Parte 2
I mercatini natalizi di Gendarmenmarkt brulicavano di turisti e berlinesi. Nella piazza, incastonata tra due chiese e il Konzerthaus, sala dedicata ai concerti di musica classica, i venditori mostravano merce di tutti i tipi, dai classici addobbi natalizi ai ciocchi di legna da ardere nel camino. Non mancavano presepi a grandezza naturale e persino banchi che vendevano gelati.
Tra le classiche casette di legno spuntavano svettanti le cupole delle due chiese e la statua dedicata al poeta Schiller.
Giulio inspirò il profumo del vin brulè. La cannella, i chiodi di garofano e la scorza di arancia gli infondevano tranquillità, e dio sapeva se ne aveva bisogno.
«Vuoi?» Niccolò gli mise sotto il naso il suo currywurst, wurstel di vitello affogato nella salsa speziata.
Lui lo allontanò con la mano. «No, piuttosto facciamo presto».
«Siamo appena arrivati». Sulla fronte di Niccolò apparve la solita ruga longitudinale che rivelava la sua impazienza.
«Che ne dici di questi?» Giulio indicò una serie di pupazzi di marzapane.
«Pensavo a qualcosa di più permanente, che non venga azzannato dai nostri amici».
Camminarono lungo le bancarelle. Giulio provò a interessarsi a qualche decoro, a qualsiasi pupazzo o pallina che lo distraesse dal messaggio che aspettava. Intanto le nuvole si erano tinte di viola e le luminarie baluginavano nel cielo che si imbruniva.
«Mi dai l'ultimo sorso di vino?», gli domandò Niccolò.
«Perché non te lo compri, che palle», sibilò Giulio. Si pentì subito della sua risposta brusca e gli passò il bicchiere. Doveva calmarsi.
Niccolò si limitò a rivolgergli uno sguardo sbieco e a bere quello che rimaneva del vin brulè. Poi si rianimò, attratto dalle mele caramellate e al cioccolato. Giulio ne approfittò per controllare il telefono, la mano tremò. Come era possibile che non si fosse accorto della vibrazione?
Non era sorpreso del contenuto del messaggio inviato da sua madre, ma fino all'ultimo si era illuso che lei e suo padre potessero cambiare idea. Aveva invitato entrambi a trascorrere il Natale a Berlino, ma lei tentennava. Sai, il viaggio. Tua sorella avrà bisogno di aiuto con il bambino. Lo conosci tuo padre, ha paura dell'aereo.
Tutte spiegazioni logiche, ma che avevano il sapore rancido delle scuse. Suo padre non aveva paura di prendere l'aereo per andare in Salento e risparmiarsi lunghe ore di treno o di auto. Il viaggio lo avrebbe pagato Giulio, se il problema fossero stati i soldi. Sua sorella aveva una suocera dolce e disponibile che l'avrebbe aiutata con il bambino, inoltre erano stati da lei già lo scorso Natale. Perché da lui non venivano mai? Il perché lo sapeva, ma preferiva non dirselo.
Rimise in tasca il telefono e raggiunse Niccolò, che sorrideva come un bambino.
«Guarda, amore», gli disse il suo ragazzo, con l'espressione entusiasta che lo rendeva irresistibile, ma che a lui stava dando sui nervi. Indicava le mele ricoperte di cioccolato. «Le prendiamo?»
«Dobbiamo andare, mi è venuto in mente che devo aggiornare la bibliografia della tesi».
La mano di Niccolò rimase sospesa a mezz'aria. «Stai scherzando? Non credo che se lo fai stasera cascherà il mondo».
«Non lo credi perché non riesci mai a metterti nei miei panni», disse Giulio. L'acidità delle sue parole gli bruciava la bocca, ma questa volta non era riuscito a mettere un freno al suo risentimento.
Il suo tono di voce si era guadagnato l'attenzione di qualche turista, mentre il venditore di dolci fingeva di occuparsi dell'esposizione della merce.
Tra i due ragazzi calò un teso silenzio, interrotto da una serie di trilli. Era la suoneria di Niccolò. Giulio aveva notato che ultimamente l'altro passava più tempo del solito al telefono, ma il suo risentimento non dipendeva solo da quello. Non pensava che Niccolò avesse un amante, ma era abituato al suo lasciarsi coinvolgere dagli amici, vecchi e nuovi, che attirava come i krapfen ripieni di confettura attiravano i bambini. Si sentiva trascurato, e in colpa per quel sentimento, in un circolo vizioso che gli ultimi eventi avevano acuito.
