6. La verità nel sottosuolo

Il signor Pinkupp aveva sperato che non fosse necessario un secondo incontro con i bambini partecipanti all'Operazione di Spedizione e la maggior parte di quei giovanotti aveva fatto lo stesso, ma alla signora Knight non era importato nulla e aveva affisso in bacheca un nuovo annuncio, recitante:

"I quattordici partecipanti all'Operazione di Spedizione sono pregati di recarsi nel Giardino dell'Ever (su per la grande scalinata) il giorno 9 del mese corrente, per un ultimo incontro prima del loro saluto definitivo.

Associazione per i Diritti Magici."

I giorni antecedenti al nove novembre erano stati segnati da una cascata di inviti per i bambini. Il signor Pinkupp aveva chiesto ai suoi allievi di legare con gli altri partecipanti all'Operazione di Spedizione e nessuno aveva perso tempo. A casa Knight era arrivata una lettera per una festa organizzata dalla famiglia Grey, ben due richieste per partecipare al tè delle cinque delle gemelle Sky e la signora Treaty con suo figlio Brian, che era un piccoletto dai modi precipitosi, si erano fermati da loro per cena. Amos e Alice avevano evitato con attenzione ogni genere di appuntamento - tranne quello con la signora Treaty e suo figlio, che non erano riusciti a schivare -, convinti che a entrambi servisse un po' di pace, prima del viaggio, finché non si era presentata alla loro porta Sasha Estiral.

Lei, con quel viso a forma di diamante e i capelli scuri legati in una treccia alla francese, aveva chiesto ai due ragazzi se volessero unirsi a lei, Marcus Bousser e Timothy Allen per quel pomeriggio.

Amos era pronto per rifiutare l'invito, lo sguardo torvo di Alice glielo aveva implicitamente chiesto, ma Sasha aveva un sorriso stregato e due grandi occhi blu come il mare... con un solo sguardo aveva reso la forza di volontà del ragazzo pari a zero e una sola frasetta era bastata a convincerlo: «Il mago delle fate non può assolutamente mancare.»

Con un solo cenno del capo bruno del ragazzo, i due fanciulli si erano trovati incastrati per un intero pomeriggio a casa Allen e, dallo sguardo fulmineo che gli aveva lanciato Alice per l'intera giornata, sembrava esser stata una pessima decisione.

Ad Amos il motivo non era chiaro, quando aveva varcato l'ingresso di casa Allen gli era sembrato tutto normale e si era addirittura chiesto come mai fino a quel momento Alice lo avesse forzato a declinare ogni invito. Era stato bene, tra le risa di quei ragazzi più grandi di lui, finché Timothy non aveva tirato fuori dalla credenza a specchio beige una bottiglia di liquore prodotto dalla sua famiglia.

«Mastro Allen, il migliore della zona» aveva commentato il ragazzo, passandosi una mano fra i suoi capelli biondi.

«Il migliore, se non anche l'unico, Titty...» si era intromessa Sasha.

Nessuno oltre loro due aveva toccato un solo goccio di Mastro Allen. Sasha, subito dopo il primo bicchierino, aveva iniziato a parlare di sciocchezze, attirando su di sé più attenzione di quanto già non accadesse giornalmente.

Aveva detto di sentirsi emozionata, che non vedesse l'ora di partire per vedere il mondo lì fuori e di non poter desiderare altro dalla vita... «È sempre stato il mio sogno segreto» aveva detto, prima di chiedere con curiosità: «Voi non avete un sogno segreto?»

«Immagino di sì» aveva risposto con dubbio Marcus Bousser, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, stravaccato sulla propria poltrona di paglia bianca.

«Davvero, tesoruccio, e qual è?» aveva chiesto lei. Le sue guance erano rosse come il fuoco e i suoi occhi vuoti non sembravano voler ammettere repliche.

«Dovrebbe essere segreto» aveva risposto Marcus, alzando le spalle indifferente.

«Oh, beh... sì, giusto.» Sasha si era mostrata delusa da quell'affermazione.

«Tu, Amos?» Si era voltata verso di lui.

Amos aveva negato con la testa. «Io non ho nessun segreto»

La sua risposta aveva provocato una risata a Marcus Bousser e l'esclamazione: «È impossibile, amico» da parte di Timothy.

Entrambi vennero ignorati da Sasha, completamente concentrata su Amos. «Ma avrai un sogno...» lo aveva incastrato lei.

«Il sogno di Amos può rimanere segreto, Sasha» si era intromessa Alice, con lo sguardo serio di un genitore alle prese con un figlio pestifero.

