Capitolo Ottavo (2° parte): Cattura
Punto di vista Rose
I due uomini si avvicinarono con velocità allo sportello d'entrata del nostro veicolo, facendomi trasalire. Nell'abitacolo del guidatore c'era un'ulteriore porta scorrevole che portava ai posti di dietro, dove ci trovavamo noi, e mio padre si posizionò davanti al passaggio, pronto a un primo confronto con i due. Presi un respiro profondo, cercando di fermare il tremore delle mani, di impormi una tranquillità che in quel momento mi era del tutto sconosciuta.
Guardai Cotan, in piedi al mio fianco, con Nexra fra le braccia che sembrava essersi l'unica calma e in quel momento invidiai la sua mente da bambina: come noi, non sapeva cosa stava succedendo, ma la semplicità dei suoi pensieri le consentivano di non preoccuparsene. Sentivo la coppia di uomini discutere fra loro e la tensione per noi cresceva di secondo in secondo: dopo l'omicidio dell'anziano, avevo escluso del tutto l'ipotesi che potesse trattarsi di guardie civili. Ma allora chi erano?
Dopo una manciata di minuti, che a me sembrarono interminabili, la porta scorrevole finalmente si aprì, mostrandoci le figure degli uomini in divisa. Feci un passo indietro, sentendo un nodo di ansia stringermi la gola. Smisi di respirare, osservando quelle figure che mi parevano così minacciose, come se avessi avuto paura che un minimo movimento potesse scatenare la loro ira.
«Mostrateci i documenti d'identità» fu la prima cosa che ci ordinò quello dai capelli blu scuro, il più alto, fissando mio padre con sguardo che esprimeva quasi indifferenza per la situazione surreale che stavano creando. La sua voce era quanto di più normale mi potessi immaginare e questo mi stupii. in modo inconscio, avevo immaginato che tutto di lui apparisse mostruoso, come la freddezza con cui avevano ucciso e si era liberati del traghettatore.
Mio padre fu il primo ad alzare il polso, per permettere il contatto con il suo collegamento. L'uomo che poco prima aveva parlato ci strisciò, di collegamento, in fretta, poi annuì in direzione del suo compare. Dopo di lui, fu il turno di mia madre, che era stata così silenziosa per tutto il tempo che mi ero quasi dimenticata fosse anche lei lì con noi. Mi sembrava di essere sul punto di esplodere, sentivo un tumulto di emozioni negative che si combattevano dentro di me per avere il sopravvento e uscire: ma quella che vinceva su tutte era la paura, che mi teneva paralizzata, con gli occhi che quasi uscivano dalle loro orbite e seguivano in modo vigile tutti i movimenti delle persone che avevo davanti.
Dopo aver controllato i documenti di mia madre l'uomo alto si irriggidì per un istante, poi torno impassibile e fece un passo indietro dopo aver guardato di nuovo in direzione dell'altro individuo in divisa. «Siete i genitori dei ragazzi?» domandò, prendendo parola ancora una volta, mentre il compagno armeggiava con il suo contatto olografico, a cui stava dedicando un'attenzione quasi maniacale.
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Mio padre si passò una mano fra i capelli, esitando per un attimo prima di rispondere in modo affermativo. Lanciai un'occhiata a Nexra, ma non dissi nulla: se lui non ne aveva fatto parola, non l'avrei fatto neanche io. Nascosi le mani, che non aveva smesso di tremare, dietro la schiena e una lacrima mi scese lungo la guancia: c'era un'opprimente sensazione di terrore che mi schiacciava il petto, come a volermi mettere in guardia da quello che sarebbe accaduto da lì a qualche minuto.
L'uomo che aveva ucciso il traghettatore passò lo sguardo su ognuno di noi e l'unica cosa che lessi nella sua espressione fu il disprezzo. <<Opporre resistenza non vi sarà utile>> si limitò a dire, poi lanciò un'occhiata al collega che annuì, come se si fossero detti qualcosa con lo sguardo.
Alzò la manica della giacca, mostrandoci l'arma con cui aveva perso la vita l'anziano. Era una di quelle pistole che si vedevano solo nei film, quelle che venivano installate nel braccio e che diventano tutt'uno con il corpo di chi le usava. Nella realtà nessuno arrivava a tanto e mi chiesi con orrore chi fossero quelle persone. Guardai l'arma con gli occhi spalancati, sentendo la paura che mi scorreva nelle vene e mi faceva tremare gli arti.
