23. Invitto

Caius era un gladiatore. Uno dei più bravi che avessero mai toccato la sabbia dell'arena, in effetti.

Caius era l'invitto. Così veniva chiamato, così veniva acclamato dalla folla.

Invitto. Invitto. Invitto.

Caius godeva di quelle attenzioni, dell'amore che la folla provava per lui.

Caius era l'invitto e in quanto tale aveva un corteo di donne che lo volevano e che lo amavano.

Caius era l'invitto finché non tornava nella sua umile dimora. Poi la porta veniva chiusa e Caius si buttava tra le sue braccia. Tra le braccia di Giulius, teoricamente suo schiavo, in realtà suo amante.

L'unico che avesse mai visto l'invitto in altri modi al di fuori del fiero lottatore.

L'unico che lo avesse mai visto piangere, o arrabbiarsi.

L'unico che lo avesse mai visto essere umano come gli altri.

In quei momenti lui non era più invincibile. Era fragile, perché così lo rendeva l' amore per quel giovane uomo che non doveva avere più di cinque anni in meno di lui. E soprattutto era con lui che Caius lasciava che qualcuno lo battesse, lo sottomettesse.

Solo Giulius aveva quell'onore, e se dovevano essere entrambi franchi ne erano ben felici che fosse così.

Caius non sarebbe più stato l'invitto solo se Giulius non ci fosse più stato nella sua vita, o forse avrebbe lottato con più vigore in suo onore, ma questo la gente non doveva saperlo. Non lo avrebbe mai saputo.

Era un segreto tra Caius e Giulius.

La folla avrebbe visto solo l'invitto. L'imbattuto.

-

La mia tastiera si è intestardita a scrivere invito invece di invitto (ora invitato) e la cosa mi fa girare le scatole.

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