Capitolo Sesto: Senso di colpa
Non c’è problema così terribile a cui non si possa aggiungere un po’ di senso di colpa per renderlo ancora peggiore.
(Bill Watterson)
Punto di vista Rose
«Quindi non voleva farti uscire di casa? E sei scappata...» riassunse in poche parole Kolwin, guardandomi con un'aria di confusione mista a disapprovazione.
Annuì, stringendomi nelle spalle. Mia mamma mi aveva segregato in casa per tre giorni, ma una volta riuscita a scappare mi ero rifugiata a casa di Kolwin. Mi sentivo in colpa nei confronti della donna che, bene o male non stava a me giudicarlo, mi aveva cresciuto.
Provavo a mettermi nei suoi panni, nei panni di una giovane mamma che aveva appena perso un figlio e che, forse, si accorgeva solo ora del tempo sprecato, di tutti i momenti non vissuti che non avrebbe potuto recuperare.
«Non mi guardare così» sussurrai, senza guardarlo. Feci vagare il mio sguardo per la stanza, percorrendo con gli occhi il profilo della macchina dei vestiti appoggiata al muro. L'ultimo modello, con molta probabilità, ma non mi ci concentrai.
«Sarà preoccupatissima, te ne rendi conto?» mi domandò a quel punto il ragazzo, cercando il mio sguardo. Aveva un torno morbido, delicato, come se avesse paura di ferirmi solo con la voce. Ed effettivamente, mi percepivo anch'io così, fragile come mai mi ero sentita prima.
Annuì ancora, senza proferire parola. Che avrei dovuto dirgli? A casa, ognuno era chiuso nel suo dolore, nelle sue paure, ed era come se tutto il negativo si riversasse su di me, soffocandomi pian piano. Avevo bisogno di evadere, avevo bisogno di qualcuno che alleggerisse il peso sulle mie spalle e quel qualcuno era sempre stato Kolwin.
«RS?» provò a chiamarmi, con esitazione. Mi arresi e lo guardai, mordendomi un labbro per trattenere le lacrime e stringendomi nelle spalle. Mi sentivo male al pensiero che ora mia madre si stesse preoccupando per me, ma il pensiero di tornare a casa mi faceva, se possibile, stare ancora peggio.
Il ragazzo di fronte a me sospirò, prendendomi una mano fra le sue. «Facciamo così, mi ascolti? Ora ti calmi un attimo, riposi un po' e nel frattempo io chiamo tua madre, per avvertirla che sei qui, al sicuro. Va bene?» mi chiese, con il pollice che accarezzava con dolcezza il dorso della mano. Feci un segno d'assenso con il capo poi, presa da un impulso improvviso, lo abbracciai, affondando il capo sulla sua spalla.
Eravamo entrambi seduti sul letto, l'uno di fronte all'altro, e preso in contropiede cadde all'indietro, mentre mi circondava con le braccia, portandomi giù con lui. Rimanemmo così, non saprei per quanto, ma piansi a lungo, nascosta nella stoffa morbida del suo pigiama.
Fuori era già buio e la stanchezza cercava di trascinarmi nell'inscoscienza, complice anche l'abbraccio caldo del mio migliore amico, ostacolata solo dai pensieri che non mi lasciavano tregua.
Io ero sul punto di addormentarmi, ma AV cosa stava facendo? Soffriva, in quel momento? Mentre io mi rilassavo, fra le braccia di Kolwin, lui che stava subendo?
Qualcuno lo maltrattava? Mi sfuggì un singhiozzo, mentre il senso d'impotenza mi schiacciava il petto, più pesante di qualunque macigno.
Alla fine crollai nel sonno, accompagnata dalla voce di Kolwin che cantava una vecchia ninna nanna.
Il giorno dopo, mi svegliai nel suo letto. Lui non c'era, ma il posto caldo vicino al mio mi suggeriva che avesse dormito affianco a me fino a poco fa.
Mi alzai a sedere, stropicciandomi gli occhi. Mi sentivo stanca, come se non mi fossi appena svegliata, ma la voglia di dormire era scomparsa del tutto.
«Kolwin?» provai a chiamarlo, senza ottenere risposta. Mi alzai, sistemando le coperte con qualche gesto distratto, ed uscii in corridoio, chiedendomi che ore fossero. Non sembrava esserci anima viva in casa, ad eccezione della TV olografica che sentivo dal piano di sotto, quindi ne dedussi che i suoi genitori fossero già a lavoro e sua sorella a scuola, con molta probabilità.
Tirai dritta lungo il corridoio, salendo sulla piattaforma di teletrasporto che mi avrebbe portato al piano di sotto. Era un'infezione fresca, quella del teletrasporto, e per il momento poteva coprire solo distanze minime, come quelle da un piano all'altro. Senza contare che la piattaforma del teletrasporto costava davvero molto, infondo era l'ultima uscita, di conseguenza se ne vedevano davvero pochi in giro, per il momento.
Una volta al piano inferiore, attraversai il piccolo corridoio che mi si apriva davanti e arrivai nel soggiorno, dal quale si poteva vedere la cucina. Notai subito la figura di Kolwin alle prese con l'angolo cottura.
«Questo... coso oggi non funziona. È da mezz'ora che provo ad accenderlo!» borbottò il ragazzo, non appena si accorse della mia presenza.
