18. Frammenti
Jack si mise seduto, stringendo forte le coperte. Lo spostamento improvviso gli causò un capogiro e tornò a distendersi, ansimando, mentre gli fischiavano le orecchie.
Avvertì delle mani fredde e viscide posarsi sulla pelle seminuda della sua schiena, aiutandolo a mettersi dritto, e una voce chiamarlo da lontano. Ripeté il suo nome più volte, finché non riuscì a farsi strada nel muro che lo circondava.
- Jack, mi senti? Stai bene?
- Sì... - rantolò lui, con voce roca. Si guardò attorno, spaesato. Fino a pochi istanti addietro stava camminando nel cuore del villaggio. Non ricordava cosa stesse seguendo, ma non era stato in grado di resistere al suo richiamo, come una Falenorsa che volava verso una luce. Era tutto così confuso, aveva la sensazione di essere finito in un cadoleiscopio e di non essere ancora riemerso del tutto. Qualcosa lo aveva ancorato alle viscere e l'aveva trascinato via, senza che lui potesse opporre alcuna resistenza, come Ulize e il canto delle stranene. – Credo di sì. Mi è sembrato di vedere...
Deglutì a fatica, portandosi una mano alla testa, e strizzò gli occhi. Lo aveva visto, sì, ma non poteva essere vero. Lo aveva sentito, dopo secoli di silenzio, ma doveva essere stata la sua immaginazione. Si sentiva talmente a pezzi in quei giorni che il suo immaginarsi voci confortanti stava andando fuori da ogni controllo. Non riusciva più a capirsi, aveva perso il controllo dei suoi stessi pensieri, che si materializzavano sotto forma dei desideri più profondi, apparsi per portare un po' di gioia ai cocci della sua anima.
- ... ho visto Morris. So che non è possibile, ma ho sentito la sua voce. Mi chiamava. Mi diceva di andare via con lui.
- Morris? – ripeté Bernie, aggrottando la fronte. Gli mise una mano su una spalla e gli rimboccò le coperte, sedendosi sul bordo del letto. – Parli di Robert Stein?
- Non si chiama Robert. E' solo un cacchio di nome che si è inventato per fare scena. Per me lui sarà sempre Morris – sbottò Jack, seccato da quella finta identità che lo perseguitava.
Bernie sospirò, scuotendo la testa.
- Sei solo molto confuso, ragazzo – mormorò. – La tua mente ha subito una violenza indicibile, è normale che possa presentare ancora delle incrinature. Però non devi permettergli di avere il sopravvento, devi imparare a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, o potresti non esserne più in grado.
Il dottore raccolse una delle sue mani, trasse l'ennesimo sospiro e, tenendo gli occhi bassi, riprese a parlare.
- Vorrei che tu facessi un esercizio, d'ora in poi. Ogni volta in cui ti senti spaventato o sul punto di collassare, voglio che tu ripeta con chiarezza chi sei a te stesso e dove ti trovi. Ti aiuterà a restare più ancorato alla realtà, al momento che stai vivendo. E' importante, quando i confini fra il pensiero e la materia si sfumano. Devi avere dei punti di riferimento. C'è qualcosa che ti fa sentire particolarmente bene, quando ci pensi?
Sì, qualcosa c'era. O meglio, qualcuno.
Ma non era lì in quel momento.
- Dov'è la ragazza?
- Chi, rosetta? – mormorò Bernie, abbozzando un sorriso. – Mentre eri privo di sensi ha deciso di unirsi a una missione dei nostri fratelli Sopravvissuti. C'era bisogno di perlustrare i dintorni per controllare che i Migliori non si fossero avvicinati troppo al nostro villaggio, e ha deciso di partecipare, per ripagare Teofane dell'ospitalità e la gentilezza con cui vi ha trattati finora.
- Oh – fu tutto quello che riuscì a dire Jack.
Nonostante avessero passato poco tempo assieme si era talmente abituato ad averla al proprio fianco che si sentiva vuoto senza di lei. Era come se si fosse accorto che gli mancava un arto di cui finora non aveva notato la crescita.