Amos aveva osservato Sasha scrutare Alice dall'alto in basso e ignorare la sua osservazione. Era molto più grande di loro e si muoveva con il fare sicuro di chi sapesse di avere davanti due bambini e non due adulti.

Aveva preso di nuovo parola e stavolta gli era parsa più un cucciolo indifeso che una ragazza piena di sé: «Quindi, il mago cresciuto con le fate non mi dirà il suo sogno nel cassetto... se ho ben capito.»

Amos aveva fatto un cenno con il capo.

«Peccato.»

«Peccato?»

«Già... avrei potuto aiutarti a realizzarlo.»

Lui si era morso il labbro e aveva mostrato un piccolo sorriso sotto i baffi agli altri tre ragazzi presenti. Si era sentito scottare dallo sguardo di pietra di Alice, ma Timothy lo aveva distratto, dandogli una pacca sulla spalla, con lo scopo di spronarlo. «Dai, amico, confessa il segreto.»

Quel lieve colpetto aveva fatto balzare Amos in avanti, ma allo stesso tempo lo aveva convinto ad avvicinarsi a Sasha per sussurrargli all'orecchio il suo vero e unico sogno... sapere perché sua madre l'avesse abbandonato. Gli sguardi su di lui si erano fatti intensi, ma Amos li aveva ignorati per favorire la voce cristallina e sicura di Sasha. «Wow... Sai cosa dovresti fare?»

Amos aveva negato con la testa. Quella gli era sembrata una domanda sciocca, ma non se la sentiva di obbiettare le parole Sasha, tre anni più grande di lui e per giunta bella come il sole.

«Gli uffici dell'ADM, lì ci sono dei registri...» aveva detto.

«Cosa ti stai inventando, Sasha?» l'aveva presa in giro Timothy.

Lei gli aveva fatto segno di fare silenzio, poggiandosi l'indice sulle labbra carnose. «Sto aiutando Amos, tu non puoi capire.»

Quello era stato l'unico discorso che Amos era riuscito a seguire di quel tempo trascorso a casa Allen. I ragazzi delle Barriere parlavano di feste passate e guerre future, ma lui non aveva idea di quel che fosse successo in quella terra negli anni... il mondo per quel popolo era andato veloce e lui non si era mai accorto di cosa si stesse perdendo, finché non era giunto lì, troppo tardi. Per l'intero pomeriggio aveva osservato indignato la scena di Sasha e Timothy in preda allo scolarsi shottini su shottini, sbottando in risate fragorose fra la seconda e la terza manche, finché Alice gli aveva lanciato uno sguardo fulmineo più intenso dei precedenti.

«Andiamo via» aveva detto, incrociando le braccia al petto.

Amos aveva obbedito. Lui e Alice avevano lasciato l'elegante villa stile shabby di Timothy Allen nel giro di pochi minuti e con essa il puzzo di alcol e le chiacchiere sciocche di quel gruppetto, salutando con un flebile: «Ci vediamo domani, al Giardino dell'Ever.»

***

Quella mattina, quando Amos si guardò allo specchio, notò due occhiaie violacee sotto gli occhi e uno sguardo più frastornato del solito.

Non era stata una bella notte, non che le precedenti fossero state accompagnate da fantastici sogni, ma mai i suoi pensieri avevano sfiorato in quel modo la follia.

I suoi spiriti inquieti erano dovuti alle parole di Sasha Estiral, riguardo la possibilità di scoprire chi fosse sua madre e da lì Amos aveva iniziato a fantasticare con la mente, che l'aveva portato nei meandri più oscuri del suo animo, facendogli toccare paure che non sapeva di avere.

Cercò di rendersi presentabile; si sciacquò la faccia più e più volte, tentò di passarsi sul viso sapone e foglie di aloe per renderlo meno patito e rasserenare gli occhi, ma la realtà era che neanche un incantesimo sarebbe stato in grado di nascondere quello sguardo triste.

La figlia della signora Knight lo attendeva davanti la porta, già pronta per raggiungere l'incontro con il signor Pinkupp. Lui si chiese come fosse possibile che Alice riuscisse a essere sempre in forma smagliante e non commettesse mai alcun errore, ma immaginò che fosse uno di quei quesiti a cui nessuno sarebbe stato in grado di rispondere.

«Amos, sei pronto?» domandò lei con un tono spazientito.

Amos si morse il labbro, avrebbe dovuto svegliarsi con mezz'ora di anticipo per nascondere bene quello sguardo sofferto. Sperò che lei non notasse il dolore riflesso nei suoi occhi e che il suo viso fosse sempre tanto arrossato.

«Sono pronto, Alice» disse, affiancandosi alla figlia della presidentessa e guardandola dal basso.