Scossi la testa, divertita, e feci per entrare nella stanza, ma l'aggeggio incastonato nel muro prese a riprodurre uno strano rumore e poi fu come se esplodesse: ci fu un suono molto più forte, prolungato, e poi una nube di fumo si espanse nella cucina fino ad addentrarsi nel salotto.
Tossii, indietreggiando, ma il fumo sparì in fretta com'era arrivato. Io e Kolwin ci guardiamo in silenzio per qualche istante, poi entrambi scoppiammo in una sonora risata.
«Solo io potevo far saltare in aria l'angolo cottura appena comprato» mormorò infine, divertito, mentre alzava gli occhi al cielo come se non si capacitasse di quello che avesse appena combinato.
Il momento fu interrotto dalla porta, che prese a suonare, segno che c'era qualcuno fuori che aspettava di entrare. Kolwin mi guardò confuso per un istante «Sarà tua madre» decretò pensieroso e si diresse all'entrata, spostandosi col mojent che non mi ero accorta fosse sotto i suoi piedi.
Con comando della mano, fece smaterializzare la porta, rivelando la figura di un giovane uomo. Io ero rimasta in cucina e li osservavo dallo stipite della porta che collegava quest'ultima all'anticamera dov'era situato l'ingresso della casa.
L'uomo era vestito in modo elegante, con un parrucchino che a vista d'occhio era di sicuro di qualche casa di moda famosa. Non era umano, fu subito chiaro, perché per gli esseri umani coprirsi i capelli per essere eleganti era solo un gesto strano e inoltre gli occhi totalmente bianchi non lasciavano alcun dubbio.
«Come posso aiutarti?» domandò il mio amico, lanciando un sorriso cordiale in direzione dell'uomo, che però non ricambiò, rimanendo rigido anche nelle espressioni.
«Parlo con il signor. Smith?» domandò, evitando i convenevoli. Corrugai le sopracciglia, chiedendomi perché cercasse il patrigno di Kolwin.
Il padre biologico del ragazzo viveva a Nata, se n'era andato poco dopo che l'ex moglie si risposasse con il signor Smith, padre di Chels3l che di conseguenza era un'ibrida, come me.
«Il mio patrigno è al lavoro. Puoi parlare con me, gli riferirò che sei passato» gli rispose Kolwin, confuso anch'egli dalla presenza dello sconosciuto.
L'uomo si passò una mano sulla leggera barbetta che gli ricopriva il mento, abbassando il viso verso sull'ologramma che aveva proiettato sopra al polso. Borbottò qualcosa fra sé e sé, poi annuì e si rivolse di nuovo a Kolwin. «Chels3l Smith, ibrida di primo grado, è stata selezionata per la scuola di secondo ciclo di Nata» spiegò, facendo segno al ragazzo di fronte a sé di aprire il collegamento.
Il collegamento era un canale tramite il quale ci si poteva passare vari documenti, lettere e quant'altro. Ci veniva installato appena nati ed era vitale importanza per vivere nelle città, che basavano gran parte della comunicazione scritta priorio su di lui.
Kolwin premette il pollice sul polso sinistro e una lieve luce blu iniziò a lampeggiare. L'uomo selezionò qualcosa sull'ologramma, poi posò il suo polso su quello del ragazzo, ritirandolo quando udì una voce robotica dire: "Copia e trasferimento effettuati".
Pochi minuti dopo, la persona misteriosa era già andata via e io e Kolwin ci trovavamo in cucina, a discutere sui dischi.
«È troppo piccola per andarci» esordì il ragazzo, spezzando il silenzio che si era andato a creare. Si strofinò una mano sul viso e sbuffò, lanciando un'occhiata stizzita al suo collegamento.
Per quanto Chels3l potesse essere piccola, Kolwin sapeva bene quanto me che questa era un'occasione da non perdere. Ogni città aveva una singola scuola di secondo ciclo e la più importante era senza dubbio quella di Nata, dove annualmente venivano raccolti e formati i giovani talenti provenienti anche da Lesia e Nasia.
Non ero informata sulle modalità attraverso le quali si venisse scelti o su come si venisse informati di ciò, ma trovai quella situazione insolita. Mi ripromisi che mi sarei informata meglio, non appena ne avessi avuto l'occasione. Non in quel momento, di sicuro, perché Kolwin non sembrava propenso a continuare un discorso sull'argomento.
La telecronaca che andava in onda a quell'ora era un sottofondo rumoroso ai nostri pensieri. Captai le parole "attentato", "stadio", ma la mia attenzione fu catturata su quanto dicevano solo quando udii nominare gli Originali.
Ancora loro? Sospirai, appellandomi al dio Jaiwn, l'unico che poteva riportare un po' di felicità in quel periodo così negativo.
Angolo Autrice
Hello, people. Come ve la passate?
Mi dispiace immensamente per il ritardo enorme con cui arriva questo capitolo. Fra la revisione, la scuola e le attività pomeridiane non ho avuto il tempo di dedicarmi come si vede a questa storia, che per me è molto importante.
Voglio tornare a dedicarcimi con costanza, ma ho bisogno di voi. Se il capitolo vi è piaciuto, fatemelo sapere con una stellina e magari un commento, il vostro sostegno è la mia più grande forza di volontà.
A presto, spero.
- Engel
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