5. Senzanome, senza onore
Borgo Umbrei distava veramente poco dalla città d'Ambra, tanto poco che alcuni confondevano il piccolo centro per un quartiere della città stessa. Lì vivevano alcuni folletti benestanti, i nani ribelli e qualche mago stanco del chiasso cittadino; era la strada che percorrevano le persone alla ricerca di nuove opportunità, un piccolo centro in crescita costante, fatto di pace e prosperità. A Borgo Umbrei non si accostava alcun mercante o squinternato di turno. Gli Emidori ci passavano lontano e, cosa più importante per la sua popolazione, mai nessun Senzanome aveva osato farci visita.
In quella cittadina c'era una piccola casetta, abitata da una donna e il suo bambino. Era una casa malmessa, fatta con economiche pietre di Fiorditufo, messe rozzamente e in costante rischio di caduta. Un caminetto rovente fluttuava al centro della saletta di quella dimora, una palla di fuoco fumante si spostava dal tavolo al sofà, mossa da un vento debole e invisibile che penetrava da una finestra di legno semiaperta. Il fuoco illuminava quanto possibile quella topaia di casa, le cui temperature erano fin troppo elevate. L'odore della polvere e del lardo dominavano su un mobilio antico e limitato all'indispensabile: un cucinino arrugginito, un piccolo divano rappezzato e un tavolo con quattro sgabelli di pioppo.
Non era l'abitazione dei sogni di nessuno, ma ai suoi inquilini bastava quel piccolo e vecchio spazio trasandato. Erano persone tranquille, gli abitanti di quella dimora, a detta dei vicini non uscivano mai, non frequentavano la Città d'Ambra neanche durante le festività. Stavano lì dentro, da soli, senza mai ricevere visite o sporgere un braccio fuori dalla porta.
Vivevano a modo loro, ma a quanto pareva vivevano bene, fra le mura fragili e diroccate di una casetta antica, affiancata da due belle ville che avrebbero dovuto destare almeno un po' di invidia.
Ma la signora Prince, Pamela Prince, sembrava avere troppi grilli per la testa anche solo per immaginare che esistesse qualcosa come l'invidia.
Quel giorno Pamela aveva due occhiaie profonde e violacee, uno sguardo assonnato e distrutto, ma nonostante ciò continuava a cullare fra le braccia il suo figlioletto, che era già abbastanza grande da camminare da solo, ma lei non sembrava averlo notato.
La donna sbucò dal piccolo corridoio, diretta al salone, indossava una sottana in cotone, che, nonostante il colore bianco, aveva delle pallide macchie di latte intrinseche nel tessuto. Fra le sue braccia, Elia scalciava e si dimenava, desideroso di muoversi in autonomia. Il figlio di Pamela Prince era un piccoletto roseo che aveva sì e no un paio d'anni, pochi morbidi capelli castani gli coprivano la nuca e due occhietti da cerbiatto, con folte ciglia, gli davano un'aria sognante. Anche se del sognatore quel bambino non aveva proprio niente... era capriccioso, piagnucolone e in continua frenesia. Richiedeva attenzioni che a volte Pamela non era in grado di darci.
Infatti, negli ultimi venti mesi alla donna era passato per la mente più e più volte di lanciarlo dalla finestra o abbandonarlo davanti l'ingresso del Gulp Pub - un piccolo locale della Città d'Ambra -, nella speranza che qualcuno se lo prendesse e lo portasse il più lontano possibile da lei; avrebbe recuperato il sonno perso e si sarebbe ripresa la vita regolare che aveva un tempo... l'idea, nei momenti peggiori della sua maternità, non le sembrava tanto orribile, ma erano comunque i pensieri deliranti di una casalinga sola e a tratti disperata.
Pamela Prince amava il suo bambino, era il suo unico scopo di vita e, nonostante non fosse affatto facile crescerlo in quelle condizioni, lei non intendeva abbandonare la metà del suo cuore nelle braccia di nessuno.