Lei era più alta di lui, nonostante fossero quasi coetanei, e aveva un portamento e un'eleganza invidiabili. Alice, con quello sguardo impertinente e la voglia di vivere scritta in volto, era l'esatto opposto di Amos, cupo e nostalgico. Agli occhi di un orfano cresciuto con le fate del Nord in una piccola capannella di legno, risultava viziata e capricciosa. Si vedeva dal suo modo di ridere che Alice Knight avesse vissuto una vita di paletti, che le aveva portato a conoscere poco la vita vera. Era tutta teoria e poca pratica, Amos, invece, era stato costretto ad affondare le mani in quella sua vita scombinata, senza conoscere il come o il perché.

Entrambi varcarono la porta di casa e lasciarono l'abitazione.

La villetta dei Knight era un'elegante combinazione di sfumature rosee e argento, dall'esterno sembrava la casa di una caramella. Aveva spigoli tondeggianti e un tetto che sembrava specchiare il cielo, vista da lontano appariva come una mezzaluna poggiata sulla terra, e brillava, brillava talmente tanto da colorare i vicoli bui su cui incrociava.

I ragazzi percorsero uno accanto all'altra l'intero labirinto delle Barriere. Nonostante Amos fosse molto diverso da Alice e dal suo mondo, negli ultimi giorni aveva imparato a essere curioso e se prima tra loro due le chiacchiere erano poche, se non nulle, con qualche giorno di ritardo Amos si era appassionato ai racconti mondani di Alice. Le loro chiacchiere, probabile, sarebbero durate per l'intero lungo tragitto.

La casa in cui viveva la presidentessa poteva anche essere meravigliosa, ma era lontana chilometri dal Giardino dell'Ever e da qualunque luogo d'incontro delle Barriere.

Il primo giorno che i due giovani si erano incamminati per raggiungere il giardino, Amos non aveva fatto troppo caso a tutta quella strada, era troppo emozionato per pensarci, ma più passava il tempo meno le sue gambe reggevano la fatica.

«Ma qui si cammina sempre?» si lamentò.

«Non sempre, ma se preferisci aspettare l'Emidoro delle otto e quindici, lo farai da solo. Io non ho intenzione di arrivare in ritardo» rispose Alice, affrettando il passo.

«Un Emiche?» chiese lui confuso.

«Un Emidoro, mai sentito parlare?»

«Ehm... no, cos'è?» domandò incuriosito. Quelle non erano domande che poteva fare al maestro Pinkupp o qualunque altro ragazzo delle Barriere.

«Una creatura dal manto dorato, grande e grosso come un tavolo da biliardo. Ti ci siedi sopra e lui sa già dove devi andare, così ti ci porta.»

Amos era stupito, non aveva mai visto un essere del genere in vita sua.

«Quasi, quasi aspetterei qui l'Emicoso più che proseguire a piedi» rise lui, con la solita voce piccola di imbarazzo.

Alice fece un cenno di no con la testa. «Non hai monete di bronzo, come pensi di pagarlo?»

«Pagare?» Amos rimase talmente stupito da sgranare gli occhi.

«Certo che sì, sono bestie, ma questo non le rende stupide» disse, voltando lo sguardo verso Amos.

Tra una discesa e una salita, scale, ponti e sottopassaggi i due raggiunsero il giardino. Amos voltò lo sguardo verso Alice e per la prima volta gli parve che il suo volto non fosse piegato in un educato sorriso continuo, ma perso in qualche pensiero.

Varcarono il piccolo cancello secondario, ma ad attenderli non c'era ancora nessuno.

Quella mattina erano arrivati per primi, eppure Amos non aveva intenzione di attendere gli altri nel bel mezzo del prato verde arlecchino.

Le rivelazioni avute da Sasha Estiral il giorno prima avevano fatto scattare qualcosa in lui, una curiosità o un po' di coraggio, magari. Non sapeva bene dove, ma c'erano dei registri su di lui che era intenzionato a trovare. Ci aveva ragionato una notte intera, valutando ogni opzione, e l'idea di lasciare Gold Island senza aver scoperto quel dettaglio non gli piaceva.

Senza perder tempo, Amos agirò il container più vicino e si ritrovò alle calcagna Alice, che, confusa e indignata, ripeteva: «Dove vai?», e poi: «Cosa stai facendo?»

Amos non le rispose nemmeno una volta, si voltò verso di lei e poggiò il dito indice sulle proprie labbra per far intendere alla ragazza che dovesse fare silenzio. Non poteva rischiare che lei mandasse a monte il piano su cui aveva pianto e riflettuto tutta la notte.

Come sospettava sul retro dell'obsoleto ufficio c'era una finestrella semi-aperta. Il ragazzino esultò dentro di sé.

