Capitolo 1

Solastalgia. La nostalgia di casa che si prova quando si è ancora lì. C'è chi l'ha classificata persino come malattia, un po' come la melanconia. μέλας «nero» e χολή «bile».
Mi sentivo così quando ero con te, Nana. Ti guardavo e provavo una nostalgia di te così intensa da farmi lacrimare di notte, da portarmi a stritolarti nella morsa delle mie braccia, assillata dal terrore di perderti, dalla convinzione che la profezia si sarebbe avverata ancora e ancora, tapparelle abbassate e un cuore di calore in un letto striminzito.

Un quartiere isolato che aveva accolto due isolate sole emarginate come noi. E quando quelle notti ti stringevo, dita a formare ragni di ossa, fronte contro fronte, io pensavo solo che fosse tutto perfetto. E che lo sarebbe stato per sempre, se tu non te ne fossi mai andata. Un equilibrio precario che impiegava tutte le sue forze per restare intatto. Che fatica, no? Ma ci abbiamo provato, ci abbiamo provato davvero. E alla fine è successo. E sono rimasta solo io.

Tu dimentichi in fretta, Nana.

Io vivo affinché le persone non si dimentichino di me.

Ma alla fine lo fanno tutti.

E così anche tu.

E resto solo io.

Io senza di te.

Io.
-

Il giorno in cui ti ho incontrata era gelido come il giorno in cui ti ho persa.

La rigidità dell'inverno era piombata sull'Italia con la stessa severità di una bacchetta sulle nocche, aveva colpito i campi che scivolavano oltre il finestrino del treno, sollevando la brina come un lenzuolo che aveva ghiacciato tutto. Novembre era giunto con la stessa grinta e rabbia che avevi tu, spazzando via ogni dubbio sul caldo strascico autunnale che aveva infestato Napoli per oltre tre mesi. Un'estate che non si decideva a rassegnarsi.

Ero in viaggio da quasi due ore eppure sembrava che il tempo si stesse dilatando inesorabilmente. Il sole si era spento dietro le montagne laziali e non c'era alcuna possibilità di distrarmi guardando il paesaggio. Lanciai uno sguardo all'orologio: 17.30. Accavallai le gambe e lasciai andare il capo sul poggiatesta mentre seguivo con lo sguardo il cielo scurirsi sempre di più. Mi massaggiai le dita, pizzicai i polpastrelli, guardai i miei piedi oscillare nervosamente su e giù, su e giù, qualunque cosa pur di ingannare il tempo.

Ricliccai il tasto di blocco: 17.31.

"Dio mio!" strillai sbattendo i tacchi degli stivali a terra, catalizzando l'attenzione di alcuni sguardi curiosi. L'istinto dettò legge e mi portai una mano a coppa sul viso, come se potesse bastare a schermare il giudizio altrui. Ben presto la Dea Bendata venne in mio soccorso, perché proprio in quel momento mi giunse alle orecchie il rumore sordo di passi pesanti. Mi voltai solo quando avvertii che la persona in questione si fosse fermata in corrispondenza del mio posto.

Due occhi bui come l'inchiostro che aveva inglobato il treno si posarono su di me e non potei far altro che stringermi nelle spalle, facendomi più piccola verso il finestrino. Un odore di tabacco serpeggiò nell'aria fino a pungermi il naso.

Tutto in te si faceva gigante quando eri fra la gente.

Tutto in te si rimpiccioliva quando eri da sola.

"Posso aiutarti?" le chiesi allora, intimorita dal modo in cui mi squadrava, chitarra in spalla e capelli corvini tagliati sopra le guance, il capo appena inclinato a lasciare scoperta una sigaretta infilata sopra l'orecchio.

Non rispose e si sedette, poggiando la chitarra fra le sue gambe e infilandosi la sigaretta fra le labbra.

