Capitolo 2
Avevi detto che mi avresti salutata un'ultima volta. Quel giorno non c'erano stati momenti di silenzio fra di noi, eppure io il silenzio lo percepivo. Uno strato melmoso che fluiva dal mio petto al tuo, un'entità che restava sospesa fra di noi. Nel corso dei mesi avevamo dimenticato la cifra della nostra comunicazione, avremmo imparato solo a chiederci "Come stai?", "Be', ti vedo in forma", e una quantità immane di parole vuote che galleggiavano in aria e si dissolvevano. Restava così il silenzio. È così che ti ho persa. Quando è diventato troppo fino ad esplodere.
Fino a lasciare me. Me senza di te. Sono ripetitiva? Ma è così che mi sento, le tue scuse per la tua assenza rimbalzano da una parete all'altra della mia testa, scivolano giù nella trachea, si insinuano nei polmoni, si diffondono ed espandono fino ad avvolgere lo stomaco, stritolare il cuore. Tossisco quando ciò accade, le extrasistole mi mangiano viva, mi tiene in ostaggio non la paura di morire, ma di farlo senza di te. Penso a come ti sentiresti e il senso di colpa sfama la mia angoscia: non voglio essere un peso per te, non dopo quello che è successo con Ren.
Mi dispiace, mi hai detto. Ma ora cosa mi è rimasto, se non questa memoria marchiata a fuoco sul mio corpo?
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Una volta giunte a destinazione sei scomparsa. Dissolta nel nulla, come se fossi stata un lungo miraggio per tenermi impegnata durante le sette estenuanti ore di viaggio. Avrei già dovuto capire allora l'antifona e la sensazione che la tua assenza, seppure ci conoscessimo da appena qualche ora, mi aveva lasciato.
Avevo la sensazione di aver perso la possibilità di rispecchiarmi in qualcuno di così familiare, seppur estraneo, con la stessa rapidità con cui perdevo i pezzi di me nelle case degli uomini con cui facevo l'amore.
Shoji mi vide ma non mi venne incontro, fui io a correre nella sua direzione, ad affondare nel profumo familiare di cui era pregno il suo maglione di lana.
"Mai che indossassi quelli che ti regalo io, eh?" gli chiesi, le lacrime – di commozione o di sconforto – sigillate dietro i miei occhi, mentre gli pizzicavo l'indumento con due dita.
Lui rise ma non rispose, deviò l'attenzione su quanto fosse stanco, la mano a ventaglio per tirare il ciuffo castano all'indietro, un tic che non avrebbe mai perso. Nel tragitto verso casa non mi chiese niente su come fosse andato il viaggio e io, naso schiacciato contro il finestrino dell'auto a noleggio, ascoltavo il fiume delle sue lamentele sul lavoro part-time nel ristorante giapponese in cui lavorava, su quanto stesse andando a rilento all'università, "ma mi ascolti?", mi chiedeva di tanto in tanto, punto dalla mia distrazione, dal mio desiderio di autoconservazione, di difendermi che al tempo scambiavo per amore incondizionato. "Certo che ti ascolto. Se non ti guardo non significa che non mi funzionino le orecchie" ribattevo col sorriso, i palazzi illuminati che sfrecciavano davanti ai miei occhi.
"Ti piace Milano?" chiesi allora, forse a riconferma del fatto che i nostri pensieri sfrecciassero su binari diversi. Opposti.
Shoji sbuffò, una risata sarcastica proruppe dalle sue labbra "Bo', sì? È una metropoli come tutte le altre."
Io annuii, mentre sullo sfondo della città si levavano le parole di Nana. Le avevo posto la stessa domanda, il mento poggiato sul palmo della mano, gomito contro gomito, solo per poi rendermi conto che quell'unica frase aveva avuto il potere di far precipitare l'umore della conversazione. Come se le avessi chiesto di raccontarmi di una vecchia conoscenza che si amareggiava di aver perso.
"Milano è come una donna, una bellissima donna a cui è stato fatto del male.", aveva iniziato, facendo oscillare la sigaretta spenta fra le dita. "Una donna che è stata abusata e ora è stesa nuda e ferita al parco dietro casa. Riesci a immaginartela? Come quelle storie allucinanti che sentiamo ogni giorno al TG. Ecco, qualcosa del genere. Una donna che però è ancora viva, il cuore le batte nonostante le dita scorticate, i denti tutti rotti e i lividi sugli occhi."
Io la guardavo parlare, coccolata da quella favola raccapricciante che aveva raccontato più e più volte a sé stessa, registrando con morbosa attenzione le sue parole.