«Amos, cosa hai intenzione di fare?» domandò lei, con un tono corrucciato, incrociando le braccia al petto.

Amos sussurrò la risposta. «Hai visto quella magia che fate voi? Quella con cui hai alzato la sedia?»

Lei annuì e, appena si accorse di quel che volesse fare, sgranò gli occhi, osservando prima lui e poi la finestra, troppo alta per essere raggiunta con un semplice salto.

«Potresti usarla su di me?» domandò, senza dare ad Alice il tempo di elaborare quel che aveva dedotto.

Lei sbuffò. «No, non voglio. Non possiamo intrufolarci di soppiatto, esiste una porta a posta. Non voglio essere punita, mi rifiuto.» Incrociò di nuovo le braccia al petto e fece una smorfia.

«Alice, tu non devi fare nulla, oltre che agitare le mani e fingere di non aver visto niente» disse Amos. Una voce implorante e ricca di tutte le emozioni che aveva e non aveva gli sgorgò fuori come una preghiera.

«Che devi fare?» chiese lei, stavolta con un tono di voce più basso, come se avesse intenzione di assecondare il suo pianto quel tanto che bastasse per non farlo scoprire.

«Nulla di rischioso, sarò fuori prima che Pinkupp se ne accorga.» Amos sorrise, sperando che in quel modo avrebbe intenerito lo sguardo accusatorio di Alice, che in quel momento gli sembrò identico a quello della presidentessa Knight.

Alice si morse il labbro e si guardò attorno. Amos continuò a persuaderla, implorando: «Per favore». Lei abbassò lo sguardo, fissandosi le scarpe per qualche momento. Fu un tempo breve, ma agli occhi di Amos parve eterno, finché la ragazza emise un rumoroso sbuffo e afferrò il ragazzo per una spalla, costringendolo a guardarla negli occhi.

«Tu, fa' qualche casino lì dentro e io la prossima volta, anziché farti entrare in una finestra, ti ci spacco la testa contro.» Il tono era minaccioso, ma un tipo di intimidazione che Amos rispettò, visto che senza volere l'aveva trascinata nel casino della sua vita.

Arrossì sulle guance e si liberò dallo sguardo fulmineo di lei. «Fidati di me, se ti dico che non può succedere nulla, vuol dire che non può succedere nulla.» Non ne era convinto, ma pensò che dirlo ad alta voce avrebbe rassicurato entrambi.

Alice annuì, non sembrava molto entusiasta di aiutarlo in quel misfatto, ma strinse i pugni e trasse un respiro profondo. Poi chiuse gli occhi e confessò: «Non l'ho mai provato sulle persone.»

Quell'affermazione fece trasalire il ragazzo che, però, ingoiò della saliva e con essa tutta la sua ansia.

«Tranquilla, ce la puoi fare.» Doveva farcela, se non ci fosse riuscita, lui non avrebbe mai scoperto il nome di sua madre.

«Potresti farlo anche tu.» Lo sfidò con lo sguardo.

Lui sorrise e negò con la testa. «Non riesco ad alzare una sedia, figuriamoci una persona...» rifletté ad alta voce.

Alice sospirò, probabile stesse pensando la stessa cosa su cui aveva riflettuto lui quando si era accorto di non essere in grado di svolgere un esercizio che addirittura Lisa Rogers, a soli sei anni, aveva portato a termine... che Amos fosse un inetto.

Lui si voltò di spalle, quando ebbe la conferma che Alice l'avrebbe aiutato e la lasciò alla sua concentrazione. Il tempo scorreva e il fiato freddo dei sospiri della ragazza gli giungeva sul collo, facendolo rabbrividire.

Non si accorse quale fu il momento esatto in cui Alice riuscì nella magia, ma guardò in basso e i suoi piedi non erano più incollati al pavimento. Alla ragazza sfuggì una risatina, mentre lui si accingeva a spalancare la finestra aperta per metà, con la paura che lei lo facesse cadere a terra.

«Veloce, non so quanto riesco resistere» disse Alice, con un tono lievemente affaticato.

Ad Amos iniziarono a sudare le mani, mentre i respiri corti e i mugolii di Alice, che si sforzava a lottare contro la sua stessa magia, si facevano più persistenti. La finestra era bloccata da una sicura di metallo, per questo quando al primo tentativo Amos provò a spalancarla si ritrovò a lottare contro un piccolo chiodo arrugginito.

«Amos...» Quello di Alice fu un mugolio implorante.

Il ragazzino cercò di infilare la mano destra all'interno della fessura per sganciare il chiodo, ma il ritmo regolare con cui Alice lo tratteneva iniziava a vacillare e il suo corpo ondeggiò da sinistra a destra e da sopra a sotto.