La guardai attonita: pensai che no, non poteva star davvero accendendo una sigaretta in mezzo al vagone, e che se l'avesse fatto sarebbe sicuramente scoppiato l'allarme antincendio e il treno si sarebbe fermato e ci avrebbero fatto scendere e così via. L'elenco di conseguenze negative che si stavano prefigurando nella mia mente andava ad allungarsi sempre di più. La situazione non migliorò quando Nana si voltò verso di me, simulando un sorriso sghembo che avrei imparato col tempo fosse parte dell'arsenale delle sue espressioni sarcastiche.

"Non ti preoccupare, non accenderò la sigaretta, se è quello che ti sta facendo agitare..."

Mi sentii punta da quell'affermazione e drizzai la schiena "Cosa ti fa pensare che sia preoccupata per una cosa del genere?".

"Perché mi stai fissando, e poi fissi la sigaretta, e poi ancora me, e poi la sigaretta". Il suo sguardo cadde sulle mie dita e poi di nuovo sul mio viso, e sentii di nuovo il mio corpo accartocciarsi sotto il suo peso. "Vuoi forse dire che non è così?"

Il motivo per cui mi sentissi così vulnerabile l'avrei capito col tempo, come ogni cosa sul rapporto mio e di Nana, ma in quel momento percepivo chiaramente ogni pezzo della mia autostima tremare di fronte a quella sicurezza ostentata che disprezzavo e invidiavo al contempo.

"Mi piace semplicemente tenerla fra le labbra, fa parte della gestualità, immagino" commentò più con sé stessa, per poi riporla nuovamente sull'orecchio. "Scusami se ti ho spaventata, stavo cercando di capire se fosse questo il mio posto o meno. I numeri sono segnati in modo diverso sull'alta velocità. Ho visto quello segnato sulla tua poltrona e ho ritrovato il mio qui". Si voltò appena per indicare il cerchio di plastica con l'unghia laccata di nero.

"07" intervenni io e le sorrisi. Lei fece lo stesso, la prima espressione che mi giunse come neutrale da quando avevamo iniziato a parlare.

Il suono ritmato di un annuncio catturò la nostra attenzione, entrambe gli sguardi alzati come se la persona che stava parlando, nient'altro che una voce automatica, fosse davanti a noi.

"Gentili viaggiatori, vi informiamo che il treno viaggia in ritardo a causa del maltempo. Stiamo attendendo il segnale per poter proseguire il viaggio. Grazie. Dear passengers..."

"Proseguire il viaggio? Davvero?" esclamai, emettendo un verso di sconforto mentre mi accasciavo contro la poltrona. "Non mi ero resa conto che il treno si fosse fermato" riflettei a bassa voce mentre contemplavo l'oscurità che aveva inghiottito le pareti del mezzo. L'unica cosa che riuscivo a vedere, quando tentavo di individuare qualche casa o dei lampioni, era il riflesso di Nana perfettamente a suo agio accanto a me.

Si limitò a sospirare e a mettersi comoda sulla poltrona, accavallando le gambe per non urtare la chitarra con le pare spesse delle Dr. Martens, le collane di Vivienne Westwood che tintinnavano a ogni suo movimento, un concerto di trilli metallici a cui contribuivano bracciali e anelli.

"Immaginavo sarebbe successa una cosa del genere. Non è mai facile arrivare dal punto A al punto B con questi viaggi così lunghi, se poi pensiamo a come siamo messi..." disse lei, e sentii come se mi fosse consentito incalzare la conversazione.

"E pensa che tu sei salita a Roma, io a Napoli invece. Il tempo sembra che si stia moltiplicando all'infinito." Lei simulò una risatina, un verso gutturale come per assecondarmi, ma non andò oltre. Fu il silenzio ostinato che gli fece seguito a solleticare la mia curiosità. "Dove sei diretta? Torino?"

"Magari" rispose, le braccia conserte "Milano. Sono partita dalla Sicilia per arrivarci, ma gli aerei avevano un prezzo folle per i tempi in cui mi sono mossa, e alla fine eccoci qua".