«Rispondi, io me ne vado a casa», disse, e si voltò senza neanche dargli il tempo di reagire.
La casa che avevano affittato con la speranza di acquistarla lo attendeva come un porto sicuro. Era un loft nel cuore del quartiere di Schöneberg. Un attico, le cui pareti con mattoni a vista lo facevano apparire stravagante, una sorta di ambiente industriale trasformato in abitazione. Un po' freddo, forse, ma i mobili dai colori caldi e i quadri astratti regalavano al posto un po' di anima.
Giulio sprofondò sul divano. Il suo portatile era lontano e lui non aveva intenzione di alzarsi per prenderlo. D'altro lato la bibliografia della tesi era solo una scusa per tornarsene a casa e non dover parlare a Niccolò dell'ennesima delusione che i suoi genitori gli avevano dato.
Gli addobbi natalizi, seppur pochi, gli misero tristezza. I suoi genitori non erano mai venuti di persona a vedere la casa dove si era sistemato, e anche quest'anno Giulio doveva accettare la realtà: sebbene non gli avessero mai rivolto parole omofobe, a loro non andava bene avere un figlio gay.
Non gli avevano fatto scenate quando, due anni prima, Giulio aveva rivelato che Niccolò non era un semplice amico, ma non poteva ignorare il fatto che da quel momento i loro rapporti si erano raffreddati. Avrebbe preferito da parte loro rabbia piuttosto che indifferenza.
Dopo il coming out non c'erano state grandi parole, se non per esprimere una costernazione che dimostrava quanto la notizia fosse inaspettata. Al principio Giulio aveva pensato che la loro vita abitudinaria, scandita da rigidi orari – la mamma era insegnante, il papà impiegato nella pubblica amministrazione – avesse contribuito a creare una sorta di timore. Magari, si diceva, la sua omosessualità era un qualcosa che non si aspettavano e come tale andava digerita per entrare nell'oliato meccanismo della famiglia. Ma erano passati due anni. Della cosa non avevano fatto più parola, a Berlino non erano mai venuti, a stento chiedevano notizie di Niccolò.
Il cigolio dei cardini della porta d'ingresso lo riscosse. Non si era accorto che fosse passato tanto tempo. Il cielo si era ormai del tutto scurito e le luci della strada si intravedevano attraverso la tenda.
Niccolò lasciò cadere sul pavimento un cartone con un tonfo sordo. «Ho pensato di scegliere da solo qualche addobbo, tanto a te non interessa».
Si liberò della sciarpa e del cappotto, e sedette a terra. Con le sue dita eleganti e sottili cominciò a scartare le palline e i festoni dalle loro confezioni. Era infuriato. Giulio poteva dirlo dal modo in cui non lo stava degnando di uno sguardo.
«Hai fatto presto ad aggiornare la bibliografia», aggiunse Niccolò, poi sembrò volersi immergere ancora nell'operazione addobbi, ma qualcosa gli fece cambiare idea.
Sollevò la testa e puntò le sue iridi scure in quelle oliva di Giulio. «Mi spieghi che cazzo ti succede? E non dirmi che è per la tesi, perché non sono un idiota e so benissimo che non c'entra nulla, non a tal punto da farti passare la voglia di festeggiare il Natale con me».
«I miei genitori non vengono neanche quest'anno, c'era davvero bisogno che te lo dicessi?», gli sputò in faccia.
«Vuoi che ti legga nel pensiero adesso? Cosa c'è di sorprendente? Non sono venuti lo scorso Natale, non sono venuti a Pasqua, non sono venuti per il tuo compleanno. Cosa vuoi che faccia?»
Giulio graffiò la tappezzeria del divano. Era questo che gli dava sui nervi: secondo Niccolò avrebbe dovuto rassegnarsi, accettare il rifiuto dei suoi genitori e considerarsi già abbastanza fortunato a non essere stato attaccato verbalmente o fisicamente. Lo faceva sentire come se i suoi sentimenti non contassero, ma la predica veniva dall'altare sbagliato, dato che i genitori di Niccolò, invece, avevano accettato tutto con entusiasmo, erano venuti a Berlino più volte e volevano bene a Giulio come se fosse stato un figlio.
«Vorrei che mi capissi».
«Ti capisco, ma non fino al punto da accettare che questa cosa ci rovini le feste».