- Non preoccuparti, tornerà fra qualche giorno al massimo – sospirò il medico, con un sorriso tirato. I suoi occhi verdi, di solito dalla luce gentile, erano duri e si soffermavano spesso nel vuoto, come se stesse pensando a qualcosa di importante.
- Ah-hah – mormorò Jack, incapace di nascondere la propria delusione.
E se le fosse successo qualcosa?
Ma sei cretino? Lei è indistruttibile.
E se le cadesse un masso addosso?
Ora sei ridicolo.
Però era comunque preoccupato, non poteva farci niente.
- Non angustiarti troppo, presto tornerà – mormorò il dottore, intenerito dalla sua evidente angoscia.
- Non so, mi sembra strano che non mi abbia detto niente. Lei mi dice sempre tutto.
- Forse aveva bisogno di stare un po' da sola.
- In che senso?
Bernie si schiarì la gola.
- Non lo so. E' quello che mi ha detto prima di partire con gli altri.
Jack annuì e sospirò, cingendosi le ginocchia con le braccia.
Cercando di distrarsi dal pensiero di lei che vagava nella palude e di tutte le bestiacce che avrebbero potuto cercare di mangiarsela per cena, chiese al medico cosa fosse successo di preciso quella notte.
Gli era sembrato che fossero passati solo pochi minuti da quando il richiamo delle stranene era cessato, ma dalle minuscole finestre del baobab-casa penetravano già i sottili, rosacei raggi dell'alba. Rosa, come i capelli della ragazza.
Smettila di pensare a lei, se la caverà. Ha vissuto da sola per un po', probabilmente al suo posto saresti diventato un Barbe-a-cu per Sibilanti, mentre lei si è pure fatta una casa!
- Penso tu abbia avuto un episodio di sonnambulismo.
- Sonnambu che?
- Sonnambulismo. E' quando ti muovi nel sonno. Stavi ancora sognando, quando rosetta si è accorta che eri uscito dal baobab. Qualunque cosa tu abbia visto è stata solo nella tua immaginazione.
Bernie stava per aggiungere altro, ma venne interrotto da un leggero bussare.
La porta si aprì e le trecce d'erba secca all'entrata della camera vennero scostate da una mano dalle unghie di madreperla, e un muso familiare fece capolino. Era Belgor, con il suo solito sorriso stampato in volto.
- Ciao, dormiglione – mormorò. – Cos'hai combinato, stavolta?
Notò che c'era anche il medico e gli diede una pacca sulla spalla. Bernie sussultò. Ah, allora non era solo Jack a non amare molto quelle pataffe sulla schiena. E lui che l'aveva creduta una cosa culturale. Pensava salutassero così gli amici, visto l'entusiasmo con cui si colpivano a vicenda.
- Ehilà, Bernie! Come sta il nostro paziente? Ha fatto il furbetto ieri notte, mi hanno detto.
- Sì, ma ora sta bene.
Il dottore strinse un'ultima volta la mano destra di Jack per rassicurarlo, quindi si alzò e prese la borsa con tutti i suoi strumenti.
- Dove vai? – chiese Jack, sentendosi ancor più smarrito di prima. Avere un dottore nei paraggi lo confortava, non voleva che se ne andasse anche lui, lasciandolo solo con l'entusiasmo di Belgor.
- Ho anche altri pazienti di cui occuparmi, e ora hai compagnia – mormorò Bernie, facendogli l'occhiolino. – Belgor è un bravo ragazzo, gli avevo chiesto di anticipare quelle lezioni che aveva promesso di darti, visto che la tua mente ha bisogno di trovare un equilibrio. Imparare a schermarla ti fortificherà e non avrai più questi incubi.
- E quell'esercizio di cui mi hai detto? – mormorò il ragazzo, che non si fidava molto dei metodi di Belgor.
- Oh, giusto. Semplicemente, quando ti senti confuso, comincia a ripeterti chi sei e dove ti trovi, e qualcosa di importante per te, finché non sentirai la mente un po' più sgombra. Aiuta molto, credimi.