Annuii sonoramente con la testa e, intuendo che non mi avrebbe chiesto altrettanto, proseguii: "Io invece vengo da Napoli e, prima che tu me lo chieda" le parai una mano davanti "sì, Napoli Napoli".

Stavolta Nana trattenne una risata vera, ma io continuai con lo stesso entusiasmo e compiacimento dei bambini alle recite di Natale. La sua attenzione su di me mi elettrizzava. Mi sentivo vista. "Sto andando a Milano per un corso in scrittura creativa. Una cosa seria eh, non una sciocchezza qualunque, ci sono autori seri lì e cose così". Mi stiracchiai sulla poltrona, le braccia stese davanti a me, compiaciuta come un gatto che si bea del sole sotto una finestra.

"Praticamente," continuai "si tratta di un corso di sei mesi in cui si acquisisce più consapevolezza su come si scrive un romanzo, cioè intendo tipo dal punto di vista dei dialoghi, della trama, ah e anche per l'editing! E poi alla fine hai l'opportunità di scrivere un vero e proprio romanzo che puoi sottoporre a delle case editrici importanti. Ma vuoi sapere una cosa ancora più forte?"

Nana mi osservava con uno sguardo indecifrabile, come se stessi compiendo davanti a lei un rito demoniaco da cui si sentiva ammaliata e spaventata al tempo stesso. Tentai di rintracciare gli elementi che avevano potuto turbarla durante il mio racconto, ma niente di quel che avevo detto mi pareva fosse poi così meritevole di una simile reazione.

Con una certa dose di esitazione mi forzai a proseguire, senza soffermarmi oltre sulla sua espressione.

"Che sto andando a stare da un tipo, Shoji, che è tipo un mezzo fidanzato, cioè noi siamo una coppia aperta alla fine ma..."

Lo stato in cui era Nana si ruppe in quel momento, un vaso che aveva colliso col pavimento ed era esploso, tornando improvvisamente alla realtà. "Mh, mezzo fidanzato e coppia aperta non fanno sperare proprio in un bel finale" sentenziò, con quella che mi giunse come una superiorità spinosa, sebbene niente in lei mi stesse dando l'impressione di sentirsi migliore di me.

"Oh no, ma certo che sì! Lui è un bravissimo ragazzo, davvero!" mi affrettai a rispondere, presa dall'agitazione. "Stavamo al liceo insieme e...", frugai rapidamente fra i pensieri finché non pescai qualcosa che mi pareva fosse degno di nota. Le misi una mano a coppa intorno all'orecchio "ed è anche incredibile a letto!" sussurrai, per poi allontanarmi nuovamente, il profumo ambivalente di Nana nelle narici, lei e il suo alter-ego che prendevano forma in note di un sapone fruttato e in quelle più pungenti delle Winston Blue.

"Insomma, è una cosa seria anche per lui eh, solo che dopo tanti anni insieme e una vita fuori - sì, lui è lì per rendersi indipendente" dissi, mimando le virgolette con le dita "è normale che uno voglia anche sperimentare..."

Fra di noi cadde un silenzio che mi bruciava la schiena, gravava sul collo come la spada di Damocle, una spada che avrebbe minacciato di precipitare per tantissimo tempo fino al giorno della caduta.

"Uao" rispose lei, sopracciglia alzate e un mezzo sorriso che mi fece sentire schiacciata, insufficiente e tremendamente infantile "be', allora dovresti informare il tuo grande amore che siamo decisamente in ritardo."

"Hai ragione!" esclamai con un'allegria posticcia, le labbra tirate mentre digitavo il suo numero a memoria. "Scusami un secondo...".

Nana fece un cenno col capo e socchiuse gli occhi. Mentre il telefono suonava rubai quei secondi di tregua dal suo sguardo per osservare i lineamenti fini, il naso sottile, i piercing ai lobi e lo smokey eye che le marcava gli occhi, occhi grandi e neri di un alieno, ciglia così lunghe e rese ancora più folte da quelle finte. Un vestito di velluto nero modellato da una cintura borchiata richiamava il choker, il corpo esile stretto in una giacca di pelle consunta e molto più grande della sua taglia.