Nessuno. Ecco perché, quando il postino le aveva bussato alla porta, con una lettera che proveniva dalle Barriere, destinata al suo bambino, lei aveva stracciato il foglietto in mille pezzi subito dopo averlo letto e, per essere sicura che non ne rimanesse alcuna traccia, aveva lanciato il prodotto all'interno di quella specie di caminetto fluttuante.
Da quel giorno la signora Prince non lasciava il suo piccolino da solo nemmeno per un minuto, neanche per andare in bagno concedeva pietà al poppante. E come avrebbe mai potuto abbandonarlo in salone da solo dopo ciò che aveva letto?
Ricordava ogni parola della lettera infernale a memoria, nonostante l'avesse stracciata dopo poco che fosse entrata in casa sua. Era come una fotografia, stampata nella sua mente e irremovibile.
"Gentile Sig.ra Prince,
l'A.D.M. è felice di comunicarle che suo figlio, Elia Prince, è stato scelto per prendere parte all'Operazione di Spedizione. L'attendiamo il giorno 7 novembre nei pressi del giardino dell'Ever (su per la grande scalinata) per illustrare il piano dettagliato della spedizione. In accordo con i miei superiori, a causa della sua giovanissima età di Elia Prince, diamo a lei la possibilità di prenderne parte come supervisore, nel rispetto delle norme dell'associazione.
L'attendiamo con ansia,
Cordiali saluti,
Abram Fox,
segretario dell'Associazione per i Diritti Magici."
Non ricordava quanti giorni fossero passati da quando l'aveva ricevuta, ma nessun tempo sarebbe stato abbastanza lungo da farle dimenticare che quegli sconsiderati avevano tentato di sottrarle il suo bambino, il suo unico figlio e compagno.
Maledisse tra sé e sé il padre di Elia, un uomo che l'aveva attirata con ingannevoli lusinghe verso quella trappola che erano i Senzanome. E ora suo figlio aveva il marchio del tradimento inciso dentro sé, una magia fuori dalle regole e dichiarata illegale gli cresceva dentro e lei non aveva idea di come potesse fermarla.
Non sapeva come placare gli istinti di quel piccolo tesoro con il volto da angelo; non aveva idea di come si dissuadessero le lingue di fuoco che gli strisciavano, sibilanti come serpenti, attorno alle braccia paffute quando si arrabbiava; non conosceva alcun modo per far svanire nel nulla le scintille di gioia che sprizzavano dalle sue labbra quando rideva.
Odiava tutto ciò, odiava che suo figlio non fosse normale e non potesse portarlo in città per mostrarlo alle sue amiche, che ormai non frequentava neanche più, né lasciarlo tra le braccia della nonna per poter finalmente dedicare un po' di tempo a un possibile lavoro.
La sua vita si era fermata il giorno in cui Elia era nato, perché lo amava troppo per lasciarlo in mani che non l'avrebbero mai accettato e forse era a causa di tutto ciò che non riusciva più a pettinare i suoi capelli ricci, per renderli eleganti e sobri, o che casa sua fosse sempre un caos di polveri e disordine.
Si era lasciata andare, per non permettere che suo figlio fosse portato via. Pamela pregava perché qualcuno trovasse una cura, pregava l'Ambra che la guerra portasse qualcosa di buono, anziché ulteriori odi e distruzione.
Posizionò suo figlio sul divano e ci si sedette accanto. Il piccolo batteva le mani e a ogni "Clap!" compariva una farfalla che fluttuava leggiadra a zig zag da un lato all'altro, sfumando di colore, fino a svanire nel nulla.
«Mamma, vola vola!» disse entusiasta il piccolo Elia, indicando una delle farfalline azzurre con l'indice. La sfiorò e questa cambiò colore, adesso era di un verde mela pallido e cristallino.
