccia quando si metteva a fare l'idealista.

L'amore era controproducente, spingeva le persone a compiere azioni autodistruttive. Morris aveva provato a rivestirsi di quel sentimento chiamato amore, ma alla fine aveva agito solo per un tipo di affetto, quello verso se stesso: l'unico amore sensato.

Eppure non era più sicuro di provare amore verso ciò che era. Se così fosse stato, avrebbe apprezzato le proprie azioni, il proprio pensiero attuale, persino la sua condizione. E invece si odiava. Odiava se stesso, odiava gli altri, odiava l'universo intero.

Cercava di dominare il mondo esterno, di essere lui il primo a schiacciarlo sotto la scarpa, perché lo temeva. Aveva paura di perdere il controllo, di essere lui quello che veniva schiacciato, e questo l'aveva reso crudele... perché in verità era il più terrorizzato di tutti.

Era per paura di essere mandato via da Cram che aveva progettato i Plasmatori, era per paura del Primo che aveva aspettato tanto per andarsene, era per paura delle reazioni dei suoi fratelli che non aveva pensato di contattarli più spesso. Era sempre così spaventato, mentre Jack no. La sua coscienza era placida e confortevole come una coperta calda. Quanto avrebbe voluto essere così anche Morris.

Era stato a causa della paura che si era aggrappato a quella mente così dolce e piatta come un lago, perché si era sentito sul punto di cadere nell'abisso, perché aveva avuto paura della solitudine. E ora solo lo era, e non aveva nemmeno qualcuno che lo consolasse.

Era un vampiro che distruggeva tutto quello che toccava, perché temeva che potesse ferirlo o non avere altre occasioni di ottenerlo. Prendeva tutto, subito, e poi se ne andava, cercando qualcos'altro cui aggrapparsi.

Era così terrorizzato che aveva persino creato un mostro che lo difendesse perché, forse, diventando anche lui una delle creature orribili che tanto temeva, forse avrebbe smesso di averne paura.

Morris doveva solo imparare a distendersi. A essere calmo come lo era stato Jack. Forse guardandolo avrebbe imparato, e allora premeva il tasto rewind della sua memoria. Ma non era la stessa cosa, guardare ciò che era già stato. Lì vedeva già il germe del terrore che affondava nella sua coscienza, e lo spingeva a essere freddo, ad allontanarsi da chi gli voleva bene, a trattare gli altri come marionette per il suo gioco.

Perché era stato così stupido? Perché non si era fermato quando ancora poteva farlo?

Jack, insegnami. Ti prego. Sono solo, così solo. E ho paura di restare solo.

Ogni tanto, forse perché riusciva ad arrivare all'autoconvincimento, avvertiva una piccola mano posarsi sulla sua. Era a malapena una sensazione, più un formicolio che, estesosi dalla sua mente, raggiungeva le sue dita. Ma era un'illusione piacevole.

Sei tu che ti rendi solo, Mo...

***

Valentino inspirò violentemente, aprendo gli occhi. Mercy sussultò per lo spavento e abbandonò il lavoro che stava svolgendo, avvicinandosi all'uomo, che stava cercando invano di muoversi. Tutto quello che riusciva a fare era ansimare al di sotto della mascherina che lei gli aveva applicato sul volto, con la funzione di filtrare l'aria e apportargli una quantità maggiore di ossigeno. Funzionava in modo wireless e si caricava con la luce, sia quella del sole che dei neon che sfarfallavano sopra le loro teste.

- Valentino, calmati – mormorò Mercy, posandogli le mani sulle spalle, mentre cercava di arginare la sua paura. – Va tutto bene. Sei al sicuro.

Il suono della sua voce lo aiutò a recuperare contatto con la realtà, mentre aggrottava le sopracciglia. Valentino tentò di mettersi seduto e ancora non ottenne nessun risultato. Il suo corpo era una massa inerte di cui era consapevole, ma sulla quale non aveva più controllo. Era come essere prigionieri di un'armatura troppo rigida affinché si riuscisse a muoverla.

- Cosa... mi ha... fatto? – rantolò, mentre Mercy rimuoveva la mascherina per permettergli di parlare con meno difficoltà.

La donna esitò, passandosi una mano sul viso, e trasse un profondo sospiro.

- Robert ti ha... non sei riuscito a resistergli. Nessuno di noi era in grado di farlo. Ci ha colti di sorpresa.

- Cosa mi ha fatto? – ripeté Valentino, fremente. La sua voce era acuta, deformata da una nota di stridulo terrore.

Mercy esitò ancora, sedendosi al suo fianco, mentre osservava le macchine che ronzavano e bippavano, collegate al corpo del collega.

- Robert non si è limitato a farti perdere i sensi, come ha fatto con me e Minerva, anche se credo che ci abbia risparmiate solo perché non aveva più tempo. Ha attaccato il tuo cervello, distruggendo i centri di controllo del movimento. Molti dei tuoi nervi si sono atrofizzati. Sei paralizzato dal collo in giù. Sono riuscita a salvare solo il braccio destro, ma si tratta comunque di movimenti limitati.

Valentino la fissò in silenzio, gli occhi neri simili a due biglie vuote. Mercy vide prima la negazione, poi la disperazione e, infine, la rabbia.

- Quel bastardo... io lo ucciderò... lo ucciderò! – sibilò Valentino, con le lacrime agli occhi, mentre il battito del suo cuore impazziva sugli schermi.

Dopo tutto quello che avevano fatto per Robert, dopo averlo accolto nel circolo dei Ministri nonostante fosse chiaro che non sarebbe mai compenetrato in quel fragile meccanismo, aveva osato tradirli, distruggendo quello che avevano costruito in tutti quegli anni.

Valentino in quel momento avrebbe dato qualunque cosa per poter avere Robert Stein sotto mano. Gli avrebbe fatto più male di quanto chiunque gliene avesse mai fatto in tutta la sua vita.

E' una promessa, Stein. E io mantengo sempre le promesse.

_____________

Ciò di cui Mo aveva bisogno era proprio una persona viscida e bastarda come Valentino che lo vuole morto, non trovate? Anzi, peggio che morto. Direi che gli piacerebbe effettuare una vendetta in grande stile. Ho preso il suo nome dal Principe di Machiavelli, sarebbe un peccato se attuasse un piano deludente, no? XD

Comunque, in questo capitolo sono successe un sacco di cose. Il quaranta lo dividerò in due parti perché è uno dei capitoli più lunghi che ho scritto, mi sembra più di 4500 parole, dunque è meglio vederlo in due parti. Metterò la prima il venerdì e la seconda la domenica :)

Ci saranno cavalieri con scolapasta in testa e spade di gomma che fanno squeeeak all'attacco per sconfiggere il cattivone Robert! Attenti! Attentitevi! Attentiscitevi!

Se il capitolo vi è piaciuto lasciate una stella o un commento, e ci vediamo nel prossimo :)

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