"Hey Shoji, sono Nana!"

"Ah, sì, sì sono sul treno ma..." solo in quel momento mi resi conto che la sigaretta di Nana era caduta a terra, il suo volto verso di me in un'espressione esterrefatta.

Le feci un cenno col pollice per capire se stesse bene e lei parve rinvenire, annuendo col capo. La seconda volta in pochi istanti che la vedevo perdersi nelle sue congetture e ritornare alla realtà, l'alter-ego che prendeva il suo posto per poi ritrarsi di nuovo.

"...ma credo che faremo tardi. Sei sicuro? Posso prendere un taxi, farà un freddo cane lì... mh, come preferisci. Sì..." Mi passai una mano sul volto, abbassando rapidamente il volume della chiamata "Sì Shoji, okay, possiamo tipo... parlarne per messaggio? Sì... ho capito! Sì ho visto già qualcosa oggi, tipo qualcosa verso Famagosta, ma devo vedere se è ancora disponibile. Sì, ho capito! Mio Dio Shoji, ho detto che ne parliamo dopo, non ti preoccupare! Cià cià cià..."

Bloccai il telefono e lo riposi in tasca, sospirando sonoramente.

"Tutto okay?" chiese Nana a un tratto, senza voltarsi verso di me, lo sguardo posato sugli anelli intrecciati che portava alle dita e che faceva ruotare con una sorta di calma premeditata.

"Alla grande! Le solite cose..." dissimulai, "Oh, guarda! Nella carrozza davanti alla nostra sta passando il carretto!"

Nana si sporse appena. "Credo che si fermi alla terza, noi non siamo mica in prima classe."

"Ah, non hai mai viaggiato sull'alta velocità però queste cose le sai."

Fece spallucce. "Ho solo fatto due più due. So solo che la prima classe si ferma alla terza, e noi siamo la quarta, fai tu".

"E allora fammi passare un attimo, che voglio fare una cosa".

Le scavalcai le gambe sotto il suo sguardo, la stessa apatica indifferenza di una persona a me familiare. Sentii un vuoto nello stomaco, ricordi che balzavano in avanti dal retro del mio cervello, ansimi che mi rimbombavano nella testa, urla, disgusto. Mi schiarii la gola per respingere la nausea, inspirai profondamente dal naso e percorsi il corridoio del vagone.

"È anche per me?" mi chiese una volta tornata di nuovo davanti a lei, in attesa di risedermi al mio posto.

"Yesss!" le risposi mentre mi accomodavo sulla poltrona. "È tutta tua cara".

"Dai, davvero?" esclamò, un sorriso così ampio che rivelò lo smiley che le batteva sugli incisivi. Ancora oggi ripenso alla velocità con cui si alternassero le emozioni di Nana, una strada con un susseguirsi ingestibile di curve. "Adoro l'Iced Cappuccino di Starbucks, dove l'hai recuperato?"

"Diciamo che ho i miei segreti"

"Che si chiamano distributore?"

Mi posai l'indice sulle labbra e mi sporsi verso di lei "Shhh! Infrangerai la magia!"

"Sai" iniziò lei mentre si portava la bevanda alle labbra "credo che io e te andremo molto d'accordo" concluse, prima di mandar giù un lungo sorso ed emettere un sospiro di soddisfazione.

"Per un po' di cappuccino?" risi, seguendola nello stesso gesto.

"No, perché anche io mi chiamo Nana."

Non mi diede neppure il tempo di elaborare l'informazione che aveva già fatto incontrare le nostre bevande, i braccialetti che seguirono il movimento in un tintinnio di monetine, gridando un "Alla tua, Nana!" che sancì l'inizio della nostra storia.

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