Bernie gli rivolse un cenno di saluto, poi scese le scale reggendo la borsa, dalla quale sbucavano delle foglie blu e arancioni.
Una volta che furono rimasti soli, Belgor si gettò sul letto di Jack, facendolo sobbalzare. Si sdraiò a pancia in su, incrociando i piedi sulla testiera, come se fosse stato a casa sua.
Il ragazzo si rannicchiò in un angolo del letto, senza sapere cosa fare. Con un dito tremante indicò i piedi del Sopravvissuto.
- Q-quelli sono artigli?
- Sì. Fighi, vero?
- Ehm. Sì, credo.
- Non preoccuparti, Jackie! Anche tu potrai diventare uno tosto, se seguirai le mie lezioni! Certo, non tosto come me, questo è impossibile, i miei livelli di miticità sono irraggiungibili, ma potrai andarci vicino, se sarai un bravo studente. Studia le lezioni e fai i compiti, che interrogo!
- Ma io non sono mai andato a scuola – sussurrò Jack, con occhi sbarrati. Temeva tutto ciò che aveva a che fare con la sfera intellettuale o burocratica, perché non lo capiva. Si sentiva come quella volta in cui Nick l'aveva mandato a prendere le razioni al suo posto. Ah, che incubo. Aveva preso il bigliettino col numero, ma poi si era perso e non aveva fatto altro che guardarsi attorno con occhi sgranati per mezz'ora, tentando di chiedere informazioni alla gente, senza capirci niente in ogni caso. Alla fine era tornato a casa col biglietto in mano e l'aria di chi è appena scappato da morte certa. "Nick ti prego fallo tu", gli aveva detto, e suo fratello, borbottando come solo lui sapeva fare, era andato a fare il suo lavoro. "Proprio impedito sei, mannaggia bubbazza". "Scusa se non so fare le cose!". "E piagnucoli pure". – Non devo studiare per davvero, giusto?
Belgor lo guardò, facendosi improvvisamente serio, e gli picchiettò con un dito sulla fronte.
- Se non dai cibo alla tua mente, come pretendi che possa crescere?
Oh, no, pure lui parlava come Morris.
Belsignore santissimo.
- Il cervello mangia? – sussurrò Jack, tirandosi la coperta fin sotto gli occhi. – Io non lo sapevo!
Si fissarono in silenzio per un lungo istante, il primo attonito e il secondo sconvolto dall'ipotesi che il suo cervello potesse essersi atrofizzato perché non gli aveva dato il mangime giusto.
- E' una metafora, Jackie boy – disse Belgor, parlando lentamente, come se si trovasse davanti un bambino un po' tonto.
- Metafora?
Il Sopravvissuto si portò una mano al viso, traendo un profondo sospiro. Un insegnante doveva essere paziente, ma era difficile se lo studente aveva le conoscenze di una rapa.
- Intendevo dire che devi esercitare la tua mente, se vuoi renderla più forte, e, oltre alle mie lezioni, dovrai fare qualche esercizio per conto tuo.
- E perché non l'hai detto prima?
Belgor provò un improvviso desiderio di ritrattare la sua proposta di insegnamento, ma ormai era troppo tardi. Jack gli aveva promesso un'intervista per la sua collezione di studi sugli umani, quindi non poteva assolutamente perdere quell'occasione, per quanto il ragazzo fosse un umano molto strano.
- Avanti, seguimi. Ti porto alla radura da meditazione.
- Medita in azione?
- Meditazione, Jack, meditazione!
- Okay, okay. Stai tranquillo, però.
- Pensa all'intervista, Belgor. Pensa all'intervista.
- Cos'hai detto?
- Niente. E muoviti, non abbiamo tutto il giorno!
***
Dopo aver fatto velocemente colazione, Jack si infilò una felpa per affrontare il freddo della mattina, nonostante per ora di pranzo si sarebbe trasformato in caldo torrido, e seguì il rospetto attraverso la palude.
Non aveva idea di dove lo stesse portando, si limitava a stargli dietro, nonostante Belgor procedesse molto in fretta grazie alle sue lunghe gambe da rospone.