Amos si aggrappò alla finestra e in quell'esatto momento il chiodino si spezzò, lasciandolo a penzoloni attaccato all'infisso. Alice era stesa al pavimento, sembrava distrutta.

Amos sussurrò un "ptzz" per attirare la sua attenzione e assicurarsi che stesse bene. Lei alzò lo sguardo e annuì, provocando un sollievo al ragazzo a penzoloni sulla finestra.

Alice si pulì le ginocchia sporche di povere, prima di dire: «A me pare che non stia andando tutto per il verso giusto» incrociando le braccia al petto di nuovo, con lo stesso sguardo accusatorio.

Lui la ignorò, ricevuta la conferma che non si fosse fatta male, si diede uno slanciò e finì all'interno dell'ufficio.

Non era lo stesso container in cui era stato l'ultima volta, quello della signora Knight aveva un odore più buono e mobili più pregiati, ma chiunque sedesse dietro quella scrivania doveva essere un vero appassionato di francobolli... Francobolli di tutti i tipi e colori coprivano per intero le pareti e gran parte del pavimento, l'unico angolo a esserne rimasto sprovvisto era quello su cui poggiavano la sedia e la scrivania di legno, che, tra l'altro, erano gli unici mobili presenti oltre a un quadro con una cornice dorata, al cui interno c'erano altri francobolli. Era un'immagine sconcertante, ma non abbastanza da distrarlo.

Il giovane sì lanciò dietro la scrivania, non c'era luce e l'unico spiraglio proveniva dalla finestra che lui stesso aveva spalancato. Aprì il primo cassetto, scoprendo con uno stupore non indifferente che fosse vuoto, per il secondo scomparto valse lo stesso e il terzo conteneva una scatolina di legno.

Amos aprì la scatola, aggrappandosi alla speranza che ci fosse un qualche genere di indizio, ma l'unica cosa che trovò fu un francobollo particolarmente vecchio e impolverato.

Si sentì preso in giro e sbuffò. Ormai rinunciatario, Amos stava già pensando a come uscire dall'ufficio, quando sentì la maniglia scattare.

In quel momento pensò che forse non ci sarebbe stata più alcuna Spedizione per lui. Se l'avessero beccato lì dentro a toccare tutto l'avrebbero spedito a calci dalle Fate del Nord e l'idea, dopo quel tempo passato alle Barriere, non gli parve delle migliori.

Amos scivolò d'istinto sotto la scrivania, per non farsi beccare, e si strinse le braccia attorno al petto per regolarizzare il respiro spaurito. Si sentiva un topo in trappola.

Lo sconosciuto, di cui Amos vide attraverso uno spiraglio della scrivania, solo i piedi fasciati da dei mocassini, fece scattare un interruttore che lui immaginava servisse per illuminare la stanza, ma anziché aumentare la luce, la fece piombare in un'ulteriore oscurità.

Si sentì pervadere dalla paura, più intensa e persistente rispetto a qualunque altra sensazione avesse mai provato... forse già sapevano che lui fosse lì dentro o Alice aveva fatto la spia, eppure in quel momento gli passò per la mente l'idea che non ci fosse nulla di male nell'essere entrato in un ufficio in cui c'erano solo francobolli.

La figura estranea fece tre passi verso di lui, poi tre all'indietro. Amos si sentì di nuovo preso in giro, finché non notò l'omone fermarsi in un punto e una finestrella aprirsi, scricchiolando, sul pavimento.

L'uomo svanì, inghiottito nell'oscurità della botola e Amos fece un sospiro di sollievo.

Si rizzò in piedi e uscì dal suo nascondiglio, dirigendosi verso il punto in cui l'estraneo era scomparso.

Non c'erano segni, su quel pavimento di francobolli, che lasciassero intendere che lì ci fosse un passaggio segreto. Amos si grattò il mento, era incuriosito e allo stesso tempo turbato.

Iniziò a capire perché se l'avessero trovato lì, anziché nel giardino con i suoi coetanei, avrebbe avuto un mare di guai.

La porta dell'ufficio venne spalancata di nuovo, stavolta Amos non ebbe il tempo per nascondersi per bene e strisciò dietro la porta, nella speranza che chiunque entrasse la lasciasse aperta, così che lui diventasse invisibile.

«Amos» disse la figura che varcò la porta, con un tono preoccupato e una voce familiare. Il tenore con cui gli si rivolse, gli fece capire che la sua scappatella non era ancora stata scoperta.

Amos chiuse la porta, sbucando da dietro di essa e rispose: «Alice, qualcosa non va?» Era in ansia solo all'idea che qualcosa potesse essere andato storto.