"Lei resta lì e tutti vanno da lei a reclamare qualcosa. E lo fanno nel modo più rude, violento e brutale che ci si possa aspettare. Le mordono la carne e pensano che sia la carne più deliziosa mai assaggiata. Finché non arriverà il giorno in cui Milano collasserà, e tutti si ritroveranno a scambiarsi occhiate confuse e a chiedersi come sia successo."
Allora mi aveva guardata negli occhi, due iridi giganti e nere, un abisso di sconforto in cui tentai di cogliere i punti di contatto con la sua persona. "Ecco cos'è per me Milano".
"Chiaro", risposi a Shoji debolmente, guardando le curve frastagliate della donna oltre il finestrino, tetti squadrati di hotel, ristoranti, banche ed esercizi commerciali. Il corpo rinsecchito di una creatura che soffre. Un albero di tanto in tanto, come a dire "Ora puoi respirare. Questa è la tua flebo d'aria. Prendine poca, il giusto, non strafare!"
Con gli stessi occhi di Nana vidi in Milano una sorella, una madre, qualcuno di simile a me. E mi piacque.
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L'auto si fermò su una strada desolata, illuminata solo da qualche lampione che bagnava di una luce calda l'asfalto.
"Scendi qui, il palazzo è quello" disse Shoji indicando un portoncino sopra un gradino di marmo scuro. "Io parcheggio un attimo."
"Ah" afferrai la borsa di pelle marrone e iniziai a frugare al suo interno, "Dammi un secondo che vorrei pagare io la tratta e..."
"Lascia perdere" mi interruppe senza guardarmi, il suo occhio destro oscurato dall'ombra del ciuffo a tal punto da diventare nero. "Non tieni un euro, fai fare a me, non mi perdo per qualche spiccio."
"Be', manco io" risposi accigliata, percependo le spalle sollevarsi, rigida contro la seduta.
"Sì, sì, okay, ora puoi scendere per favore? Tieni" iniziò, aprendo il cruscotto e porgendomi delle chiavi appese a un laccio usurato che terminava con un pallone da calcio di plastica. "inizia a salire, terzo piano senza ascensore, prima porta a sinistra. Così ti sistemi e ti rilassi anche, che ti vedo nervosetta."
Mi guardò solo in quel momento, perché con Shoji era così: gli bastava avere l'ultima parola per crogiolarsi nel compiacimento dell'avermi messa a posto, una bambina capricciosa bacchettata sempre sullo stesso nervo scoperto.
Mi sentii accaldata, stretta in un groviglio di muscoli tesi, ma la mia energia fu canalizzata solo nel gesto di afferrare le chiavi e sbattere la portiera, gli occhi puntati verso il portone mentre ignoravo i rimproveri per gli eventuali danni della macchina a noleggio e per la valigia lasciata nell'auto.
Impiegai un paio di minuti per infilare tutte le chiavi del mazzo nella toppa della serratura, finché al nono tentativo non riuscii a individuare quella giusta. L'odore di ammoniaca del palazzo mi investì, arricciai il naso e proseguii oltre lo zerbino e le scale che conducevano verso il terzo piano, la mano che scivolava lungo il tubo di ferro del montascale. Giunta a destinazione mi parai davanti alla porta in questione, all'apparenza non particolarmente robusta e di un legno mielato. Senza esitare oltre infilai la chiave indicatami e fui dentro.
L'ambiente del monolocale era umido, un odore di curry permeava l'aria, sul fondo percepivo una nota amara. Attraversai il corridoio striminzito alla cieca, giacche, cappotti, scarpe e scatoloni Amazon intralciavano il passaggio verso le due stanze che seguivano la planimetria in una struttura a T: sulla destra c'era una camera da letto in cui un letto matrimoniale occupava gran parte della stanza, con un bagnetto annesso tutto doccia e poca superficie calpestabile, e sulla sinistra la cucina, anch'essa piccola quanto bastava per inserire giusto un tavolino sul quale mangiare, un divanetto rosso sul quale emergevano due grandi aloni grigi e quattro sedie di legno.
Per la prima volta mi resi davvero conto di dove mi trovassi e cosa avrei vissuto da quel momento in poi. I racconti di Shoji presero forma in un disagio che mi fece sentire piccola, smarrita e ingenua. E fu proprio quel disagio a condurmi di gran fretta verso la porta di casa quando sentii la chiave ruotare nella serratura.
Il bisogno viscerale di sentirmi incastrata nel corpo di qualcuno a me familiare mi portò a spogliare rapidamente Shoji del cappotto, ad accogliere il suo "Famelica eh? Che porca che sei, Nana" nascondendolo in un antro remoto del mio cervello, solo per la fretta di sentire il mio seno sul suo petto, le dita a tirarmi i capelli per esporre la gola, il dolore della penetrazione grattarmi da dentro che mi riportava alla vita, nel mio corpo, infestando ogni parte di me con la sua presenza per reprimere ogni impossibile vulnerabilità.
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