- Muovi il culo! – gli ululava a intervalli regolari, da qualche metro più avanti.
- Vai troppo veloce – brontolava Jack, appoggiandosi a ogni albero che incontrava sul cammino per recuperare fiato.
Bernie gli aveva detto che le difficoltà nel muoversi erano dovute alla sua mente, ancora instabile. A Jack erano sembrate un sacco di stupidaggini, la mente era qualcosa di diverso dal corpo, stava al cervello così come il fuoco stava alla legna. Come poteva un male dello spirito affliggere la carne? Lo trovava assurdo, eppure era così. Non aveva mai avuto il fiatone solo per camminare dietro a un rospetto sbruffone, e i muscoli non avevano mai bruciato con tanta intensità per aver compiuto il semplice sforzo di scendere le scale e avventurarsi nella palude. Si sentiva come un giocattolo rotto, aggiustato alla meno peggio con dello scotch, sul punto costante di crollare in mille pezzi. Pregava solo che quelle lezioni per equilibrare la mente servissero a rimetterlo assieme in modo più saldo e duraturo. Avvertiva chiaramente i deboli legami che trattenevano i frammenti della sua identità e aveva il terrore che potessero spezzarsi: continuava a ripetersi "Sono Jack Twingle e mi trovo nella palude, coi Sopravvissuti. Ho un fratello di nome Nick e uno di nome Morris, e un'amica senza nome" ogni volta in cui si indebolivano, ma non era sufficiente.
Raggiunsero una radura spoglia, il cui terreno era di un rosso chiaro, piuttosto solido rispetto al fango della palude, quasi arido.
- Dove siamo? E' questo il posto per meditare in azione?
- Sì – sospirò Belgor, sedendosi a gambe incrociate e indicando a Jack di accomodarsi.
Il ragazzo ubbidì con piacere, non aveva fatto altro che bramare un po' di riposo fino ad allora.
Imitò Belgor, mettendosi a gambe incrociate e poggiandosi le mani sulle ginocchia.
- Non devi per forza fare come me, l'importante è che tu stia comodo e non senta alcuna tensione nel corpo.
Jack non aveva idea come fosse non sentire alcuna tensione nel corpo. In quel momento si sentiva come un sacco per allenamenti, avrebbe solo voluto potersi distendere.
- Se vuoi fallo. E' indifferente quale posizione assumerai.
Si era dimenticato che Belgor poteva sentire i suoi pensieri. Ma allora aveva sentito anche quelle cose di prima, sul fatto delle gambe lunghe? E se si fosse offeso?
Non devi pensarci, idiota! Lui può sentirti!
Oh, ma questo è un incubo. E' peggio di quando Morris spiava i miei pensieri.
- Non mi sono offeso, sciocco – ridacchiò Belgor. – Adesso però mettiti comodo.
Jack, che non avrebbe potuto essere più imbarazzato di così, si mise a pancia in su, incrociando le dita sullo stomaco.
- Perfetto, Jackie boy. Adesso che sei rilassato, prendi un bel respiro e chiudi gli occhi.
Jack ubbidì, espirando lentamente, sperando di fare tutto giusto. Gli avrebbe dimostrato che nonostante non fosse stato uno studiante, sapeva imparare. Almeno sperava.
- Adesso immagina un muro attorno alla tua mente.
- Un muro? – sussurrò Jack, perplesso.
- Non parlare – lo rimproverò Belgor. – Concentrati.
Ma come avrebbe fatto a creare un muro? A stento riusciva a mantenere assieme i pezzi rattoppati della sua identità.
- Non si tratta di un muro concreto, Jack. Può essere qualunque altra cosa. Ciò che importa è che tu focalizzi la mente su un unico pensiero, un pensiero talmente forte, talmente intenso da non lasciare posto per nient'altro. Di solito io uso qualcosa di molto impegnativo, come cercare di pensare a delle parole al contrario o a delle addizioni con grandi numeri.
- Ma io...
- Non parlare!