Lei negò con la testa. «L'incontro è saltato. Ci sono stati dei problemi... non si farà più» parlò, con un po' di dispiacere nella voce.

Amos annuì e lei continuò: «Sono tutti convinti che ce ne stiamo andando a casa, quindi, se ancora non hai finito di fare quella cosa con i registri, posso aiutarti». Gli mostrò un sorriso a trentadue denti, capace di trasmettere solo che buone intenzioni.

Il ragazzo si sentì dubbioso, tra cosa fosse giusto fare e la straziante curiosità di scoprire se oltre quella botola invisibile ci fosse quel che cercava. Inoltre, non sapeva proprio se la compagnia di Alice sarebbe stata di suo gradimento.

Lei lo guardava con occhi brillanti, lucenti di speranza e voglia di fare. Amos si chiese se avrebbe avuto lo stesso sguardo curioso quando lui le avrebbe confessato il suo desiderio di entrare nella botola.

«Guardati intorno, qui non c'è nulla» le disse riflessivo, allargando le braccia per rendere l'idea.

Lei fece quel che lui aveva chiesto, come se fino a qualche attimo prima non avesse notato i francobolli sparsi per ogni centimetro della tappezzeria. Si accigliò.

«I fascicoli di cui mi diceva Sasha sono nascosti sottoterra, proprio qui» confessò Amos, schiacciando forte con il piede destro la botola invisibile.

Il contatto del pavimento con la sua scarpa emise una risonanza, che tradì l'assenza di segni sul pavimento, lasciando intendere che lì sotto non ci fosse cemento, ma un passaggio.

Alice si morse il labbro, sembrava in lotta con sé stessa e Amos sperò che lo convincesse ad abbandonare quella folle idea. Invece, la ragazza chiese con un tono freddo, ma deciso: «Andiamo lì sotto?»

Lui si sentì costretto ad annuire. Alice era la scintilla che aveva fatto scoppiare l'incendio, un incendio invisibile che nessuno oltre Amos avrebbe potuto vedere. Dentro quel piccolo corpicino ossuto, fatto di insicurezze e dubbi, si era scatenato il putiferio non appena la ragazza aveva aperto bocca.

Andare, sarebbe dovuto andare.

«Sì, andiamo lì sotto... sempre se per te non è un problema.» Per poco sperò che lo fosse.

Alice, invece, annuì.

Amos fece un respiro profondo e le disse: «Stammi vicino». La ragazza obbedì, senza tentennare.

Lui ripeté le mosse viste dallo sconosciuto, tre passi avanti e tre indietro, Alice accanto a lui. Il pavimento cigolò e per istinto la ragazza si strinse a lui. Amos tremò come una foglia, non aveva idea se fosse a causa del contatto troppo ravvicinato, che già di per sé gli creava disagio o se fosse per la paura di essere risucchiato nel vuoto e di finire chissà dove.

Il pavimento continuò a scricchiolare, lui chiuse gli occhi e il vuoto sotto di lui si divaricò. Soffocò un urlo, al contrario di Alice che non sembrava affatto pronta a una simile discesa. Lui le coprì la bocca con le mani, mentre venivano catapultati entrambi nel vuoto.

Caddero sul morbido, Amos impiegò un po' ad aprire gli occhi e, quando alzò lo sguardo verso di lei, era già in piedi a pulirsi l'abito blu sporco di pagliuzze, con il fiato corto e il viso ancor più pallido del solito. Erano atterrati sopra della paglia e lui immaginò che non si trovasse lì per caso.

«Sai, per qualche istante, ho creduto volessi ammazzarci entrambi» disse lei, ancora impegnata a rimuoversi le pagliuzze in modo minuzioso e preciso. «Mia madre mi avrebbe ammazzata se fossi morta spiaccicata sul pavimento per sbirciare nei segreti dell'ADM» pensò ad alta voce.

«Come avrebbe fatto ad ammazzarti se fossi morta?» domandò lui con una risata, più per farle notare l'incongruenza che per altro.

Alice sospirò, stirò le mani sul vestito che ormai era completamente pulito e Amos capì dal suo mezzo sorriso che quello era il momento di alzarsi dal comodo letto di paglia e iniziare la ricerca.

Svogliatamente si mise in piedi, le gambe gli tremavano di terrore solo all'idea di dover camminare in quel luogo gelido.

I rumori erano echi profondi di acqua che gocciava, un "bloop! bloop!" infinito e terrificante. Un odore stagnate di fango e sporco gli fece venire il voltastomaco e tutto intorno a lui, nella penombra, metteva i brividi. Non vide altro che una caverna umida e priva di qualunque genere di materiale che potesse contenere i registri che cercava.