Uno dei due uomini uscì dalla stanza, l'alto non abbassò lo sguardo mentre infilava una mano nella giacca, forse alla ricerca di qualcosa. Seguii ogni suo movimento con la vista, notando a malapena Cotan che mi si faceva più vicino, ancora con la bambina fra le braccia. Volevo voltarmi a guardare mia madre, ma il mio istinto mi imponeva di non distogliere gli occhi dalla figura in divisa, quasi come se guardandolo potessi impedirgli di fare... di fare cosa? Mi morsi un labbro, rendendomi conto che non sapevo neanche cosa sarebbe successo da lì a pochi minuti. Anche il mio futuro più prossimo era un'incognita e quella pistola puntata verso di noi ci impediva di fare una qualsiasi mossa che potesse cambiare le sorti di quella situazione.
Quello che successe dopo fu inaspettato. Mio padre fece per lanciarsi contro l'uomo, che estrasse con velocità quello che aveva cercato fino a quel momento e lo lanciò verso di lui. Ci fu un botto, mi coprii d'istinto il volto con le mani, con il cuore che mi batteva così forte che sembrava stesse per abbattermi a colpi a gabbia toracica, e iniziai a tossire. Mi piegai su me stessa, cercando di sfuggire alla nube che ci stava avvolgendo, mi portai una mano alla gola annaspando in cerca d'aria e il fumo mi fece bruciare gli occhi.
Mi aggrappai a mio fratello con la mano libera, provai a urlare e quella fu l'ultima cosa che vidi prima di sbattere la testa al suolo e perdere coscienza.
La prima cosa che sentii quando mi svegliai fu l'odore pestilenziale di escrementi. Avevo le palpebre pesanti, ma mi sforzai per aprire gli occhi, che richiusi all'istante. Mi portai una mano alla testa mentre mi mettevo seduta, con la schiena poggiata a una parete che intuii subito essere di pietra, a causa della superficie irregolare che mi pungeva la schiena.
«Oh, magnifico, ti sei svegliata. Buonasera, bella addormentata»
Sobbalzai e mi voltai a guardare, con gli occhi socchiusi, la persona che mi aveva parlato. Misi a fuoco una chioma castana e un paio di occhi marroni che mi fissavano con un'aria che a prima impatto avrei definito esasperata. La testa mi martellava, quindi strinsi le palpebre, con un sospiro.
«Ah, giusto. Forse non sai neanche chi è la Bella Addormentata, vero?» mi domandò ancora quella voce sconosciuta, poi udii un colpo di tosse. «Ehi, la ragazzina si è svegliata, contento? Amico?» Ci fu una pausa e dentro di me sperai davvero che non avrebbe più aperto bocca, la sua voce in quel momento mi sembrava così fastidiosa. «Dormire è un vizio di famiglia, a quanto pare» aggiunse qualche secondo dopo con una risatina.
«Riesci a stare due minuti zitto?» dissi, prima che potessi davvero pensare di farlo. Riaprii gli occhi, ringraziando il cielo che il dolore alla testa si stesse calmando abbastanza in fretta. Magari se quel ragazzo fosse stato anche solo un minuto in silenzio mi sarei messa ringraziare gli Dei.
Incontrai i suoi occhi e lo guardai mentre se ne stava seduto a sua volta con la schiena curva, cercando di capire con chi avessi a che fare. Scossi la testa, lui non era una priorità. La consapevolezza di non sapere neanche dove fossi mi colpì, facendomi scattare in piedi. Rischiai di cadere, mi feci forza appoggiandomi al muro e analizzai con attenzione quel posto che puzzava come una fossa comune. Era uno spazio angusto, se io e quel ragazzo ci fossimo seduti con la schiena contro il muro e avessimo steso le gambe i nostri piedi non si sarebbero toccati forse solo per pochi centimetri.
«Il dolore per quella roba dura pochi minuti, se può consolarti» disse e tornai a voltarmi nella sua direzione.
«"Quella roba"?» domandai, cercando di ricostruire gli eventi che mi avevano portato a essere dove ero in quel momento. Cercai di ricordare, ma la mia testa sembrava piena di una coltre di nuvole che offuscava e nascondeva i miei ricordi. Con chi ero prima di arrivare qui? Cosa stavo facendo?
A poco a poco, ricostruii quello che era accaduto. La partenza, il fratello di Nexra che piangeva, Cotan, l'uomo morto... E poi cos'altro?
«Hai visto una bambina?» dissi e lui mi rivolse un'espressione confusa. Feci un passo avanti, verso di lui, d'istinto «Intendo, quando sono arrivata qui, c'era una bambina con me?» mi spiegai meglio, sentendo un senso d'ansia crescermi dentro. Mi avvicinai alle sbarre della cella, che correvano solo per la lunghezza di una porta, affiancate dalle pareti che completavano la lunghezza della stanza angusta. Qualcuno di grossa costituzione forse non sarebbe riuscito a entrare neanche senza sbarre.
«Non c'era nessuna bambina» rispose lui.
E quello bastò a farmi cadere nel panico più completo.
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