La sua mamma sorrise e gli accarezzò la nuca. «Sì, a mamma, vola vola.» Il suo fu un tono profondo, spezzato da un sospiro.
Era una magia così bella, eppure era sbagliata.
Proprio nel momento in cui Elia emetteva la più spontanea e limpida delle risate, la quale insieme a un suono leggiadro portò delle scintille simili a polvere di stelle che si sparsero sull'intero sofà, si sentirono due colpi alla porta.
La signora Prince ingoiò della saliva, non riceveva visite da una vita.
Prese in braccio il bambino e si avvicinò all'ingresso dove scorse dall'occhiello due uomini ben vestiti con completi eleganti: giacca e cravatta nera su una camicia bianca candida. Uno dei due era calvo, si intravedevano evidenti spalle larghe e qualche centimetro di troppo, mentre il secondo era evidentemente più basso e gracile, con uno sguardo tagliente e capelli laccati.
«Signora Prince, siamo stati informati dalla sua vicina, sappiamo che è in casa. Potrebbe cortesemente aprire la porta?» domandò il più alto, con un tono che a lei parve tutt'altro che cortese. Aveva una voce profonda e grossa, che sembrava fatta apposta per metterle paura.
Pamela si sentì il fiato mancare, era come se l'avessero messa con le spalle al muro. Guardò il suo bambino e lo strinse forte, una miriade di pensieri le passarono per la mente in quel momento.
Trasse un respiro profondo e, balbettando, chiese: «Chi è?» Il sapore delle parole le risultò strano. La risposta la terrorizzava tanto da lasciare l'amaro fra le labbra e la saliva nella sua bocca sembrava essersi seccata. Pregò non fossero i Senzanome, lo fece sottovoce e poi con tono più alto, guardando suo figlio negli occhi: «Fa che non siano i Senzanome.» Elia per tutta risposta rise e un'altra ondata di scintille stellari le sgusciò via dalle labbra, impregnando il viso della madre.
«Signora Prince, sono Abram Fox, segretario dell'ADM, vista la sua assenza all'incontro di ieri, volevamo sapere se stesse bene.» Parlò il secondo stavolta, che, nonostante avesse un tono più cortese e pacato, provocò più orrore dell'altro.
Quel nome lo ricordava, quell'odioso uomo che le aveva mandato la missiva in cui le chiedeva di abbandonare suo figlio. Sentiva il sangue ribollire nelle vene. L'incubo stava diventando realtà. Nulla la trattenne dall'afferrare la sua bacchetta, che non usava da talmente tanto tempo da aver dimenticato come si tenesse, e avvicinarsi di nuovo alla porta, facendo girare lenta la chiave nella serratura.
Pensò che spaventandoli sarebbero fuggiti via. Lei era una leonessa che proteggeva il suo cucciolo, orgogliosa e impossibile da placare.
I due signori adesso erano di fronte a lei, non si presero il diritto di entrare, ma la osservavano con attenzione, mentre lei, con la bacchetta stretta nella mano destra e il bambino rettò con la sinistra, che tranquillo si appisolava sulla sua spalla, lanciava minacce, con il viso ricoperto della polvere scintillante rigurgitata dalla risata del suo bambino.
«Non azzardatevi a fare un solo passo!» Allungò il braccio con cui teneva il catalizzatore, verso uno dei due, poi lo spostò verso l'altro. «Nessuno si porterà via il mio bambino!» esclamò, con due occhi iniettati di sangue.
Il bambino iniziò a piangere disturbato, sotto lo sguardo impassibile degli uomini.
Il più alto e corpulento fece un gesto con la mano, come a voler scacciare una mosca, e il bastoncino che faceva da catalizzatore per la magia della signora Prince volò dal lato opposto del salone, lasciandola inerme e sprovveduta.
«Signora, possiamo parlare in modo pacifico?» chiese a quel punto il più basso e anziano, Abram Fox.