«Dubito che troveremo qualcosa» disse Alice, dando voce ai suoi pensieri.

Amos annuì, ma si fece comunque largo fra i detriti di terra e rocce, cercando di non inciampare a causa della poca luce. Alice lo seguì con uno sbuffo.

Camminarono nella caverna senza trovate nulla, fra gallerie e muri di terra che gli fecero perdere il senso dell'orientamento. Alice lo aveva implorato più volte di lasciar perdere e andare via, ma lui sviava e continuava a camminare. Ormai non gli interessava più trovare quei registri, immaginava che l'ADM tenesse ben nascosti i suoi segreti, ma non tanto da rischiare di perderli in quel lugubre luogo; l'unico motivo per cui non voleva tornare indietro era che non aveva idea di come si uscisse da quell'inferno.

Raggiunsero un tunnel illuminato da alcune fiaccole attaccate al soffitto, sembrava essere la zona più viva dell'intera caverna. Amos fece cenno ad Alice di andare in quella direzione.

Udirono nell'eco alcune urla: «No, la prego. La prego, no!» e singhiozzi appartenenti a una donna.

Gli stridii alterati di un bambinetto, fecero tremare il corpo esile di Amos, che si voltò subito in direzione di Alice. «Andiamo avanti?» chiese lui.

Alice lo guardò con lo stesso dubbio che aveva lui sul volto, ma annuì e stavolta fu lei a fare strada ad Amos, affrettando di poco il passo.

Al di là del tunnel la luce era più alta, sembrava quasi di essere tornati all'esterno, illuminati dal sole e non da quelle fiaccole di fuoco intrinseche di magia.

Amos afferrò Alice per un braccio e la trascinò dietro un cumulo di terra. La stanza sembrava non essere terminata, c'erano resti di tronchi e montarozzi di terra, alcuni attrezzi tra cui le pale e i picconi dei Nani proletari, e degli scaffali in legno massello appoggiati in malo modo di qua e di là. Al centro della caverna Amos, sporgendosi, notò una gabbia di grandi dimensioni, fatta di legno e legata da fili d'erba.

Notò Alice irrigidirsi, quando entrambi si accorsero che la voce sentita prima provenisse dalla donna chiusa all'interno. «Lasciatemi andare» urlò la voce stridula e alterata della signora. Dei ricci spettinati e un viso stanco calzavano a pennello con lo stropicciato abbigliamento sporco di polvere.

Amos guardò la sua compagna di avventure e le mimò di fare silenzio, chiedendosi chissà che sarebbe successo se avessero beccato loro due lì a spiare una pratica barbara come quella.

«Signora, non possiamo permetterle di andare via ora. Ci dispiace» disse un uomo vestito in elegante nero e bianco e un sorriso di finte scuse.

Alice si avvicinò all'orecchio di Amos e sussurrò con stupore: «Quello lì è il padre di Morgane.»

Lui annuì, già lo sapeva, ma la conferma gli servì per meravigliarsi ancor di più delle sue gesta. Più che eroi, per quel che valeva, in quel momento gli abitanti delle Barriere gli parvero dei bruti. Il viso spaurito di Alice, pallida come un lenzuolo, lo fece sentire meno solo.

«Il mio bambino. Dov'è il mio bambino?» domandò la donna, esasperata. «Era con lei, schifoso Senzanome! Dov'è lui ora?» Il tono delirante e sprezzante, insieme a un'occhiata di puro odio fece trasalire Amos. Cosa avesse fatto Abram Fox per farsi odiare tanto gli era ancora un mistero e voleva assolutamente saperlo.

«Elia è al sicuro, è qui» disse una voce candida e pacata. Amos si sporse ancor di più per esser certo di aver sentito bene chi avesse parlato. Il suo cuore perse un battito, quando vide Amaranta, la fata con cui aveva condiviso gran parte della sua vita, con un fagotto stretto fra le braccia.

In lei non riuscì a vedere alcun male, né nel tono, né nel volto. Amaranta stringeva quel bambino a sé, lo cullava e gli carezzava le guance, e lui non sembrava piangere o disperarsi all'idea di ricevere cure da una tale purezza.

«È mio!» urlò la donna, sporgendo un braccio per afferrare la creatura. «Dammelo!» detto ciò, cadde a terra. Sembrava volesse affogare nelle sue stesse lacrime, sporgendo le braccia oltre la gabbia e impugnando l'aria.

Amos poggiò le spalle al muro, chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. Si perse per un attimo nei ricordi di una vita passata tra le Fate del Nord e un futuro a seppellire i segreti del popolo delle Barriere. Forse, iniziava a pensare, che non esistesse un posto giusto per lui.