«Mi dispiace, immagino che tu abbia già un programma fitto da rispettare messo a punto con i tuoi amici, la metà dei quali conosci da un mese, e che per te io sia solo una palla al piede».
Niccolò lasciò andare un festone, che ricadde leggero sugli altri adagiati nel cartone. «Bene, vuoi sfogarti con me: va' avanti, sono qui che ascolto le tue recriminazioni».
La lama del senso di colpa lo squarciò. Era ingiusto? Ma perché Niccolò pretendeva che lui facesse finta di niente? Lasciò cadere le mani su un cuscino. «Mi dispiace, okay, ma non riesco a fingere allegria. Oggi mia madre mi ha mandato un messaggio e mi ha fatto capire che non verranno. Ha usato le solite scuse, in più pare che preferisca passare il Natale con il suo nipotino», disse, e si sentì ridicolo perché, diamine, non poteva essere geloso di un bambino a cui voleva bene da morire e che era suo nipote.
Niccolò riprese a scartare le palline, ma non distolse lo sguardo. «Se e quando avremo un bambino non sarà per fare concorrenza a tua sorella». Le sue labbra si incresparono in un accenno di sorriso, come il pelo di uno stagno accarezzato da un vento debole.
«Pianifichi di stare con me a lungo?»
Niccolò lo raggiunse sul divano e gli accarezzò il volto. Le luci morbide delle lampade ombreggiavano i suoi zigomi e sottolineavano la forma delle sue labbra piene.
Giulio avrebbe voluto dimenticare la delusone, la tesi, il messaggio di sua madre. Ma non ci riusciva. Non c'era un interruttore da poter schiacciare per farsi assalire dallo spirito natalizio. Niccolò tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un sacchetto di plastica. I biscotti che esso conteneva erano a forma di stelle, renne, campane e profumavano di mandorla, cannella, cardamomo. I bambini li amavano e per loro rappresentavano il Natale che si avvicinava. Era stato uno dei primi dolci tipici che avevano scoperto quando si erano trasferiti a Berlino il primo anno, ma a quel tempo Giulio era ancora animato dalla speranza di cambiare le cose con la sua famiglia.
«Ho pensato a te, anche se sei stato cattivo», disse Niccolò, mettendone uno sotto il suo naso.
Lui lo addentò, poi assaporò con le spezie il bacio di Niccolò, sentì la sua mano che si insinuava sotto il maglione, le dita calde, le labbra che si spostavano sul collo per poi risalire sul lobo.
Niccolò era pratico in tutto, anche nell'idea che questo bastasse a risollevargli l'umore. Forse, in fin dei conti, era lui ad avere torto: che gli costava provarci?
«A proposito della cena di Natale, devo dirti una cosa», sussurrò Niccolò.
«Cosa?» Iniziava a sentire il suo profumo, l'effetto inebriante del muschio bianco e della sua pelle.
«I miei genitori saranno nostri ospiti».
Giulio si sentì gelare. Affondò le dita nelle spalle dell'altro. Bel modo per farlo rilassare. Avevano appena parlato di quanto lui stesse male per il rifiuto della famiglia e Niccolò gli diceva questo? Avrebbe almeno potuto aspettare un altro momento.
«Basta», disse, allontanandolo.
Sul volto di Niccolò si dipinse un'espressione talmente stupita che in un'altra circostanza Giulio l'avrebbe trovata divertente.
Si passò le mani tra i capelli castani e reclinò la testa sulla spalliera del divano. «Non è davvero giornata».
«Aggiungerò la mia famiglia all'elenco di cose da non nominare». Niccolò scosse la testa. «Certe volte non so come prenderti».
«Per me è difficile accettare la reazione dei miei genitori, la loro indifferenza».
«Lo so».
«Non credo tu capisca quanto».
«Solo perché i miei non hanno fatto problemi e non sono omofobi trogloditi non significa che sia un insensibile».
Giulio balzò in piedi. «Hai proprio ragione: tu non sei un insensibile, sei uno stronzo insensibile».
«Cazzo, aspetta». Sul viso di Niccolò apparve l'ombra del pentimento, tentò di trattenerlo.
Giulio non aveva voglia di prendere la sua mano, di ascoltare le sue scuse. Era troppo sensibile? Troppo esigente? No, era solo un ragazzo che cercava conforto dal suo fidanzato e l'ultima cosa di cui aveva bisogno era sentirlo parlar male dei suoi genitori.
Si svestì e si infilò sotto le coperte. Quando Niccolò scivolò al suo fianco, finse di dormire.
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