La donna si trovò di nuovo impreparata. Il cuore le martellò nel petto e a non placare le sue ansie c'era Elia, che non voleva smettere di piangere, nonostante lei lo cullasse con entrambe le braccia ora. Si sentì costretta ad annuire, rendendosi conto che più che una leonessa sembrava un pietoso gatto nero.
I due estranei varcarono le porte della sua abitazione senza battere ciglio. Due sguardi di pietra e le labbra rigide di entrambi la rendevano nervosa, mentre il più alto si sistemava la cravatta e poggiava sul tavolo una valigetta.
«Grazie Roger.» Abram lo affiancò, senza attendere che la donna li seguisse o si sedesse di fronte a loro, schiacciò i due bottoncini che fungevano da sicurezza per la valigetta e la spalancò, formando una barriera di cuoio tra i due bruti e la signora Prince.
L'uomo alto rimase in piedi accanto al segretario Fox, comodamente seduto sulla seggiola di pioppo, che nel mentre aveva tirato fuori dalla valigetta la lettera, le cui parole perseguitavano Pamela giorno e notte, e iniziò a leggerla con un tono noioso e ripetitivo.
Quello fu un fastidioso ronzio nelle orecchie della donna. Lei non aveva alcun bisogno di sentire di nuovo quelle espressioni che, anche se fino a qualche attimo prima non possedevano un tono, le davano solo un déjà-vu di fastidi ed emozioni persistenti.
Al termine della lettura, che non aveva risparmiato neanche un secondo di quel tempo che lei giudicava perso, il signor Fox sorrise per la prima volta da quando aveva varcato l'uscio di casa Prince. «Sa, signora Prince, forse mi è sfuggito di dirle che l'invito non era declinabile» disse, con un'espressione che alla donna parve di finta compassione.
Aveva paura di rispondere, ma se l'idea di perdere suo figlio la rendeva debole, l'amore che provava nei suoi confronti la faceva sentire forte. Strinse più forte Elia fra le sue braccia, cullandolo, e tirò fuori un sorriso a trentadue denti. La signora Prince aveva delle belle labbra carnose, con un sorriso splendente, capace di piegare chiunque. Il suo aspetto trasandato la invecchiava e la rendeva poco attraente, ma sapeva di avere tutte le carte in regola per far cedere un uomo sotto lo sguardo giusto. Confidò in sé stessa più di quanto non avesse mai fatto prima.
«Sa, signor Fox, non siamo tutti come voi: aperti all'idea che due realtà possano coesistere. Mio figlio ha una malattia, niente che non si possa risolvere. Si fidi, se le dico che Elia è il bambino sbagliato per i vostri giochetti, lui è uno di noi...» sottolineò l'ultima parola, stringendo la lingua fra i denti.
Elia non faceva parte di quei luridi Senzanome e non potevano ricadere sulle spalle del piccolo gli sbagli di un padre, che era e sarebbe rimasto assente.
Abram non sembrò cedere, né tanto meno scoraggiarsi o arrabbiarsi nel sentire che la donna paragonasse la sua realtà a una malattia. Rimase impassibile. «Signora, sa che ho scelto personalmente i destinatari delle lettere? Tre bambini che meritano un'opportunità migliore di questa. Suo figlio vive in una terra che prima o poi lo ingoierà, proprio come accadrà a tutte quelle persone che non hanno ricevuto questa missiva. È sicura che non vuole avere nulla a che fare con noi?» Non sorrideva, per l'intero discorso non aveva spostato lo sguardo dalla valigetta che a parere della signora Prince non conteneva altro, oltre che la lettera delle sue rovine.
Lei continuò a negare con la nuca, voleva dare l'aria di una persona ferma e irremovibile, così dovevano vederla quei vermi delle Barriere, fiera e orgogliosa di ciò che era.