«Hai trovato quel che stavi cercando?» chiese Alice, con una domanda di cui sapeva la risposta è che servì solo a svegliarlo dai suoi pensieri.

Amos la guardò fisso negli occhi e vide il limpido riflesso della sua paura. «No, ma voglio andare via» disse, con un tono che non ammetteva repliche.

Alice lo afferrò per un braccio e si alzò in piedi. Entrambi sgattaiolarono verso il tunnel illuminato da cui erano venuti, alla ricerca di una via d'uscita.

«Cos'è successo?» domandò lei, ancora incredula.

«Non lo so, ma non credo che in questa guerra esistano dei buoni» rispose lui.

Con un piede scalciò via una pietruzza di quelle che gli ostacolavano il passo in quel tunnel di luce e oscurità.

Il sassolino tintinnò sul pavimento di terriccio, rumoreggiando "Tin, tin, tin" ogni volta che toccava il terreno e poi si sollevava di nuovo, "Tin, tin, tin" e poi basta.

Il sassolino non atterrò sul terreno quella volta e non emise più alcun tonfo.

«Cosa ci fate voi qui?» domandò con fermezza una voce. Amos alzò lo sguardo e notò Megan Knight parata davanti a loro con le braccia incrociate, che teneva il sassolino da lui lanciato fermo sotto la punta della scarpa.

Lui ingoiò della saliva e Alice rispose per entrambi: «Ci siamo persi, dove siamo?» Si guardò attorno spaesata per confermare la tesi.

«Alice...» La presidentessa ammonì sua figlia.

I due ragazzini fecero qualche passo in avanti e la distanza tra loro divenne talmente poca da far tremare Amos, mentre la donna li osservava dall'alto dei suoi tacchi neri. Con un'espressione indecifrabile in viso, afferrò sia Alice che Amos e si aggrappò alla parete del tunnel.

La presidentessa pronunciò un codice in una lingua straniera: «ni fire syv en» e il muro irregolare si sgretolò, lasciando spazio a una stretta scala di metallo.

«Forza, avanti! Salite» disse, mollando la presa esercitata su entrambi.

Amos si arrampicò subito dopo Alice, su per quella scaletta che cigolava a ogni passo, dietro di lui la signora Knight borbottava. «Cosa vi è passato per la mente? Volete mandare tutto a monte, per caso?», e poi: «Come avete scoperto il passaggio? Io non posso crederci che siate stati tanto sciocchi, menomale che c'ero io. Se non ci fossi stata io, a quest'ora avrebbero già annullato tutto...»

Fu una salita ripida, ma la difficoltà di Amos non era nello stare al passo di Alice, ma nel sopportare tutte quelle invettive contro di loro. Capì in quel momento che non avrebbe mai dovuto cercare i registri, non era tanto importante sapere chi fosse sua madre. Avrebbe preferito cancellare tutto, riavvolgere il nastro e non scoprire la donna urlante dietro le sbarre o la collaborazione con le Fate del Nord. Il suo mondo si era appena sgretolato... e l'unica cosa a tenere in piedi Amos era una scala di metallo cigolante comparsa dal nulla.

La scala portò i tre nell'ufficio della signora Knight, tappezzato da ritratti di gente importante e una lavagna che collegava i nomi o i manifesti di persone ricercate a un unico punto, su cui era scritto in stampatello maiuscolo "SENZANOME".

Si accigliò, l'ultima volta che era stato lì non c'era alcuna lavagna, ma un elegante vaso di fiori al suo posto.

«Cosa pensavate di fare?» domandò la signora Knight, prendendo posto dietro la sua scrivania.

Le guance di Amos si colorarono di rosso. «V-volevo sapere il nome della donna che mi ha abbandonato» disse lui, balbettando. Abbassò la testa, sentendosi colpevole.

Alice era pallida in viso e sembrava aver smarrito la parola, riusciva solo a emettere sospiri profondi, di evidente dispiacere.

La signora Knight fece un respiro profondo, guardò prima sua figlia e poi il povero orfanello che aveva gli occhi colmi di lacrime pronte a sgorgare come in una cascata.

«Non dovete dirlo a nessuno» disse lei. Si riferiva alla scoperta della donna nella grotta e il suo tono era serio quanto il suo sguardo accusatorio.

Con entrambi gli indici tirò su i menti dei ragazzi e li costrinse a guardarla negli occhi.

«Potrei costringervi con la magia, ma mi fido di voi... Non dovete dirlo a nessuno» ripeté, osservando prima Amos e poi Alice.

«Va bene, signora Knight» disse uno.

«Sì, mamma» concluse l'altra.

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