Jack serrò le labbra, tornando a chiudere gli occhi. Non era molto bravo con la matematica. Le uniche addizioni che avesse mai fatto erano quelle per contare quante provviste restavano in dispensa. "Grandi numeri"... Belgor doveva intendere delle decine, con "grandi numeri". Jack stentava a immaginare numeri che andavano al di là delle due cifre.
Forse se la sarebbe cavata meglio con le parole al contrario, ma se aveva già problemi con quelle per diritto non sapeva cosa ne sarebbe saltato fuori.
- Ora io cercherò di forzare la tua mente – mormorò Belgor.
- Cosa? Per favore, non...
- Quante volte ti devo dire di stare zitto?
Jack avrebbe voluto gridare per la frustrazione, e si morse la lingua per trattenersi. Belgor gli stava simpatico prima, ma ora non ne era più molto sicuro. Aveva paura che si avvicinasse troppo, che potesse fargli tanto male quanto gliene aveva fatto Aaron.
- Non sono mio fratello, non temere. Il massimo che farò sarà prendere il controllo del tuo corpo, giusto per mostrarti cosa si può fare se si sanno premere i tasti giusti.
Controllo di cosa?
- Ora io ti attaccherò, che tu sia pronto o no. Dunque cerca di prepararti.
Jack avvertì una fitta di panico alla bocca dello stomaco. Aprì un occhio e guardò Belgor, che aveva abbassato le palpebre e respirava a fondo. Stava per farlo. Belsignore, stava per farlo sul serio.
Doveva contare i numeri, doveva dire le parole al contrario, doveva...
Il respiro gli si mozzò. Jack cercò di inalare aria, ma i polmoni non rispondevano più ai suoi comandi. Cercò di aprire gli occhi, di guardarsi attorno, di muovere le dita, ma nemmeno quelle erano più sotto il suo controllo. Era successo tutto così in fretta che non aveva idea di come Belgor ci fosse riuscito. Il suo respiro riprese, profondo e regolare, ma era alieno, come se l'ossigeno venisse introdotto ed espulso dai suoi polmoni da un macchinario.
Jack cominciò ad avere paura sul serio, ma non poteva muoversi, non poteva fare niente.
Era inerme, si sentì di nuovo violato, nudo come un verme.
Avvertì le lacrime agglomerarsi al di sotto delle palpebre chiuse. Una di esse scivolò lungo la sua guancia destra, cadendo nella polvere rossa e ferrosa.
I legacci che bloccavano il suo corpo si dissolsero e un istante dopo era rannicchiato su un fianco, mentre singhiozzava.
- Jack, è tutto a posto, stai bene – farfugliava Belgor, massaggiandogli la schiena con una mano nel tentativo di calmarlo. – Forse ho esagerato, pensavo potessi farcela... non credevo avessi così tanta paura. Non ti avrei mai fatto del male.
Continuò a rivolgergli parole gentili, finché Jack non riuscì a tranquillizzarsi, e il suo respiro riprese un ritmo vagamente regolare. Aveva un tale bisogno di conforto che abbracciò Belgor, malgrado la sua pelle fosse ricoperta da un sottile strato di bava.
- Non ce la faccio, è troppo – farfugliò. – P-possiamo fare basta per oggi?
Belgor, che si sentiva in colpa per averlo spinto troppo oltre, ricambiò goffamente la stretta.
- Ma certo, non c'è fretta. Nessuno ci corre dietro. Pensavo di poterti aiutare, non avevo idea che avrei innescato una tale reazione. Aaron è stato più violento di quanto credessi, per instillarti un tale terrore.
Tutto quello che Jack riuscì a fare fu annuire.
- Andiamo a casa – gorgogliò, con voce flebile, mentre si asciugava il viso su un braccio. Odiava mostrarsi debole, detestava piangere in presenza d'altri, ma era più forte di lui. L'orrore che aveva dentro era tale che era impossibile trattenerlo.
Belgor assentì e lo aiutò ad alzarsi, toccandolo a malapena, come se temesse di romperlo.
- Riproveremo domani, d'accordo?
Jack non rispose nemmeno, zoppicando alla cieca verso il villaggio dei Sopravvissuti.
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