A quel punto l'uomo calvo ruotò la valigetta verso di lei, avvicinò il suo dito indice verso il bambino, provocando uno scatto da parte della madre, che però non evitò all'omone di prendere una lacrima cristallina dalla guancia di Elia, che, nonostante avesse smesso di singhiozzare, aveva ancora i segni del pianto sul volto arrossato.
L'uomo fece attenzione a non perdere la goccia rubata e, sotto lo sguardo sconcertato della signora Prince, infilò il dito nella valigetta.
Il fondo di cuoio vuoto si cristallizzò al contatto con la lacrima, diventando uno specchio argenteo. Era uno spettacolo quella luce cristallina che fuoriusciva dal nulla, ma Pamela dubitava che avrebbe avuto un finale lieto.
«Signora, le posso gentilmente chiedere di poggiare un suo dito all'interno della valigetta?» domandò il signor Fox.
Lei si guardò attorno, non voleva fidarsi, ma a quel punto si trovava messa alle strette più di quanto sarebbe riuscita a immaginare qualche attimo prima: seduta su una seggiola con il suo bambino in braccio e un omone di fronte a sovrastarla, largo e alto il doppio di lei. Pamela annuì e mise l'alluce sulla superficie gelata, guardò i due che si fecero un cenno concorde, mostrandole un sorriso.
Il signor Fox, dalla sua postazione si rizzò in piedi e osservò con lei il nulla che si stagliava di fronte ai loro sguardi. La valigetta rimase com'era, uno spettacolo di vetro argenteo, sotto lo sguardo confuso dei due uomini che iniziarono a lanciarsi occhiate accigliate.
Sembrava che qualcosa non fosse andato per il verso giusto, ma la donna non era in grado di comprendere che cosa fosse.
«E con questo?» chiese lei, alterata.
Abram non le rivolse neanche un verso, continuava a fissare l'uomo calvo, che sembrava attendere un qualunque cenno. Lei se ne rese conto, si rese conto che qualunque cosa avesse fatto non sarebbe mai sfuggita al destino che i Senzanome riservavano per il suo bambino o, magari, quello era il segno che Elia non fosse il bambino giusto. Sperò che gli sguardi accigliati degli uomini significassero quello.
Pamela fece per staccare il dito dalla lastra gelida su cui era poggiato e, in quell'esatto momento, il più grosso tra i due la sollevò di peso e la strinse fra le braccia. Abram le sgusciò davanti e sfilò dalle sue braccia Elia con le mani viscide di brama e le rivolse un'occhiata di finta pietà, che fece ribollire il sangue nelle vene della donna.
Pamela strillò di dolore, una fitta lacerante al petto la costringeva a patire tanto male che per lei era più di un'emozione, ma un tribolo fisico. Mentre le urla di suo figlio le penetravano in ogni lembo della pelle, il suo sconforto intenso si espandeva dal cuore al petto e le faceva tremare le gambe e dolere la testa.
Tirò calci sugli stinchi e pugni contro la schiena di quell'uomo che sembrava fatto di pietra. Talmente stava male ed era forte l'odio che provava, da non rendersi conto di quel che accadeva intorno, finché non notò la valigia a terra e Abram che l'attraversava con il suo bambino fra le braccia.
Quella valigia, all'apparenza innocua era vittima di una stregoneria. Lei aveva lasciato entrare il male dalla sua porta e ora il male la stava portando via.
Non era in grado di lottare, non mentre quell'omone la trascinava con sé nella valigia. Provò talmente tanta paura che tra i singhiozzi si costrinse a chiudere gli occhi e la voce da demonio di Abram Fox rimbombò nel tunnel nero come la pece: «Mi dispiace, signora Prince, ma non lascerò morire suo figlio a causa della sua ignoranza.»
Odiò il padre di suo figlio come non aveva mai fatto fino a quel momento e presa dall'ira ingoiò della saliva amara, prima di urlare: «Giuro, Abram Fox, che io ti farò affondare nel modo più doloroso che esiste.» Quella promessa fece eco nella galleria.
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